IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Dall’Illuminismo alla filosofia del linguaggio

il linguaggio

di Gennaro Tedesco

Un Micropercorso dall’Illuminismo e dal Romanticismo, attraverso la filosofia del linguaggio, a Manzoni e soprattutto a un Croce ritrovato e rivisitato in una prospettiva inedita. Sulla scia dell’Illuminismo e del Romanticismo europeo e italiano e sulla scia delle innovazioni linguistiche contenute ne I Promessi Sposi ci pare interessante e utile soffermarsi sulle conseguenze degli usi linguistici e sui “significati” sulla scorta di una prospettiva wittgensteiniana.

Se l’Illuminismo sembra essere un tipico movimento intellettuale progressista, non dobbiamo credere che il Romanticismo sia necessariamente il contrario.

L’illuminismo nasce e si sviluppa per opera di intellettuali europei della fine del ‘ 700 in funzione del riconoscimento oggettivo, politico dello status di classe generale ed egemone della borghesia europea.

La genericità dello slogan rivoluzionario caratteristico della Rivoluzione francese, libertà , uguaglianza e fraternità, non è a caso. Questi tre valori così generici e vaghi servono ad aggregare il consenso intorno ad una borghesia che, altrimenti, farebbe fatica ad ottenerlo.

Una volta che, però , la spinta ideologica e rivoluzionaria della borghesia francese si è esaurita, ad esempio l’Italia e la Germania, o meglio, gli intellettuali borghesi di questi due Paesi, scoprono si di aver contribuito all’affermazione della borghesia, ma di quella francese. Di qui, nei confronti dell’Illuminismo, più che una delusione, una revisione di certi atteggiamenti critici ed ideologici che passa attraverso un ventaglio di posizioni diversificate: il Romanticismo.

Se in Francia per parecchi intellettuali borghesi (Chateaubriand o, in Savoia, De Maistre) il nuovo ricompattamento intorno al Romanticismo significa il ritorno all’Ancien Regime, alla tradizione legittimistica cattolica e l’accettazione quasi entusiastica della Restaurazione metternichiana, in Germania, ma soprattutto in Italia, il Romanticismo assume dimensioni e sviluppi del tutto diversi e progressivi.

In Italia il Romanticismo diviene un correttivo dell’Illuminismo.

I valori antifeudali ed antiaristocratici, utilitaristici, della Rivoluzione francese non vengono perduti, ma rafforzati dalla scoperta romantica del popolo nella sua dimensione originaria e nazionale. Ed è proprio il clima della Restaurazione metternichiana che rende sempre attuali in Italia quei valori eversivi della Rivoluzione francese corretti da un ritrovato spirito nazionale e quindi antiaustriaco della nostra intellettualità borghese. Nell’Italia della Restaurazione lo spirito rivoluzionario borghese della Rivoluzione francese diviene patrimonio del movimento nazionale borghese antiaustriaco.

La borghesia italiana comincia ad acquisire i tratti di una vera e propria borghesia proprio nel momento in cui rivendica la propria identità nazionale contro l’Austria nel periodo della Restaurazione metternichiana.

Un passo decisivo verso la ricerca di uno status ricapitolativo della situazione della borghesia italiana nel periodo del Romanticismo è dato da I Promessi Sposi di A. Manzoni. Nel romanzo storico di Manzoni troviamo i tratti distintivi dell’Illuminismo e del Romanticismo italiano: ricerca di un nuovo “rivoluzionario” linguaggio che sfocia nell’introduzione dell’uso della lingua contro l’accademismo linguistico, conseguente individuazione di un nuovo pubblico in senso lato borghese, formazione di un’opinione pubblica italiana che nella coincidenza della novità linguistica con i contenuti storico-nazionali (rifiuto istintivo dell’occupazione spagnola dell’Italia del ‘ 600, protagonismo sociale dei così detti “umili”, realismo ) più facilmente e per la prima volta trova se stessa.

Sulla scia dell’Illuminismo e del Romanticismo europeo e italiano e sulla scia delle innovazioni linguistiche contenute nei Promessi Sposi manzoniani ci pare interessante e utile soffermarsi sulle conseguenze degli usi linguistici sulla scorta di una prospettiva wittgensteiniana.

Anche ammettendo che “il poeta parla di ciò che è nel mondo per la sua esperienza”, egli lo fa attraverso il mezzo espressivo linguistico, che non è la realtà, ma una convenzione. E ciò vuol dire, proprio perché il poeta parla della “sua esperienza”, che tale sua “esperienza” non è più sua perché ora ce la comunica attraverso il linguaggio e, se mai lo è stata prima di comunicarla, l’unico modo per comunicarla è solo il linguaggio in quanto convenzione che ci accomuna.

E non è vero che affermiamo che “esistenza cosciente a sé stessa possa essere letta come  una affermazione metafisica”, perché il metafisico è colui che afferma o nega qualcosa sulla realtà, ma il poeta come il mistico, anche se con le dovute differenze, non sono metafisici, non operano sulla realtà, ma sul linguaggio, o meglio, “alle frontiere del linguaggio”. Il poeta e il mistico urtano contro il linguaggio, lo distorcono, gli danno un “loro senso”, che poi ovviamente non è un senso o per lo meno non è il senso della convenzione linguistica usuale, ma agiscono sempre sul linguaggio, mai sulla realtà.

D’accordo, “il nome rimanda all’oggetto”, ma siamo noi che diamo convenzionalmente i nomi agli oggetti e non gli oggetti ai nomi! Certo che “ci accorgiamo che sta piovendo”, ma che la pioggia fosse “reale” e che la pioggia fosse “pioggia” ce ne siamo accorti solo quando siamo entrati in possesso del mezzo linguistico, prima la pioggia non era altro che…non si potrebbe dire che cosa. Solo dopo la prima riflessione umana attraverso il linguaggio abbiamo appreso della “pioggia”. Ora noi distinguiamo due possibilità all’interno del linguaggio: la prima riguarda la prova dimostrativa così detta “scientifica”, che ha come oggetto la sperimentazione che dovrebbe verificare o falsificare l’ipotesi. La verificazione e la falsificazione dello scienziato è sempre una selezione dei dati, cioè una scelta personale che avviene attraverso il linguaggio che, pur vago, non è zoppicante, e anzi, proprio grazie alla sua vaghezza consente il calcolo delle probabilità, che forse nella scienza è meno soggettivo, ma mai meno oggettivo che in altri campi.

Certo che “nostro padre capitale è sempre troppo paranoicamente presente”, ma siamo noi che, attraverso delle riflessioni anch’esse linguistiche, vediamo la c.d. “esistenza del capitale”. Ma l’esistenza del capitale non è “oggettiva” se non nella misura in cui siamo capaci di addurre prove non assolute, ma probabilistiche, di una probabilità senz’altro inferiore rispetto a quella della scienza, non fosse altro perché siamo in pieno regno dell’opinabile, dell’estremamente soggettivo. Proprio perché non esiste l’obbiettività, e tanto meno quella del capitale, dobbiamo sempre essere pronti a ricrederci su tutto, anche su noi stessi … “. Ciò che conta è chi parla, e chi parla è fuori del mondo, e lo dice proprio Wittgenstein”. Certo che lo dice Wittgenstein, ma egli, nelle “Ricerche filosofiche”, che sono anche un ripensamento critico del “Tractatus”, sostiene anche un’altra cosa: dato che siamo nel mondo e parliamo, anche il linguaggio fa parte del mondo e quindi parliamo nel mondo e non fuori del mondo a meno che non si tratti del mistico, ma di lui già abbiamo detto. Le formule matematiche, come la logica, sono differenti rispetto alla lingua. La matematica e la logica sono analitiche, cioè necessitanti perché non ammettono il dissenso dell’uditorio. Sono stabilite così e basta. Non c’è possibilità d’intervento personale. Le cose stanno diversamente per la lingua. Il significato di una parola è il suo uso. e ognuno di noi può fare l’uso che vuole di una parola a patto che ci dica il modo in cui la usa. E se la vuole usare in maniera diversa da noi senza spiegarne l’uso, lo faccia pure, ma si renda conto che non ha più un senso a noi comprensibile. La lingua quindi si distingue dalla matematica e dalla logica perché non è necessitante, perché ammette il nostro intervento critico e la nostra immaginazione personale. E’ possibile che il poeta non riesca a “convenzionalizzare una comunicazione”, ma non perché non usi una convenzione, cioè il linguaggio, ma perché egli usa un nuovo tipo di convenzione di cui non sa o non vuole chiarire il senso. Il fatto stesso che scriva e che abbia un pubblico conferma l’esistenza della nuova convenzionalità. D’altra parte è proprio l’esistenza della convenzione linguistica che consente “l’eccezione poetica”.

“Se il referente è il mondo, allora siamo nella tautologia”. E infatti l’analisi del linguaggio, la chiarificazione logica del linguaggio, non scopre nulla, solo chiarisce ciò che già esiste e che noi avevamo sotto i nostri occhi, ma prima non vedevamo.

Vale la pena di avvicinarci da una nuova prospettiva all’estetica crociana per constatare se possiamo ricavarne ancora oggi qualcosa.

Come si ricorderà, le quattro forme di attività dello Spirito si raggruppano in Croce a due a due: attività teoretiche e attività pratiche.
“Lo spirito è produttivo, anzi creativo in entrambe, poiché, anche quando conosce e sembra incontrare oggetti già dati in natura, questi oggetti, in realtà, sono un suo prodotto, ma un ‘prodotto’ in senso diverso nelle attività pratiche che nelle teoretiche, perché altro è produrre l’oggetto come oggetto di contemplazione, altro è produrlo come oggetto di  intenzione pratica. Sia la contemplazione, sia la prassi, possono avere di mira o l’oggetto singolo nella sua immediatezza o, al contrario, valori universali. L’oggetto della contemplazione preso nella sua immediatezza è l’oggetto dell’arte: attività primordiale dello spirito che esprime – e, nell’atto di esprimere, intuisce – rappresentazioni pure, senza interesse per  la loro realtà.”

E’ chiaro che l’estetica crociana, dipendendo dallo ‘Spirito’ rimane inequivocabilmente una estetica metafisica. Ma bisogna anche dire che questa estetica metafisica crociana rifiuta anche ogni riferimento alla realtà perché, essa, la realtà, non le interessa. E questa impostazione senz’altro è un fatto che va a merito di Croce, anche se la contemporanea ricerca filosofica arriva a queste stesse conclusioni da un  punto di vista completamente nuovo e quasi assolutamente sconosciuto a Croce: il punto di vista  dell’analisi del linguaggio. Infatti tutte le manifestazioni dell’uomo, quindi anche l’arte, avvengono attraverso un qualche linguaggio. Nel caso della poesia, attraverso quello verbale. E il linguaggio in qualsiasi società è una convenzione comunitaria il cui significato è dato dall’uso delle parole: il linguaggio, in quanto convenzione arbitraria di una comunità, è sottoposto alle regole d’uso, per lo più  uso corrente.

Ora l’opera d’arte sfugge a queste  ‘regole’ : essa non ha rapporti convenzionali, cioè significanti tali da fornirci così dette ‘comunicazioni sensate’, l’arte non è un linguaggio significante, perché non ha rapporti convenzionali atti a spiegare, comunicare possibilmente in senso univoco, se stessa. Essa è segno di se stessa. Al limite, l’opera d’arte è concepibile solo all’interno di altre, e Croce, questo, anche se per vie traverse e a volte opposte, l’aveva compreso, ma non spiegabile e comunicabile, bensì soltanto interpretabile e ciò è soggettivo e dipendente dalla propria cultura. L’arte ha tanti ‘significati’ proprio perché non ne ha nessuno. Essa è quindi un ‘linguaggio senza significato’. Basti qui ricordare le grandi sinfonie del passato : la musica, abbandonando qualsiasi residuo naturalistico o realistico, ci mostra meglio di altre arti la sua ‘essenza’ di ‘linguaggio senza significato’.

L’opera d’arte, proprio perché fa uso di linguaggio senza significato, a cui ogni uomo in ogni parte del mondo può dare ‘il significato’ che vuole, può quindi anche essere, come ha affermato ancora una volta lo stesso Croce, universale.

Il primo approccio all’arte è di conseguenza sempre immediato,  e pienamente nel senso crociano della parola intuitivo, mai ‘critico ‘ e  tanto meno suscettibile di un ‘messaggio’, caso mai le ‘critiche’ e i ‘messaggi’ vengono dopo. Aristotelicamente essa è purificatrice (catarsi). E’ probabilmente un ‘regresso’ allo stato naturale, unica occasione possibile di fuga dalla realtà.

Per Croce inoltre l’arte non è una tecnica, non è ‘costruibile’, ma è frutto di ispirazione-intuizione. E con quest’ultima affermazione crociana si può dire che si chiude un circolo, quello metafisico iniziato con la dipendenza della sua estetica dallo ‘Spirito’, Con l’ispirazione-intuizione l’arte non è più di questo mondo, è divina.

Bibliografia

  • Benedetto Croce, Nuovi saggi di estetica, Bibliopolis, Napoli, 1991
  • Benedetto Croce,  Logica come scienza del concetto puro, Bibliopolis, Napoli, 1996
  • Benedetto Croce, Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, Bibliopolis, Napoli , 2003
  • Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e storia, Adelphi,  Milano, 1990
  • Benedetto Croce, Breviario di estetica e Aesthetica in nuce, Adelphi, Milano, 1990
  • Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, Einaudi, Torino, 1989
  • Ludwig  Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1974
  • Ludwig Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, Einaudi, Torino, 1999

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