Barbara Demick, I mangiatori di Buddha. Vita e ribellione di una città del Tibet, Iperborea edizioni 2024, pag.368. Traduzione dall’inglese di Katia Bagnoli
di Marisa Cecchetti
La città di cui parla il titolo è Ngaba, nel Sichuan, dove l’altopiano del Tibet si incontra con la Cina, a 3350 metri di altezza, che ha due monasteri, uno a destra e uno a sinistra, quelli di Se e di Kirti. Barbara Demick, scrittrice e giornalista americana che lavora per il Los Angeles Times e collabora con il New Yorker, è stata sette anni in Cina, e ha indagato scrupolosamente sulla storia del Tibet, puntando in modo particolare su Ngaba, la città ribelle per eccellenza.
Purtroppo nel 1903 era stato un colonnello britannico di stanza in India a guidare una spedizione in Tibet provocando la morte di migliaia di tibetani. Anche se il governo inglese ripudiò la missione e nel 1911 il Tibet divenne di nuovo uno stato sovrano, questo tuttavia risvegliò l’attenzione della allora dinastia Qing. Accadde poi che nel 1934 i comunisti inseguiti da forze di Chiang Kai-shek, guidati da Mao Tsedong, si rifugiassero nella regione del Sichuan, ma l’Armata Rossa lì fece la fame, tanto che i soldati arrivarono a cibarsi delle offerte votive che trovarono nei monasteri, i Torma, piccole statue di Buddha fatte di farina. L’arrivo dell’Armata Rossa aveva fatto fuggire gli abitanti di Ngaba ad alta quota, dove i cinesi non avrebbero potuto resistere, e la regina addirittura aveva dato alle fiamme il palazzo reale per non lasciarlo agli invasori.
La ricostruzione de I mangiatori di Buddha parte dal 1958 per arrivare ai giorni nostri, e offre una lettura che, pur riportando dati storici inconfutabili, trascina come un romanzo: un progetto non facile da realizzare, per gli ostacoli e le restrizioni imposte ai giornalisti, così che Barbara Demick ha dovuto imparare a muoversi sull’altopiano tibetano senza attirare l’attenzione. Soprattutto ha raccolto informazioni tra i tibetani in esilio nel Nepal e in India, dove dal 1959 si trova anche il quattordicesimo Dalai Lama, nel rifiuto delle linee e degli attacchi alla religione da parte della Repubblica Popolare Cinese proclamata da Mao Zedong nel 1949.
Nel 1958 ha fine l’ultimo regno Mei che aveva capitale a Ngaba, a 1600 chilometri da Pechino -allora a un mese di viaggio a cavallo – un regno che si estendeva in una regione organizzata in modo feudale, viva di scambi commerciali, dove si allevavano yak e mucche, si viveva di tsampa, l’orzo tostato, si portava la chuba, un lungo cappotto fermato in vita da una cintura, e dove le regine, che avevano più autorità dei loro mariti, fondavano monasteri, firmavano trattati, guidavano eserciti.
L’ultima principessa Mei, Gonpo, che nel 1958 all’età di sette anni viene allontanata dal palazzo insieme ai familiari -il padre era stato allontanato con un inganno – e portata in un Centro di accoglienza dei popoli, si trova a seguire le linee del partito quasi con orgoglio di appartenenza e a imparare il mandarino. Ma subisce angherie e umiliazioni perché riconosciuta come figlia di re: “I tuoi genitori non ci sono più – le dice nel 1967 una compagna. – Non piangere. Erano controrivoluzionari e non dovresti soffrire per loro”. Gonpo finisce in un campo di lavoro nel nord, tormentata crudelmente a causa delle sue origini.
La rivoluzione culturale di Mao, “quando il cielo e la terra si rovesciarono”, vedeva l’istituzione dei collettivi e delle comuni, l’assalto alla religione- la religione è un veleno, ripeteva Mao – le punizioni a chi era sorpreso a pregare, a cucinare senza partecipare alla mensa comune, la persecuzione di tutti coloro che erano catalogati come capitalisti – anche se vendevano erbe e un po’ di lana per sopravvivere – la lotta alle vecchie idee, vecchia cultura, vecchie tradizioni.
La ricostruzione storica della Demick rende merito a tanti personaggi che lei ha incontrato, con storie di ingenua fiducia iniziale nel cambiamento, poi di sgomento davanti ai massacri perpetrati dai cinesi in Tibet, alla distruzione di monasteri, alla umiliazione dei monaci, alle ristrettezze alimentari in cui erano tenuti, fino alla rivolta contro il governo cinese nel 1968, in difesa della religione e rispetto della figura del Dalai Lama: gli abitanti di Ngaba tagliarono le line elettriche – loro potevano fare a meno dell’elettricità – e resero impraticabili le strade alle forze governative.
Con la morte di Mao Tsedong nel 1976 e il processo contro la Banda dei quattro – 34.375 erano i morti e 750 i perseguitatidi cui si era macchiato il regime – si riaprono i monasteri, si apre una scuola media tibetana a Ngaba; i cinesi vedono Ngaba un luogo dove trasferirsi per fare soldi e si appropriano sempre più del territorio, creando profonde disparità tra loro e gli abitanti. Intanto le restrizioni governative permangono ovunque.
La Demick non tralascia niente, né la strage di studenti cinesi in piazza Tienammen a Pechino nel 1989, né le condizioni di vita dei tibetani in occasione di Giochi olimpici del 2008, quando strade e monasteri a Ngaba si riempirono di militari per tenere sotto controllo la città ribelle, nel timore che il mondo scoprisse un Tibet dove non si viveva per niente felici, come la propaganda governativa voleva far credere. Domina su tutto la rivolta dei monaci nello stesso anno, quando in tremila escono dal monastero e vanno verso la strada principale inneggiando al Dalai Lama, chiedendo l’indipendenza del Tibet, scandendo il mantra om mani padme hum. Le misure adottate dal governo in seguito alle ribellioni erano sempre drammatiche.
A cominciare dal 2009 si apre il doloroso il capitolo delle immolazioni dei monaci che, nel rispetto della non violenza predicata dal buddhismo, non aggredivano gli altri ma se stessi, dandosi fuoco con la benzina – vere torce umane – per porre il problema del Tibet all’attenzione del mondo. Ngaba ebbe il maggior numero di immolati e il monastero di Kirti le peggiori restrizioni: “In uno scenario mondiale che aveva perso interesse per i diritti alla autodeterminazione dei popoli come i curdi e i palestinesi, ed era assorbito dagli orrori della attualità, i tibetani erano usciti dal radar. Le immolazioni li riportarono in auge”.
La fuga dalla morsa del partito è sempre difficile, quasi impossibile, perché “Il partito comunista controlla il cielo e la terra. Non si scappa”. Addirittura nel 2007 l’amministrazione statale per gli affari religiosi promulgò una direttiva secondo la quale, per reincarnarsi, era necessario un permesso preventivo del governo cinese! Difficili rimangono anche i contatti del Dalai Lama con altri Paesi, nel timore di compromettere i rapporti col governo cinese che lo perseguita.