IL PENSIERO MEDITERRANEO

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UN POPOLO DI CASTRATI (DALLA STORIA DI REGALPETRA- 1956) DI LEONARDO SCIASCIA –  di Giovanni Teresi

Leonardo Sciascia

Leonardo Sciascia

L’ironia di Sciascia si incentra sul morbo italico, il trasformismo, male quasi genetico del popolo italiano, soprattutto degli uomini all’interno del nuovo stato nazionale; trasformismo che è agevolato e promosso da quell’altra malattia degli italiani che è la mancanza di memoria. Per cui la storia non ha nulla da insegnare a un popolo incapace di apprendere perché incapace di ricordare. E su questa amnesia collettiva, il potere statale, fatto di una storia infinita di soprusi ed imbrogli, basa la propria sopravvivenza.

“Il Dizionario geografico del 1819 dice di Regalpetra – «Popolazione 7.360. Distante 16 miglia dal mar africano, e 68 da Palermo. Esporta grano, vino, e zolfo, perché ha delle solfatare ne’ suoi contorni; abbonda di solfato di calce ossia gesso bellissimo, e vi si rinviene pure del salgemma». Di zolfare e saline si dice nei privilegi reali relativi a Regalpetra, dal secolo XIV in poi: ma l’epoca d’oro delle zolfare è certo quella dell’ottocento, quando gente nuova cominciò a tarlare le terre aride dell’altopiano, borgesi che sotto la terra stenta che coltivavano sentirono gialle vene di ricchezza improvvisamente splendere, di uno si racconta che nell’ozio di un meriggio vide lo zolfo affiorare da un formicaio, diventò ricco; e se qualcuno sbagliava, bucava a vuoto e si impegnava fino ai capelli, non pochi erano quelli che fondavano grandi fortune, e la catena d’oro che segnava due curve sul gilè di fustagno diventava l’emblema della ricchezza nuova. Per le zolfare che ovunque fiorivano, l’aria di Regalpetra prendeva un che di acre, bruniva l’argento che veniva ad ornare le case dei nuovi ricchi, persino negli abiti l’acre odore dello zolfo bruciato stingeva …

E quando dalla notte della zolfara i picconieri e i carusi ascendevano all’incredibile giorno della domenica, le case nel sole o la pioggia che batteva sui tetti, non potevano che rifiutarlo, cercare nel vino un diverso modo di sprofondare nella notte, senza pensiero, senza sentimento del mondo. A far cessare il lavoro dei ragazzi nelle zolfare venne, ma pochi anni addietro, e meglio delle leggi, l’energia elettrica; ma il momento buono era già passato, delle tante zolfare a Regalpetra ne restava una sola in attività, quella di Gìbili dove ancora lavorano un centinaio di picconieri. Le altre rimasero abbandonate nelle campagne, vi trovano sicuro rifugio i latitanti.

Passarono i garibaldini da Regalpetra, misero un uomo contro il muro di una chiesa e lo fucilarono, un povero ladro di campagna fucilato contro il muro della chiesa di San Francesco; se ne ricordava il nonno di un mio amico, aveva otto anni quando i garibaldini passarono, i cavalli li avevano lasciati nella piazza del castello, il tempo di fucilare quell’uomo e via, l’ufficiale era biondo come un tedesco. Carusi e picconieri continuarono a lavorare nell’inferno della zolfara per dodici quattordici ore al giorno, le terre non rendevano e i braccianti lavoravano tutto l’anno solo per pagare il debito del grano che i padroni avaramente anticipavano, la leva toglieva alle famiglie braccia per il lavoro; ci furono padri che ai figli diedero colpi d’accetta a un piede per farli riformare alla leva, ho sentito raccontare da un vecchio contadino che, quando per lui venne il momento di presentarsi alla leva, di notte sentì suo padre chiedere consiglio a sua madre – che dici? gli cavo un occhio o gli faccio saltare le dita di un piede? – e la notte stessa scappò di casa, non ritornò che per farsi prendere alla leva. Perciò nel ’66 i regalpetresi fecero rivolta, bruciarono il municipio, le maledette carte bruciarono nel vecchio convento dove si erano trasferiti gli uffici comunali; e vennero soldati piemontesi, portarono via gli uomini che avevano fatta la rivolta, la leva continuò.

Ma i galantuomini con il nuovo governo ci stavano, i produttori e i gabellotti delle zolfare, i borghesi fatti ricchi dal furto dall’usura dagli atti falsi (è incredibile quanta proprietà a Regalpetra è passata da una mano all’altra con falsi atti di vendita o testamentari); ma ci stavano anche signori che il popolo rispettava per la loro onestà e gentilezza, si era perduto il ricordo del modo come la loro ricchezza era stata edificata, il ricordo dl uomini duri e avidi da cui discendevano gli uomini eleganti e svagati, gentili generosi pieni di luminosi pensieri, che parlavano dell’Italia e della libertà. Qui ancora qualche famiglia viene indicata come borbonica; ma da atti e testimonianze risulta che quelle famiglie indicate come borboniche hanno avuto, anche prima del ’60, mazziniani e liberali, uomini che rischiarono la galera o ci cascarono, che pubblicarono opuscoli, che con libertà e disinteresse tennero fede alla loro tradizione.

Perciò mi chiedo com’è possibile che così le posizioni si siano rovesciate, e la risposta mi viene da quello che io ho visto quando il fascismo è crollato, i fascisti nel Comitato di Liberazione, i fascisti che epuravano, gli antifascisti veri sconvolti e pensosi per gli avvenimenti, pietà e pudore li allontanavano dal giuoco delle vendette e delle ricompense, rischiarono di essere considerati fascisti: questo avveniva qui, l’oggetto dell’odio subìto divenne piccolo e vile, il fascista apparve abbietto e implorante, in un vero uomo non poteva che far scaturire pietà, meglio dove il fascista impugnò l’arma ed uccise, si mise al di fuori della pietà.

Così come ho visto gli antifascisti lasciare ai fascisti i meriti e le vendette che all’antifascismo si credeva spettassero, così penso sia accaduto ai Martinez ai D’Accursio ai Munisteri che a Regalpetra vissero anni di ansia e di lotta per l’unità e la libertà d’Italia: vennero fuori i Lascuda, che negli ultimi anni dei Borboni avevano ricevuto titolo di baroni, i Buscemi e i Napolitano, voracissimi usurai e ladri, e per loro furono i prefetti del nuovo Regno, gli ufficiali di polizia, per loro lo Stato. I Martinez lottarono finché restò loro un tomolo di terra da vendere, per circa trent’anni lottarono contendendo ai Lascuda l’amministrazione del Comune, riuscirono persino a trascinare sul banco degli accusati il maggiore dei Lascuda che aveva fatto ammazzare una guardia comunale della cui fedeltà dubitava; ma il barone fu assolto, e i Martinez non potevano a lungo lottare contro gente che accresceva la sua ricchezza, che in proporzione alla ricchezza assumeva potenza e impunità; la ricchezza dei Martinez invece era divorata dalle usure, i Napolitano ingoiarono nel giro di pochi anni case e terre dei Martinez. L’ultimo dei Martinez morì solo nell’unica stanza ingombra di vecchi mobili che gli era rimasta, costò al Comune lire ventidue e cinquanta, la cassa e il carro dei poveri, avevano deciso di seppellirlo nel terreno dei poveri, qualcuno si ricordò che c’era un tomba di famiglia sotto il rigoglio delle ortiche.

Don Saverio Napolitano morì invece nel palazzo dei Martinez, in una stanza piena di dolce luce, i figli e i nipoti intorno: commendatore di non so che ordine pontificio, gerarca fascista, presidente di pie associazioni e di un consorzio commerciale; per tutta la vita non bevve che acqua di sant’Ignazio, ogni mattina un servo portava in chiesa un fiasco di due litri per una particolare benedizione, evidentemente ne aveva bisogno, morì parlando di cambiali, ebbe un funerale con messa grande e oratore del governo. Il nome Martinez non è rimasto che sulla cantonata di un vicolo, «vicolo Martinez» in vernice nera, e sotto la targa di legno « vietato lordare »; i Munisteri e i D’Accursio sono considerati borbonici; i Lascuda i Buscemi e i Napolitano hanno ancora ricchezza e godono considerazione. I Martinez fecero strade scuole edifici pubblici, fino a pochi anni addietro il paese era come essi lo avevano lasciato, l’amministrazione dei Lascuda, associati ai Buscemi e ai Napolitano, non aveva portato che corruzione ed usura.

Ma i Lascuda restarono nella fantasia, più che nel ricordo, dei regalpetresi; forse perché avevano imponente figura e parola cordiale. Uno di loro fondò una cassa di risparmio, e i borghesi gli affidarono quei pezzi da dodici che tenevano sotto il mattone, don Giuliano Lascuda scappò coi quattrini, lo presero a Milano: ma al processo tutti i borghesi dichiararono che non gliene volevano, una croce sopra ci mettevano, ne erano persino contenti. Ed era vero: quando don Giuliano fu messo in libertà andarono tutti ad accoglierlo alla stazione con la banda, nella famiglia dei Lascuda era considerato come un bambino pieno di estri e capricci, e cosi il popolo lo considerava; ma i suoi non pagarono per far sì che non andasse in galera, e i borghesi gli fecero invece dono dei loro risparmi. Sicché don Giuliano cominciava i comizi – popolo cornuto – ma intendeva dire che il popolo pazientemente aveva sopportato i Martinez, e il popolo con convinzione applaudiva. Forse di ciò si ricordò recentemente un regalpetrese candidato al Parlamento nelle liste dei fascisti, cominciò – popolo di castrati – riscosse larga approvazione.”


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