Giovanni Enrico Pestalozzi (1746-1827) l’uomo, l’educatore, il pedagogista
di Vincenzo Fiaschitello
Giovanni Enrico Pestalozzi nacque a Zurigo il 19 gennaio 1746 da una famiglia protestante di origine lombarda, rifugiatasi in Svizzera nel secolo XVI.
Quando si parla di Svizzera, generalmente il pensiero corre a certe eccellenze tipiche di quella terra: gli orologi, il cioccolato, i formaggi, le montagne, le piste sciistiche, le guardie del Papa…le banche.
Probabilmente non sempre si ricorda un’altra importante eccellenza della Svizzera: la tradizione delle istituzioni scolastiche, i costosi e prestigiosi collegi, presso i quali varie generazioni di giovani benestanti hanno ricevuto una formazione culturale e professionale di notevole rilievo.
E’ certo che la fama di “terra dell’educazione”, la Svizzera non l’ha conquistata dall’oggi al domani. Per quel che riguarda, infatti, l’aspetto educativo ci imbattiamo dinanzi a una impressionante schiera di filosofi, di pedagogisti, di psicologi dell’età evolutiva svizzeri nell’arco di tempo che va dall’età dell’illuminismo ad oggi: J.J. Rousseau, G.E. Pestalozzi, Padre Girard, A. De Saussure, A. Férriere, M. Boschetti Alberti, E. Devaud, E. Claparede, P. Bovet, R. Dottrens, J. Piaget, E.J. Dalcroze e vari altri maestri e uomini di cultura che, anche se non altrettanto famosi, si sono prodigati per il miglioramento della scuola.
A Rousseau si dà il merito di aver fondato nell’età moderna la pedagogia con il suo celebre libro “Emilio”, preceduto soltanto da Comenio nel seicento con l’altrettanto famoso “Orbis pictus”(libro di testo per ragazzi del 1658).
Pestalozzi nell’opera “Il canto del cigno”, considerata come il suo testamento spirituale, non esita a dichiarare che Rousseau fu per lui il suo maestro. E’ noto che le idee del ginevrino erano idee rivoluzionarie, tanto che i suoi libri, bruciati sulla pubblica piazza, contribuirono a preparare la Rivoluzione francese.
Già sin da giovane, dunque, di fronte ai problemi della cultura del suo tempo, Pestalozzi, infervorato dal naturalismo individualistico e antisociale del Rousseau, prende posizione, partecipando attivamente alla vita politica, condividendo gli ideali della rivoluzione, credendo fermamente che i francesi fossero disponibili ad appoggiare la volontà di libertà del popolo.
Insieme a numerosi altri coetanei, il giovane Pestalozzi si iscrisse alla lega dei “Patriotti”, i quali “non erano soltanto un innocuo club di discussioni o una riunione di moralisti stoici, ma che dietro al loro moraleggiare e rumoreggiare politico si celava una vigorosa potenza ideale. Era un individualismo politico e religioso che dal semplice giuoco intellettuale con le idee dei tempi nuovi si studiava di passare ai fatti. Là dentro c’era lo spirito di Rousseau” (F. Delekat, Pestalozzi, Firenze, La Nuova Italia, 1947 p.73.
Qual è lo scenario culturale del settecento?
Non c’è dubbio che il razionalismo cartesiano con la convinzione che si può giungere alla verità non mediante i sensi, ma solo facendo ricorso alla ragione, abbia avuto una maggiore influenza rispetto alla corrente empiristica e diffuso un ottimismo di memoria platonica, raccolto e opportunamente supportato da Leibniz con l’intuizione del concetto di monade e dell’armonia prestabilita.
L’ottimismo leibniziano sanava in qualche modo la “ferita” lasciata aperta da Cartesio riguardo al dualismo della res cogitans e della res extensa (spirito e materia, anima e corpo), si poneva sulle tracce di una forma di misticismo, già dello Shaftesbury, e proclamava la divina fondamentale armonia della realtà. Il mondo appare nella sua intima natura come l’armonica creazione divina dove tutto, per principio, si accorda.
In un orizzonte di pensiero così impostato, diventano centrali concetti come: umanità, presenza del divino nella singola personalità, intuizione.
Pestalozzi medita a lungo sulle condizioni dell’uomo del suo tempo, sfruttato, diseredato, privo del diritto stesso di essere umano, messo in catene dal privilegio e dalla tirannide dei ricchi e dei governanti.
Sospinto da una innata inclinazione alla religiosità, invaso dalla spiritualità del movimento mistico-pietistico a quel tempo largamente diffuso nella Svizzera del secolo XVIII, sollecitato dalle idee del Rousseau che metteva al centro del suo spirito rivoluzionario il motto “ritorno alla natura” per liberare l’uomo dalle incrostazioni sociali che negativamente si erano depositate su di lui a seguito del vivere in comunità, Pestalozzi si convince fermamente di avere una precisa missione: l’umanità come primo e assoluto ideale della sua vita. Alla fidanzata Anna Schulthess che gli restò fedele per tutta la vita, dirà: “Non mancherò di proteggere e amare la nostra famiglia, ma dopo l’umanità che occupa nel mio cuore il primo posto”.
Pestalozzi sente presto il bisogno di tradurre in pratica questo suo amore per l’umanità. Il suo istinto lo portava a privilegiare i poveri, gli abbandonati, gli scarti della società.
A ventidue anni fondò una azienda agricola organizzata come scuola, a cui dette il nome di Neuhof, dove i fanciulli accolti non solo imparavano a leggere, a scrivere e a far di conto, ma venivano anche addestrati nei lavori agricoli e nei mestieri popolari.
Fu un fallimento. La scuola dovette essere chiusa per motivi finanziari e disciplinari. A Pestalozzi, infatti mancavano quelle qualità organizzative e amministrative che erano indispensabili per sostenere tali iniziative.
Alla disavventura che lo privò di buona parte dei suoi beni, seguì un periodo di riflessione durante il quale si dedicò a produrre i suoi primi interessanti scritti, come Veglia di un solitario e il romanzo pedagogico in quattro parti Leonardo e Geltrude, pubblicati tra il 1780 e il 1787.
Ancora nel corso della stesura della prima parte del romanzo, Pestalozzi è in perfetta sintonia con Rousseau che parte dal principio che “l’uomo quando esce dalle mani di Dio, è buono, diventa cattivo a contatto con gli altri uomini”.
Il problema della realtà e potenza del male nella vita collettiva dell’uomo è rappresentato efficacemente nel romanzo attraverso il racconto delle vicende che accadono ai due protagonisti nel villaggio di Bonnal.
Naturalmente Pestalozzi, come gli altri intellettuali che giudicarono con intelligenza il pensiero di Rousseau, non fu tanto sciocco da pensare che il ritorno alla natura volesse significare un ritorno all’età selvaggia. Lo stato di natura, diceva Rousseau, è una condizione che non esiste più, che forse non è mai esistita e probabilmente non esisterà mai. E tuttavia di essa bisogna tenere conto per valutare rettamente lo stato in cui si trova l’uomo nella vita sociale. Nel romanzo, dunque, Pestalozzi descrive la condizione di abbrutimento in cui è ridotto Leonardo e assegna alla moglie Geltrude il compito di una rinascita etica.
In questa iniziale impostazione, Pestalozzi è convinto che sia sufficiente l’azione riformatrice che parta dall’alto, da un principe, da un governatore illuminato. Ma già dopo la sua esperienza personale di Neuhof appare il primo segnale di sfiducia verso quell’ottimismo illuministico, secondo cui la ragione immancabilmente avrebbe garantito quel “progresso”, capace di far regredire l’ignoranza, la povertà e l’infelicità dei popoli.
La vita sociale è talmente complessa che non crede più possibile sperare in un immediato rinnovamento morale dell’umanità e nella eliminazione delle ingiustizie, della miseria, dell’ignoranza e della incapacità ad esercitare un mestiere. Se si aggiunge a questo ripensamento anche l’inquietudine che gli procura l’esperienza della Rivoluzione francese, Pestalozzi avverte la necessità di rivedere e approfondire la sua concezione della vita, anche sotto l’influenza di Fichte e del pensiero kantiano. E’ ormai chiaro che lo stato di natura va considerato come un mito, che la volontà di rinnovamento non può essere delegata ad un saggio e illuminato riformatore. Bisogna tenere conto della problematicità della vita, della tendenza egoistica individuale che porta squilibri e disordine in ogni aspetto della vita sociale. Non resta che affidarsi all’autonoma forza morale di ogni individuo, che solo l’opera educativa può risvegliare, grazie a quelle energie spirituali latenti nelle singole personalità.
Con ciò Pestalozzi dimostra di aver superato la concezione illuministica di un autentico miglioramento sociale sostenuto esclusivamente da interventi e leggi razionali, riponendo più realisticamente fiducia in quell’impulso divino presente in ogni persona, come appunto gli suggeriva il non mai spento senso religioso della vita, appreso al tempo dell’infanzia nel cerchio ristretto della sua famiglia.
Nel romanzo “Leonardo e Geltrude” si intuisce facilmente il passaggio a questa nuova posizione di Pestalozzi con l’abbandono di figure come Arner, il barone riformatore che punisce il cattivo podestà Hummel, con l’introduzione di altri personaggi come Gluphi che, pur consapevole dei suoi limiti, si impegna come maestro di scuola per il recupero di molti ragazzi, privi di qualsiasi risorsa finanziaria e educativa. Dopo l’eliminazione delle ingiustizie più evidenti e macroscopiche, è tutta la società e in primo luogo la famiglia ad esercitare la naturale funzione etica.
In “Come Geltrude istruisce i suoi figli”, Pestalozzi espone le sue idee intorno al suo metodo educativo, che si fonda su tre principi : naturalità, elementarietà e continuità.
La spiritualità, di cui ogni essere umano è dotato, deve essere curata sin dalla prima età infantile, affinché non venga limitata o pregiudicata da influenze negative. Pertanto dovrà essere la famiglia, in particolare la madre, a predisporre le condizioni favorevoli perché il bambino trovi la possibilità di un sereno sviluppo naturale. Credo che sia subito opportuno precisare, per non restare nel generico, che con l’espressione “condizioni favorevoli” Pestalozzi intende sottolineare che la madre debba tenersi lontana dall’astrazione, evitando la presentazione di contenuti a base di definizioni, di proverbi, ecc. Al bambino giova invece fare esperienza con le cose concrete, osservarle, toccarle, provare emozioni e riconoscerle. In tal modo, anziché paralizzare l’energia spirituale come accadrebbe con i contenuti astratti perché non assimilabili, si dà al bambino una ampia libertà di sviluppo verso orizzonti universali. E’ questo il primo passo educativo importante che rientra nel procedimento della naturalità.
A tale passo si affianca quello della elementarietà consistente nel partire dalle più semplici e concrete manifestazioni delle attività spirituali, dai loro aspetti elementari sia nel campo delle intuizioni sensibili (campo teoretico-conoscitivo), sia nel campo morale e dei primi sentimenti.
Già l’indicazione di questi due principi (naturalità e elementarietà) costituisce un segno evidente della genialità educativa di Pestalozzi e di grande novità per le istituzioni scolastiche dell’epoca, preludendo al loro rinnovamento.
Il terzo principio, la continuità, è anch’esso motivo di straordinaria ammirazione per la figura del Pestalozzi perché, contrariamente a quanto sosteneva Rousseau, egli ritiene che tutto il processo educativo di sviluppo della formazione spirituale non conosce né salti, né slegamenti da una fase all’altra, ma appunto continuità, svolgendosi il tutto con organicità e gradualità. Questa crescita della spiritualità personale si realizza secondo Pestalozzi, attraverso la forza del cuore, dell’intelletto e dell’arte.
E’ molto significativo che egli, ricordando la lezione di Platone per il quale la dimensione “erotica” costituiva un momento importante dell’apprendimento e della maturazione personale, attribuisca al sentimento dell’amore e della fede come segni della presenza del divino nella interiorità della persona, il fondamento dell’intero processo educativo.
La forza dell’intelletto è quella che aiuta a liberare l’esperienza della limitatezza e della visione soggettiva della conoscenza.
La forza dell’arte è quella relativa all’aspetto tecnico-pratico che imprime il segno della spiritualità su ogni forma di attività lavorativa.
In ciascuna di queste tre forze, Pestalozzi si impegna a evidenziare le manifestazioni elementari.
Per la prima (la forza del cuore) ci sono: i primi sentimenti infantili come la fiducia, l’amore, l’obbedienza; per la seconda (la forza dell’intelletto): il primo aspetto elementare è l’intuizione con la forma, il numero e la parola, che costituiscono il fondamento delle materie (disegno, geometria –aritmetica, lingua); per la terza (la forza dell’arte): c’è la ricerca attraverso una accurata analisi dei movimenti più semplici e dei tempi più rapidi per portare a termine una determinata attività lavorativa. Su tali saldi principi Pestalozzi fonda, dunque, il suo metodo, ma non è da credere che egli li abbia ricavati per deduzione, al contrario, furono il risultato di una intensa attività pratica favorita in qualche modo dagli eventi storici che si susseguirono, come l’invasione francese nel 1797, la proclamazione della Repubblica Elvetica nell’anno seguente, nel corso dei quali ebbe la possibilità di fare altre due esperienze a Stans e a Burgdorf.
L’istituto fondato nel castello di Burgdorf ebbe un notevole successo e venne visitato da Padre Girard e da altri illustri intellettuali stranieri che ebbero parole di apprezzamento e ne diffusero lo spirito per il rinnovamento delle scuole nei loro rispettivi paesi.
Ma è tempo di domandarsi: che cosa resta dell’opera educativa di Pestalozzi? Qual è la sua attualità?
Del suo metodo che brevemente ho sintetizzato resta certamente l’interesse storico. Non è possibile che possa ancora essere applicato tale e quale come lo descrive Pestalozzi. Ma questo accade per tutti i metodi che sono entrati nella storia della metodologia, dai più semplici ai più complessi, dai meno famosi e diffusi come può essere il Piano Dalton di Elena Parkhurst a quelli più noti e fortunati, come per esempio, il metodo Montessori. Si è visto che, scomparso il protagonista, il metodo difficilmente sopravvive così come lo ha ideato il fondatore. E questo perché viene meno lo spirito che lo animava; coloro che intendono applicarlo appropriandosi dei materiali didattici e delle modalità proposti dal fondatore, quasi sempre cadono nella trappola della ripetitività, della passività, della retorica, per cui la decadenza è già iniziata.
Occore, invece, pensare di far riemergere le idee che hanno guidato e ispirato il personaggio che ha tracciato quel determinato percorso educativo, oggetto della nostra attenzione e del nostro apprezzamento.
Se guardiamo alle implicazioni sociali e politiche che Pestalozzi seppe individuare nel problema educativo, non possiamo non restare felicemente sorpresi per la loro attualità. L’amore per l’umanità, sostenuto da una incrollabile fede religiosa, lo porta a valorizzare la persona e quindi a non escludere nessuno dal processo educativo: tutti gli uomini hanno il diritto-dovere di educarsi, sia con l’impegno personale, sia con l’aiuto di un ambiente familiare e sociale moralmente sano e giusto. Ciascun essere umano anche se povero, di umile condizione, malato, bisognoso di cure, scarsamente fornito di qualità intellettive, deve poter accedere all’istruzione ed essere accettato perché diventi quel che deve essere.
Questo dovere educativo che Pestalozzi considera sacro può essere adempiuto efficacemente solo se accompagnato dalla virtù dell’amore. Mi sembra che ciò sia perfettamente in linea con quanto gli psicologi, gli psicoanalisti e quanti hanno responsabilità nella formazione dei docenti, oggi ritengono fondamentale l’empatia (1), senza la quale non è assolutamente possibile sedersi in un’aula scolastica accanto ai ragazzi e agli adolescenti.
Non meno attuale è il pensiero di Pestalozzi per quanto riguarda la conoscenza psicologica del bambino, la descrizione del rapporto madre-bambino sin dalla più tenera età, le tappe di sviluppo: tutte intuizioni geniali che fanno pensare agli studi del nostro tempo sulla età evolutiva, ai lavori di un René Spitz, per esempio, sulla importanza fondamentale del primo anno di vita del bambino, agli scritti di un Piaget, ecc.
Che dire, inoltre, della valorizzazione di concetti come l’elementarietà, le procedure dal semplice al complesso, dal vicino al lontano. Intuizioni queste altrettanto fondamentali che rinviano alla didattica basata sul lavoro a schede accuratamente predisposte e ordinate secondo difficoltà crescente e, più ancora alla più nota istruzione programmata.
- Fa piacere leggere la notizia di stamattina sul web riportata da “Orizzonte Scuola” con la quale si plaude al prof. Daniele Manni, docente di informatica e imprenditorialità presso l’istituto Galilei-Costa di Lecce. Il prof. Manni è uno dei “10 Most Visionery Leaders transforming Education”, citato dalla prestigiosa rivista americana “Cio Look”, specializzata nella ricerca di storie di protagonisti fautori di cambiamento. E’ significativo che egli tra le pratiche didattiche vincenti abbia dichiarato di aver messo al primo posto l’empatia con i propri studenti.
Bibliografia
E. Pestalozzi, La veglia di un solitario, Firenze, La Nuova Italia,1953
E. Pestalozzi, Leonardo e Geltrude, Firenze La Nuova Italia, 1962
E. Pestalozzi, Come Geltrude istruisce i suoi figli, Firenze, La Nuova Italia, 1959
E. Pestalozzi, Madre e figlio. L’educazione dei bambini, Firenze La Nuova Italia, 1961
E. Pestalozzi, Il canto del cigno, Firenze La Nuova Italia, 1962
E. Pestalozzi, Lettera ad un amico sul proprio soggiorno a Stans, Firenze, La Nuova Italia, 1951
Vincenzo Fiaschitello
Nato a Scicli nel1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola alla Facoltà di Magistero Università di Roma. Direttore didattico dal 1974, preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.
E’ autore di vari saggi sulla scuola, di opere di poesia e di narrativa.
Attualmente è redattore della Rivista culturale telematica “Il Pensiero Mediterraneo” (Redazione di Roma).
Vincitore della XXXIX edizione (2023) del Premio dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli e della rivista internazionale “Nuove Lettere” per la raccolta edita di racconti “Ginevra, racconti storici e non”, Avola, Libreria Editrice,Urso, 2021.
Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore Ordine al merito della Repubblica Italiana (1997).