Il Declino dell’Arte? Dalla Venere di Milo alla Venere di Stracci”
di Pompeo Maritati
L’arte scultorea ha attraversato un viaggio millenario, un cammino che dalle raffinate vette dell’antica Grecia ci ha condotti alle soglie di un’estetica contemporanea spesso intrisa di provocazioni, simbolismi e, talvolta, di un apparente disprezzo per il sublime.
Il confronto tra la Venere di Milo e la Venere di Stracci di Michelangelo Pistoletto è emblematico di questo percorso, di come l’arte si sia evoluta o, per alcuni versi, involuta. Da una parte, la Venere di Milo, una delle più alte espressioni della bellezza ideale e dell’armonia classica, scolpita in marmo bianco attorno al 130 a.C., oggi conservata al Louvre e universalmente riconosciuta come simbolo di perfezione formale e grazia eterna.
Dall’altra, la Venere di Stracci, opera di Pistoletto del 1967, una figura altrettanto femminile ma ricoperta di stracci, un simbolo delle contraddizioni e del degrado della società moderna, esposta di recente in una piazza di Napoli. È un dialogo tra due visioni del mondo e dell’arte, due approcci diametralmente opposti che suscitano una riflessione profonda sul significato dell’arte e sulla sua funzione nella società contemporanea.
La Venere di Milo è un capolavoro di perfezione estetica, realizzata con una maestria tecnica che rasenta l’inarrivabile. Il suo marmo levigato, il gioco sapiente di luci e ombre sulla sua superficie, l’equilibrio delle proporzioni e il senso di armonia che trasmette rendono questa scultura un paradigma di bellezza, qualcosa che trascende il tempo e lo spazio. Qui non vi è traccia di sovrastrutture concettuali o di ambiguità interpretative: la bellezza è pura, assoluta, universale. La Venere di Milo rappresenta la celebrazione del corpo umano come incarnazione della divinità, della perfezione, della grazia divina che si riflette nelle forme terrene.
È una celebrazione dell’eterno, del trascendente. In lei non si avverte alcun segno di caducità o di declino. È una figura che si pone al di sopra della storia e del contingente, un’icona di immortalità. Pistoletto, invece, con la sua Venere di Stracci ci mette di fronte a una realtà diametralmente opposta. Qui la bellezza ideale viene calpestata, coperta e soffocata da stracci, simbolo della spazzatura, del degrado, dell’obsolescenza. La Venere di Stracci, seppur riproduca una figura classica, si rivolge al pubblico non più come icona di perfezione, ma come manifestazione del consumismo sfrenato, della fragilità della condizione umana e dell’abbandono. Dove la Venere di Milo celebra l’eternità, la Venere di Stracci è l’emblema della transitorietà.
L’uso degli stracci, materiali di scarto, eleva il banale e il quotidiano a linguaggio artistico, ma nello stesso tempo infrange il legame con la tradizione classica, trasformando l’opera in una sorta di critica sociale, in una denuncia della condizione postmoderna. Tuttavia, dietro questa provocazione si cela una domanda fondamentale: possiamo ancora parlare di arte quando ciò che viene presentato non è altro che un insieme di stracci abbandonati su una figura senza vita, senza anima, priva di quella grazia che rende immortali le sculture del passato? C’è un vuoto che pervade la Venere di Stracci, un vuoto che non è solo fisico, ma anche concettuale. Se l’arte ha il compito di elevare l’animo umano, di farci riflettere sulle nostre radici, sulle nostre aspirazioni e sul nostro posto nell’universo, la Venere di Milo assolve perfettamente a questa funzione. È un’opera che ci ricorda il potere della bellezza e della perfezione, il potere della natura umana quando è al massimo delle sue potenzialità.
La Venere di Stracci, al contrario, sembra volerci dire che non c’è più spazio per la bellezza, che il mondo moderno ha perso la capacità di apprezzare il sublime e si è ridotto a uno scenario di rifiuti e di scarti. Il confronto non potrebbe essere più impietoso. Se la Venere di Milo è un’opera che innalza lo spirito, la Venere di Stracci lo affossa. Non vi è bellezza, non vi è speranza, non vi è alcun tentativo di elevarsi oltre il contingente. C’è solo la desolazione, il disfacimento, la perdita di un senso estetico che, per millenni, è stato alla base della creazione artistica. Cosa ci resta, allora, dell’arte? Se accettiamo che la Venere di Stracci sia un’opera d’arte al pari della Venere di Milo, stiamo forse ammettendo che l’arte non ha più bisogno di bellezza, di maestria tecnica, di grazia. Stiamo ammettendo che l’arte può essere qualunque cosa, anche un ammasso di stracci. Ma a quale prezzo? A quale costo per la nostra umanità?
La Venere di Stracci è forse una perfetta metafora del nostro tempo, un’epoca in cui il valore dell’arte viene diluito nella superficialità e nel consumo rapido, dove l’idea e il messaggio sovrastano la forma e la bellezza viene relegata a qualcosa di anacronistico, di superato. Eppure, la Venere di Milo ci ricorda che l’arte può essere altro, che può e deve essere un rifugio, un’ancora di salvezza per la nostra anima.
La Venere di Stracci è un grido di disperazione, ma è anche il riflesso di una scelta culturale che ha progressivamente abbandonato l’idea di bellezza in favore di un’arte che preferisce il brutto, il deforme, lo scarto. In questo confronto tra le due Veneri, appare chiaro che qualcosa è andato perso. La capacità di creare opere che non solo raccontino la realtà, ma che aspirino a trascenderla, a portarci in un mondo di perfezione e armonia, sembra essere sfumata. Se Pistoletto ha voluto denunciare la deriva consumistica della società moderna, ci è riuscito perfettamente. La Venere di Milo ci mostra che l’arte può essere eterna, che può parlare all’umanità di qualsiasi epoca, mentre la Venere di Stracci ci dice che siamo ormai prigionieri del nostro tempo, incapaci di guardare oltre il presente e di creare qualcosa che duri più di un attimo fugace.
Non si tratta solo di una questione di materiali, di marmo contro stracci, ma di una questione di visione. La Venere di Milo è il prodotto di una civiltà che credeva nella possibilità di raggiungere l’ideale, la Venere di Stracci è il prodotto di una società che ha rinunciato a qualsiasi forma di idealismo, accontentandosi del contingente e del provvisorio. Se questa è l’arte che ci rappresenta oggi, non possiamo fare a meno di chiederci dove abbiamo sbagliato e se c’è ancora spazio per tornare a creare opere che parlino non solo della nostra decadenza, ma anche della nostra capacità di riscatto. In un’epoca dominata dal caos e dall’incertezza, l’arte dovrebbe essere un faro, non un ulteriore segno di confusione. Se il confronto tra la Venere di Milo e la Venere di Stracci ci insegna qualcosa, è che l’arte, per sopravvivere, ha bisogno di riscoprire il suo legame con la bellezza, con l’eterno, con quel senso di meraviglia che ha fatto innamorare generazioni di esseri umani davanti a capolavori senza tempo. Ma finché continueremo a celebrare gli stracci, avremo solo opere che ci ricordano la nostra fragilità, non la nostra grandezza. In conclusione la Venere di Stracci, ha comunque un suo pregio artistico, quello di ben rappresentare il valore etico della nostra società, visto quello che sta accadendo al nostro mondo, è annoverabile ad uno “straccio”.