IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Giuseppe Marius Conte, Noi di Inessa. Rime barbare, Avola, Libreria Editrice Urso, 2024

CONTE MARIUS COP 2024

di Vincenzo Fiaschitello

Un tratto essenziale della poesia di Giuseppe Marius Conte è la ricerca di un senso della esistenza, della sacralità di un passato e di un presente, non soltanto nel silenzio interiore ma anche nel desiderio del colloquio con gli altri.

Prova ne sia lo stesso titolo dato alla plaquette. Il poeta non scrive “Io di Inessa”, ma “Noi di Inessa”, intendendo con ciò coinvolgere l’intera comunità della sua giovinezza e del tempo presente, oltre che di quella comunità vissuta anticamente nella città scomparsa (Inessa), ridotta in cenere, nonostante il valore di eroi come Ducezio, re dei Siculi.

La sua incessante attività lo ha spinto a una ricca produzione letteraria (lavori teatrali, romanzi, racconti, poesie, traduzioni, saggi storiografici), frutto di un intenso e sistematico studio che respinge chiaramente l’idea di una ispirazione improvvisa e superficiale.

I suoi versi veicolano emozioni, sentimenti, valori, che, nel richiamare la cultura greca, sono orientati a trovare risposte a quelle eterne domande dell’umanità riguardo al senso della vita, alla sua fragilità, all’amore, alla bellezza del cosmo.

Trovo nel discorso complessivo di questa plaquette (poesia e prosa) di G.M. Conte accanto alla drammaticità del tempo che travolge nel suo vortice ogni cosa e gli uomini con i loro sogni, con i loro desideri, quella profonda consapevolezza etica che nobilita il nostro essere nel mondo. Se, infatti, la vita è un misto di caos e di ordine, se la natura ha un suo inalterabile procedere secondo le proprie leggi, è cioè madre (natura naturans, come diceva Spinoza), che genera tutti i viventi e le cose (natura naturata), dobbiamo avvertire il dovere, noi uomini, di elevarci con mente e cuore a quello stato di grazia che garantisce a noi e alla comunità con la quale interagiamo quella sapienza che sola è condizione di pace, di giustizia e di bellezza.

A tali mete, ovviamente, Conte non arriva attraverso un discorso “logico”, proprio del pensiero filosofico, ma con un linguaggio poetico raffinato, sereno, nostalgico, ricco di sfumature eleganti che racchiudono i desideri del tempo passato e del presente. Attualizzare i desideri non è semplicemente aggiungere nostalgia a nostalgia e farle precipitare in quella sorta di buco nero che è il nostro ego, ma il segno di una maturità etica che gli concede una “distensione dell’anima” dove i venti, il mare in burrasca, gli asfodeli, la pungente opunzia, gli ulivi argentati delle Terre Nere, diventano tutti modalità di concretizzazione del tempo passato e dunque “de-sideri” (dalla etimologia latina de-sidera: cessare di contemplare le stelle e perciò “desiderare” per reinserirsi nel ritmo cosmico), passioni, pathos, che lo accompagnano nel progetto quieto-inquieto del vivere quotidiano.

La poesia di Conte si presenta come poesia lirica e poesia militante, dal registro sublime, elevato, per la preziosità della scelta linguistica, per un lessico che assume un precipuo valore, tanto da richiamarmi alla memoria due famosi versi del poeta greco Manolis Anagnostakis: “bisogna piantare le parole come chiodi/ ché non le prenda il vento”.

E’ forse il desiderio che alimenta la nostra angoscia, la nostra ansia, la nostra paura? E’ esso che genera l’infelicità? Sarebbe forse meglio il non agire? L’atarassia?

Ma è possibile, giusto, silenziare i desideri, i bisogni, per sperare di far sparire ansie e tensioni che attanagliano il nostro cuore?

Quando si desidera, si sogna, si ama, è come se fossimo proiettati al di fuori di noi stessi. E più cresce in noi la forza di attrazione da parte dell’oggetto esterno, più ci sentiamo quasi privati del tutto della nostra volontà di difesa, nel senso che avvertiamo di essere soggiogati se non completamente schiavizzati. E’ come se dentro di noi consentissimo l’installazione di un padrone, al quale si deve cieca ubbidienza.

E’ quel che succede ai poeti in special modo: sarà il prato fiorito, il cielo stellato, l’azzurro del mare, il tormento di un ricordo, il passato, lo sguardo e il gesto o la voce di una persona conosciuta casualmente, il desiderio della pace universale, l’amore, la condivisione del dolore innocente, ecc.

Tra coloro che hanno competenza particolare nell’esaminare questa condizione spirituale della persona, c’è chi segnala apertamente il pericolo della soggezione e sottomissione al “padrone” esterno venuto a insediarsi in casa non sua e c’è chi raccomanda di non assecondare questo tipo di stato d’animo, che orienta verso l’infelicità, e vivere la propria vita senza inutili complicazioni, così come viene.

E’ più che probabile che la via migliore sia la prima, a patto però di stabilire che il “fuori di sé” si configuri come bello, giusto, saggio.

Ora tenendo presente tale criterio, che cosa accade al poeta Giuseppe M. Conte? Quali sono le “cose” del suo fuori di sé che emergono da versi così belli, direi sublimi e autentici, che ci offre con grazia ed eleganza di stile classico? Mi piace qui sottolineare i due aggettivi, sublimi e autentici, che non utilizzo a caso, ma con la convinzione di non sbagliarmi.

Quando il notturno cielo si apre come una melagrana a mostrare le dorate stelle prillanti, ecco che dalle labbra del poeta zampillano versi come semi a far rifiorire la giovinezza della vecchia Grecia, a far rinverdire ombre e simulacri, miti e divinità, di una eterna Grecia, anche se questa

poi non è precisamente il luogo attorno ad Atene, ma la Sicilia e propriamente la fertile distesa ai piedi dell’Etna, dove gli antichi greci misero a frutto la loro genialità, affermando le loro virtù artistiche, culturali, senza purtroppo tenere a freno quello spirito guerriero che sfortunatamente procurò immense sofferenze e la scomparsa di intere città e comunità meritevoli di vita e di memoria storica.

E’ il caso di Inessa, la città del cuore di Conte. E qui la memoria si fa nostalgia per gente perduta nelle pieghe profonde del tempo, fino a trasformarsi in ricordo tenero per esseri umani a lui più vicini, il padre, il nonno, il bisnonno, come pure per le Terre Nere, le vigne, la casa di vicolo Pacini tanto amata.

Innamorato della sapienza e della grecità giunse il giorno dell’addio alle Terre Nere, alla Rocca, per vivere sotto altro cielo e altro sole, più clemente e meno ardente, ma sempre generoso tra gente laboriosa e accogliente. I suoi versi disserrano la gloria di una gente tra pietre calcificate dal sole, schiantate rovinosamente, tra ruderi visitati da serpi e rifugio di sorci e di lucertole. E il sogno torna non in un pozzo tenebroso e scuro, ma nel cuore candido del poeta che ha fatto del fatale iniziale esilio di gioventù una sorgente che ha irrorato di bellezza e di giustizia la sua esistenza in terra lombarda, anche se sulla sua pelle resta incancellabile il marchio del ricordo, come accade a chiunque lasci la propria terra.

E’ bello immaginare, come fa il poeta Conte, le parole con le ali: esse hanno qualcosa di divino, una volta pronunciate volano nell’aria e vi restano per sempre, perché altri le possano catturare. Le parole da sole non mentono, quando però si aggregano a formare le frasi, allora accade quel che accade in natura alle particelle subnucleari per formare gli atomi, le molecole, le cellule, gli organismi, e dar vita a tutti gli esseri viventi, che appunto contengono la straordinaria diversità per bellezza, sensibilità, bontà, ma purtroppo a volte anche per bruttezza, malvagità, velenosità. Così è per le frasi che possono giungere alla verità, alla sapienza, alla sublimità, ma anche a suscitare la violenza, l’offesa, la minaccia, fino a scacciare la pace e portare la guerra tra i popoli.

Ma andiamo nel dettaglio.

La mitologia è presente a ogni passo: vedi le ninfe, con i loro prestigiosi nomi, nel mare, nei boschi, nelle valli. Incontri l’ieri nel ricordo di Nino Puglisi, il maestro, pur coetaneo del poeta, che gli insegna “con cura la vita e il pensiero”, che gli parla dell’Orlando furioso, che presagendo il futuro prova a coronarlo d’alloro. E tra una corsa e l’altra su focose cavalle, banchettano “a luglio tra il carrubo e il gelso e il melograno/ a Terre Nere”. A questi ricordi dal sapore pastorale fanno da sfondo le canzoni alla Doris Day e il velo delle ninfe Oreadi, allegre e chissà forse (aggiungo io) anche un po’ brille al solo sguardo dei “vini forti delle nostre campagne”.

La creatività del poeta trova la migliore espressione nella risonanza dell’arte classica greca: gli dei dell’Olimpo, le ninfe, che trasfigurati nell’attualità dei ricordi giovanili si muovono a presentificare emozioni e sentimenti, custoditi da sempre nel cuore della memoria, lungo il percorso misterioso della poesia, che viene a tempu e locu comu va la luna e si tu la chiami quannu t’abbannuna e si la cerchi… mille ni fai e non ni ‘zerti una. Impossibile dunque non pensare alla poesia come a un dono, a una grazia, a una Musa, che non viene a chiamata, ma soltanto quando lo decide lei!

Giuseppe M. Conte le chiama Rime barbare (sottotitolo della fulminante silloge Noi di Inessa), ma a parte la memoria carducciana, a me sembrano liriche di formidabile potenza artistica con non molte rime e tuttavia ricche di ritmi, di suoni, di linguaggio terso, limpido, di tale chiarezza classica da richiamare alla mente gli antichi poeti greci. Si potrebbe tanto discutere sull’aggettivo “barbare”, ma qui non è opportuno, basti soltanto dire che il termine nel caso in questione non si riferisce ovviamente a qualcosa di negativo. Tutt’altro!

Nei suoi versi c’è sempre un vento che rompe i silenzi, quei silenzi dell’anima sperimentati là, nella casa di vicolo Pacini, che annunciano la presenza dell’eternità, attraverso sentieri segreti, misteriosi, una eternità che “brillerà ai suoi occhi” nella sua schietta purità e bellezza, quale conforto ultimo e inequivocabile, al di là dell’apparente inutilità del vivere. Qui è presente la dimensione spirituale del poeta Conte che si manifesta da un lato come fedeltà terrena alla bellezza della poesia e dall’altro come bisogno di ricerca di qualcosa che va “oltre” il sé. Ma é certo che le due componenti non sono affatto in una condizione antinomica. – Per  eventuali ordini di acquisto inviare email a compra@libreriaeditriceurso.com        

                  


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