Evoluzionismo, Etica, Eternità. In equilibrio sulla fune della vita.
di Vincenzo Fiaschitello
Da una attenta lettura delle numerose opere scritte da Vito Mancuso
è possibile analizzare con rinnovato orientamento di pensiero il concetto di processo evoluzionistico di origine darwiniana, di Etica e di Eternità, alla luce di una spiritualità fedele al passato e al tempo stesso diversa e sorprendentemente coraggiosa.
Vito Mancuso esercitò la funzione di sacerdote per un anno. Poi andò dal cardinale Martini: a lui confidò di aver sbagliato strada e che pertanto desiderava essere aiutato a cambiare la sua posizione, pur restando fedele a quei principi religiosi appresi e sperimentati fino ad allora.
Se ci si libera della veste talare con relativa facilità, altrettanto non si può fare con quanto seminato nel cuore e nella mente. La sua straordinaria formazione teologica e di sacerdote traspare non solo dalla qualità e vastità del sapere, ma anche dal “metodo” di esposizione delle idee, brillante e razionale, concentrato attorno alla comprensione dei termini linguistici mediante il ricorso alla etimologia, in modo tale di essere sicuri del loro significato originario, ripulito da ogni incrostazione arrecata dal tempo (le parole non ci ingannano, egli dice, semmai sono le frasi nelle quali sono collocate che lo fanno) e al desiderio incrollabile di fare in modo che gli altri possano raggiungere lo stesso obiettivo, il bisogno di pensare, attraverso i suoi “consigli” e le sue straordinarie domande. Così leggiamo:” Lo sai qual è il criterio del tuo procedere in equilibrio sulla fune della vita? Lo sai verso quale scopo dirigi la tua energia vitale? Sei consapevole del metodo con cui affronti la vita?”
La fune della vita. Il metodo. Il punto di orientamento. L’energia vitale.
Sono questi gli interrogativi che ricorrono continuamente nei suoi libri che fanno di Vito Mancuso uno dei più brillanti e discussi teologi del nostro tempo.
Teologo laico ama definirsi Vito Mancuso, con una base formativa di orientamento religioso cristiano-cattolico.
La lettera del cardinale Carlo Maria Martini che fa da prefazione al libro
“L’anima e il suo destino” (Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina, Milano 2007) ci fa comprendere come le sue idee, non conformi alla tradizione ufficiale della fede cattolica sotto vari aspetti, gli procurarono una emarginazione dalla Chiesa. Il cardinale con paterno affetto e rara sensibilità scrive: “Hai avuto un bel coraggio a scrivere dell’anima… penso di sentire parecchie discordanze…ma non posso negare che tu cerchi sempre di ragionare con rigore, con onestà e con lucidità… il tuo libro incontrerà opposizioni e critiche. Ma sarà difficile parlare di questi argomenti senza tenere conto di quanto tu ne hai detto con penetrazione coraggiosa.” E la lettera di Martini concludeva: “Vedo che tutto questo sta portando frutto tutta la tua storia, la tua passione per la ricerca, il tuo cammino di onestà e di verità”.
E indagare se l’anima sia immortale o abbia lo stesso destino del corpo, se è probabile che essa possa sopravvivere in una dimensione diversa a noi sconosciuta, è un dovere della nostra mente, un bisogno del nostro pensiero che intende trovare una risposta alla perenne domanda: perché si vive? e “far sì che il nostro passare su questa terra risulti un viaggio e non un disordinato vagabondaggio”.
Certo dire “vagabondaggio” mi sembra davvero riduttivo dal momento che il termine richiama alla mente una condizione di deresponsabilizzazione, di indifferenza, di superficiale curiosità nei confronti della Natura e degli altri. Oggi, infatti, siamo coinvolti in uno stato di violenza senza limiti, in guerre, nell’odio tra i popoli, tra i nostri simili, nella distruzione, nell’affossamento della cultura, nel nichilismo, nella volontà di sostituire il nostro io a Dio.
Se Ulisse nella sua lunga odissea non avesse avuto la sua Itaca nel cuore e nella mente, come avrebbe potuto vincere sulle forze avverse: i ciclopi, le sirene, la maga Circe, ecc.?
La nostra esistenza si snoda lungo percorsi piani e accidentati, a volte gioiosa, altre volte dolorosa, carica di sofferenza. E’ solo grazie alla nostra Itaca interiore che possiamo accettare felicità e dolore, mantenerci in equilibrio secondo una rotta dettata dalla nostra Itaca. E se poi c’è qualcuno che dice che a lui questo richiamo dell’Itaca non serve, non lo sente neppure, e comunque vive lo stesso e forse meglio, è probabile che ci troviamo dinanzi al mistero delle antinomie di cui la nostra vita è coronata.
Vito Mancuso non ha alcun dubbio riguardo alla impossibilità di vivere senza Itaca: “Non vi riesco: spesso mi ritrovo a tendere verso di essa, verso ciò che sento come la mia patria lontana”.
Itaca è il richiamo di un desiderio che nasce dalla nostra interiorità, molto diverso dai comuni desideri che provengono dall’esterno, dai quali restiamo soggiogati temporaneamente con insaziabile voracità: soddisfatto il primo, ecco pronto un secondo, un terzo e via di questo passo.
Questa prospettiva, suggerisce Mancuso, già ci pone nella condizione della consapevolezza che si può realizzare una vita autentica, non eliminando il desiderio che è l’essenza stessa della vita, quella scintilla generata dall’energia vitale, ma tenendo a freno quei desideri effimeri che rendono inquieta la nostra vita senza assicurarle alcuna felicità, nonostante le apparenze passeggere.
Tra coltivare o annullare il desiderio, dunque, cosa è bene fare? Quel che è certo è che non si può sperare di annullare il desiderio e cadere nello stato di apatia, cioè di assopimento di ogni passione, di atarassia o imperturbabilità come insegnava Epicuro. Più che pensare di estirpare il desiderio, cosa che ci farebbe sprofondare nell’abisso del pessimismo e ci porterebbe all’annullamento della vita stessa, all’ideale del Nirvana di Schopenhauer, proprio per “domare” la vita e estinguere la volontà del vivere, è indispensabile accettare di avere un unico desiderio, guidato dalla rotta interiore, al quale ricondurre tutti gli altri desideri.
Due sono i sentieri che percorre Vito Mancuso nel presentare con umiltà ma indiscutibile perizia intellettuale il suo punto di vista su un insieme di questioni, non soltanto teologiche, che hanno da sempre investito la presenza dell’uomo sulla terra: il primo riguarda la scienza; il secondo attiene alla valorizzazione delle molteplici prospettive dei grandi filosofi del passato e del presente, nonché dell’apporto prezioso di tutte le religioni.
C’è in questo teologo laico il bisogno insopprimibile di spiegare (e qui il verbo assume proprio il significato etimologico di “togliere le pieghe” per offrirci un concetto come un lenzuolo stirato), come sia fondamentale per l’uomo il pensare. Oggi possediamo un vantaggio rispetto agli antichi: l’astrofisica, la fisica, la matematica, le neuroscienze, tutta la ricerca scientifica è a nostra disposizione per consolidare idee che ci consentono di chiarire con efficacia la prospettiva evolutiva della vita e della infinità del cosmo. Tale ricerca suggerisce a Mancuso il concetto primordiale di Energia che gli permette di superare il tradizionale dualismo di materia e spirito, di corpo e anima.
Il sapere scientifico, tuttavia, non va confuso con la sapienza, che è sintesi armoniosa di verità, di giustizia e di bene. Senza queste tre aspirazioni, l’uomo non è un sapiente, ma un sofista, il quale non vive per un qualcosa più grande di sé e “fa degenerare l’estetica in estetismo cioè nello sfruttamento della bellezza per sé; l’etica in moralismo, cioè nell’asservimento dell’etica alle ragioni del potere; la scienza in scientismo, cioè nello sfruttamento del vero e dell’esatto per la propria ideologia.” (Vito Mancuso, Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p.59).
La saggezza è ciò che i greci chiamavano phronesis, cioè disposizione guidata dal ragionamento a discernere, a distinguere, a valutare. A questo punto, Mancuso, dopo aver espresso il suo elogio della saggezza, in qualche modo frena il nostro entusiasmo per quella che egli considera superiore alla stessa sapienza, facendo con estrema franchezza anche l’elogio della Follia, quella che è la dimensione irrazionale e caotica dell’uomo e di tutto ciò che è caos, indeterminatezza, indisciplina, volontà di trasgressione presente nel nostro sottosuolo o Es. Vengono subito in mente i nomi di Erasmo da Rotterdam, di Giordano Bruno, di Dostoevskij, di Freud.
La realtà è che l’agire dell’uomo, come pensa Vito Mancuso, è guidato da idee contrastanti, antinomiche. Bisogna ammettere, egli dice, che, escludendo la situazione limite del desiderio del male per il male, se non c’è inquietudine e persino lacerazione difficilmente si può sperare di intravedere la verità: la phronesis diventerebbe eccessiva e colpevole prudenza, timore del rischio, “mortale nemica delle nobili azioni (Montaigne). Dobbiamo riconoscere la necessità del ricorso alla Follia, intesa come bisogno di negazione, di critica, di opposizione. Non troveremo mai il metodo giusto del pensare senza far leva su entrambe le dinamiche contrarie.
E qui siamo sul sentiero tracciato da Pascal, da Hegel: la contraddizione, l’opposizione, sono le regole della verità. Mancuso così conferma: “Non si può introdurre ordine in un sistema se non al prezzo di introdurre disordine in un altro”. (Vito Mancuso, Il bisogno di pensare, cit. p.69).
C’è una domanda che Mancuso si pone e che a me sembra quella suprema: A che scopo essere qui, se poi non si deve essere più? A che scopo l’essere, se poi sarà tutto non-essere? Pochi momenti di benessere, poche gocce di miele che la vita può concedere all’uomo, non possono giustificare la fatica, il dolore e infine la morte a lui destinati. A sostegno di tale amara condizione, Mancuso ricorda il libro biblico di Qohelet con il ben noto detto: Vanità delle vanità, tutto è vanità.
Il filosofo Emanuele Severino, recentemente scomparso, ha liquidato tale forma di pessimismo radicale, partendo dall’invito a tornare al pensiero di Parmenide sull’essere e riflettendo sulla impossibilità del non essere, in quanto non essere, è pervenuto alla logica conseguenza che tutti gli enti (uomo compreso) sono eterni, per il fatto stessi di essere.
Altra la via che percorre Mancuso. Dal bisogno di pensare, che non è semplicemente l’avere pensieri (tutti gli uomini hanno pensieri: buoni, cattivi, positivi, negativi, superficiali, ecc.), ma bisogno di pesare, come etimologicamente richiama il termine pensare.
Pesare che cosa? La nostra mente sorretta dalla ragione deve porre sui piatti della bilancia la tesi (magari quella che sosteniamo noi) e l’antitesi, cioè quella degli interlocutori. E se procediamo con onestà, cioè dopo aver fatto silenzio dentro di noi e esserci disposti al buon ascolto, possiamo constatare di giungere a un equilibrio dei piatti.
In tale prospettiva di equilibrio è evidente che non è possibile arrestarsi perché cadremmo nell’inazione, cioè in una condizione di stallo.
Il fascino della filosofia sta proprio in questo: ci dà l’iniziale spunto del thauma, della meraviglia, come diceva Aristotele, ma subito dopo tale meraviglia può diventare dolorosa, può trasformarsi in ferita, in trauma. Ecco che il pensiero filosofico ci mette dinanzi allo stupore del tutto, compreso il fatto che la ragione si imbatte in un limite invalicabile, che la sua capacità di comprensione non può andare oltre e si consegna al dubbio, all’indecisione, all’incertezza. E’ a questo punto che Mancuso, fedele alla lezione di Kant che, nella Critica della ragion pura, mostra l’incapacità della ragione di farci raggiungere un sapere certo e valido, respinge ogni forma di dogmatismo metafisico e scientista responsabili di massacri, di roghi, di lotte, per condanne di ribelli, di eretici, di nemici della ideologia religiosa o politica, e inclina verso una conciliazione-integrazione delle posizioni estreme, chiamando in causa il sentimento.
La ragione, infatti, ci conduce fino a un punto in cui il nostro pensiero non può andare oltre perché la risposta alle eterne questioni della vita (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo) è avvolta nell’antinomia: la risposta può essere giusta in un modo, ma può essere altrettanto giusta nel modo opposto. Resta, tuttavia, una consapevolezza e cioè che, se la ragione non può più procedere, ci fa intravedere la porta del sentimento, la porta di ingresso al mistero della vita. La spinta a far decidere per una tesi o per il suo opposto non proviene più dalla ragione, ma dal sentimento che se è di sfiducia verso la vita saremo orientati a non accettare che essa abbia un senso, se invece è di fiducia saremo guidati verso un pensiero positivo che afferma la presenza dentro di noi di un senso orientato a farci amare la bellezza, il bene, la giustizia.
Se ci domandiamo qual è la sorgente dalla quale sgorga questa forza positiva, Mancuso non ha dubbi sul fatto che tutto risalga a quella primordiale Energia che è tutt’una con la materia e che fa sì che non ci sia alcuna separazione tra spirito e materia. C’è una unica logica nel processo evolutivo, presente in tutti gli enti della Natura, dall’uomo agli animali, alle piante, al sasso. E’ in questa logica che si iscrive lo slancio vitale che è il sentimento e che può essere equiparato all’istinto di conservazione o di sopravvivenza, al quale Mancuso non esita ad attribuire una notevole valenza teoretica.
Non credo che tale affermazione possa sorprenderci più di tanto, dal momento che lo stesso Spinoza, convinto che la Mente Umana non possa essere distrutta come il corpo, afferma che di essa rimane qualcosa di eterno. E’ giusto pensare tra l’altro che questa prospettiva è in linea con le idee filosofiche del Rinascimento (Telesio, Bruno, Campanella), dette animismo o pampsichismo, che in tempi moderni troviamo in filosofi come Bergson e Whitehead.
Resta il fatto di analizzare il processo evolutivo cosmico nel senso di accogliere la tesi di una evoluzione fondata esclusivamente sulla tradizionale idea darwiniana della selezione naturale e del caso oppure della forza originaria produttrice di mutamenti, intesa come tendenza intrinseca della vita in grado di creare novità secondo un ordine e una complessità crescenti.
Si tratta, dice Mancuso, più che rigettare una delle due, di integrare. All’interno della Natura c’è una selezione, c’è anche il caso (purtroppo non c’è l’intervento continuo di Dio che ha fatto pensare all’esistenza dei miracoli, cosa assolutamente negata da Spinoza nel suo famoso Trattato teologico-politico, per cui fu allontanato dalla comunità ebraica di appartenenza), ma c’è una innata tendenza (slancio, forza, polvere vitale), che pervade la materia secondo una logica di aggregazione: dalla particella subatomica, all’atomo, alla molecola, alla cellula, al tessuto, all’organo, al sistema.
Tale logica di aggregazione è presente in tutti gli aspetti della vita, fino agli stessi complessi rapporti umani (società, politica, religione, ecc.).