“Giusto fra le Nazioni”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello
Una sera d’inverno ricevetti una email da un vecchio amico. Mi invitava a una conferenza per commemorare un personaggio che molti anni prima avevo intervistato.
Sarebbero state presenti due anziane signore che, allora bambine, lo avevano conosciuto personalmente.
Quel nome mi riportò alla memoria una delle ultime mie interviste, prima del pensionamento. Frugai tra i miei fascicoli, infatti, e facilmente ritrovai l’intervista, pubblicata sul giornale per il quale lavoravo.
Rileggendo l’intervista, mi vennero in mente le piacevoli circostanze che l’accompagnarono.
Era la prima volta che lo incontravo e subito, con voce calda e accattivante, mi mise a mio agio.
-Lei vuole sapere qualcosa della mia vita, non so se i suoi lettori la troveranno interessante! Ma prima, metta da parte registratore e taccuino, andiamo a chiacchierare attorno a una buona tavola. Conosco un ottimo ristorante, qui vicino.
Le faccio una rivelazione -continuò il professore- io mi sento di essere un uomo per natura coerente, di sani principi, sereno e comprensivo. E tuttavia mi sono sempre trovato a vivere tra le contraddizioni. Mio padre, operaio, sincero socialista, sindacalista, sempre pronto a difendere i colleghi dai soprusi del “padrone”, era ateo. Io, invece, cresciuto segretamente all’ombra di un gesuita, conosciuto durante l’estate in montagna con un gruppo di amici, avevo accolto con fervore la fede cristiana. Io, che amavo conoscere la gente, mi ero ridotto a vivere sempre più spesso in biblioteca a leggere, a sfogliare libri, tanto che mi chiamavano, come è facile immaginare, “topo di biblioteca”.
Quando il gesuita conobbe le mie intenzioni di farmi prete, restò molto perplesso, pensando anche alle difficoltà cui sarei andato incontro con mio padre. Parlavamo spesso della questione, finché un giorno mi disse: “Senti, io penso che puoi lavorare bene per la Chiesa, come tu desideri, anche senza ricevere il sacro ordine sacerdotale. Se tu accetti, posso segnalarti al rettore del collegio dei Fratelli delle Scuole Cristiane.
Là, pur restando laico, con la veste talare, potrai essere utile a molti ragazzi provenienti dalle classi popolari, così come ardentemente desiderava Giovanni Battista de La Salle, il fondatore della Congregazione. Hai un’ottima cultura e buona disposizione d’animo, potrai lavorare molto bene.”
Dopo qualche dubbio, accettai e iniziai la mia nuova vita, con quell’abito particolare che indossano quelli che in passato furono chiamati dal popolo Ignorantelli, perché nelle loro scuole non si insegnava il latino. Furono anni tranquilli e di intenso studio. Risalgono a quel tempo le pubblicazioni dei miei primi saggi di pedagogia.
La guerra mi sorprese “nel mezzo del cammin” della mia vita e, come tutti, fui costretto ad affrontare le restrizioni e i pericoli che essa procurava. Quando cominciò a profilarsi la persecuzione degli ebrei, il rettore non mancò di raccomandare il caldo invito del pontefice di fare il possibile per accogliere chiunque venisse perseguitato per le idee politiche e per le leggi razziali.
Confesso che per parte mia, quell’invito era scontato, perché lo spirito di carità, secondo i principi evangelici che avevo fermamente accettato, non poteva fare discriminazioni. Perciò mi prodigai, pur consapevole dei rischi ai quali andavo incontro, ad aiutare alcune famiglie di ebrei che conoscevo. Ma fu soprattutto nel giorno tragico del rastrellamento del ghetto ebreo, che dovetti impegnarmi al massimo.
All’accerchiamento del ghetto, erano miracolosamente sfuggite una ventina di persone, tra adulti e bambini. Si erano rifugiate nei locali dell’ospedale della vicina Isola Tiberina. Un mio
amico medico mi chiamò e mi spiegò che c’era una buona possibilità di nasconderli, indicandomi la via per raggiungere dei cunicoli completamente nascosti alla vista.
Rapidamente quasi tutti scomparvero in quel nascondiglio. Per due di loro che non trovarono posto, pensai di fornire un camice bianco da medico e raccomandai di restare nella stanza. Un attimo dopo, però, la porta si spalancò con violenza e apparvero tre soldati tedeschi con le armi spianate. Li seguiva un giovane tenente che, rivolto a noi tre, disse in perfetto italiano: “Chi di voi è ebreo? Tu, con questa veste ridicola!… Vorrei sentire da voi due a voce alta il Padre Nostro”.
Nessuno dei due rispondeva. Prima che io potessi parlare, un ordine secco giunse al mio orecchio e subito le armi dei soldati fecero fuoco.
Mi dissero che rimasi lì a lungo, creduto morto, come i due ebrei.
Parecchi giorni dopo, seppi che il gruppo degli ebrei nascosti si salvò e ne fui felice.-
-Ha mai saputo qualcosa di quella gente?
-No, mai!
-Mi dica del suo matrimonio. So che fece alquanto scalpore.
-Come le ho detto, io ero rimasto un laico, anche se la gente, vedendomi con la veste talare, mi considerava un prete.
-Sì, è vero. Ma, probabilmente, il clamore nacque anche dal fatto che la donna da lei sposata era una giovane studentessa, affascinata dalla sua cultura e dalla sua parola. C’era una notevole differenza di età: trentacinque anni, e poi… tutta la storia dell’innamoramento!
-Lei ricorderà il sessantotto. Gli studenti occupavano le scuole, l’università. Era una ragazza sempre in prima fila, durante le occupazioni, le manifestazioni e le assemblee.
Ricordo che un giorno avevo una urgente necessità di entrare in istituto. Dinanzi all’ingresso c’era un presidio di studenti vocianti e inferociti. Siccome gridavano contumelie contro i “baroni” dell’università, io mi feci avanti sventolando il mio cedolino dello stipendio, dove era leggibile la ben meschina retribuzione di un precario incaricato di un corso universitario.
Il libretto rosso di Mao, le idee di Marcuse e quant’altro era stato elaborato nelle infuocate assemblee, avevano ormai diffuso una cultura rivoluzionaria. Una ragazza, più arrabbiata degli altri, mi respinse, gridandomi in faccia che anch’io ero un “barone”.
Non so come, ma qualche tempo dopo, quando la protesta si incanalò verso una stabilità che soddisfaceva i più accaniti sul piano ideologico, quella ragazza la vidi sempre accanto a me, durante le lezioni e, più tardi, entrando in confidenza, mi raccontò della sua ostilità con i vecchi compagni di lotta.
“ Quella stronza -diceva una sua ex amica a un gruppo di studenti che pendevano dalle sue labbra – si è innamorata del prof. Eppure era sempre la prima a gridare a destra e a manca, che non bisognava avere queste debolezze borghesi. Apriva le assemblee dicendo: -Nella misura in cui voi provate a fare una scelta, ricordatevi che ogni scelta, anche la più banale, è sempre una scelta politica! Ditemi voi ora che cosa dobbiamo pensare della sua scelta!-
-Fu così – continuò spiritosamente il professore – che “la stronza” divenne mia moglie, che mi ha donato la gioia di due figli.
Si è fatto tardi. Credo che ora possiamo andare. Ma non si preoccupi, concluse il professore, le farò avere per il suo articolo una sintesi scritta.-
-Professore, le chiedo perdono, ma ritengo che non ce ne sia bisogno, perché ho tenuto acceso per tutta la sera il mio piccolo registratore segreto.-
Il professore, indulgente, sorrise.
Ci lasciammo e non ebbi più l’occasione di incontrarlo.
A distanza di trent’anni dalla sua morte, mi trovo seduto accanto a due anziane signore. Mi dicono che sono le due bambine ebree sopravvissute, salvate dal professore. Sorridono e sono felici che finalmente al professore venga assegnata dallo stato di Israele la prestigiosa onorificenza di “Giusto fra le Nazioni”, alla memoria.