IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Il “pensiero debole” di Gianni Vattimo

Gianni Vattimo

Gianni Vattimo

di Vincenzo Fiaschitello

La notizia della scomparsa di Gianni Vattimo nel settembre scorso, riportata dalla stampa, non ha suscitato quella grande emozione che ci si sarebbe aspettata per uno studioso noto in Italia e all’estero come uno dei più grandi protagonisti del pensiero filosofico del nostro tempo.

Probabilmente la notizia ha avuto una ampia eco soltanto perché accompagnata da una superficiale curiosità di un pubblico interessato agli eventi privati del personaggio, più che alla filosofia. Infatti i cronisti si sono occupati a lungo delle vicende giudiziarie a carico del giovane brasiliano che lo assisteva e della omosessualità del filosofo, peraltro già da anni da lui dichiarata e perfettamente in linea, come ora vedremo, con il suo pensiero plurale, dialogico e tollerante, aperto a ogni possibile punto di vista.

Nato nel 1936 a Torino, Vattimo, dopo la laurea in filosofia e gli studi all’università di Heidelberg con H.G. Gadamer, fu chiamato a insegnare all’università di Torino e cominciò ad ottenere una considerevole notorietà tenendo seminari e conferenze in varie università del mondo. Le sue opere, a partire dalla metà degli anni settanta e soprattutto degli anni ottanta e novanta del secolo scorso, tradotte in molte lingue straniere, ebbero un successo straordinario, perché le sue idee interpretavano e giustificavano teoreticamente tutto quel clima culturale che caratterizzava la crisi della società di quel tempo.

Quando nel 1983 pubblica la raccolta di saggi curata in collaborazione con Pier Aldo Rovatti dal titolo “Il pensiero debole”, Vattimo è al massimo della sua popolarità, presentandosi come il nemico dei dogmi, l’avversario irriducibile della metafisica classica, dei valori assoluti.

Qual è il percorso culturale che sospinge Vattimo, cresciuto all’ombra del dogma cristiano, verso una strada apparentemente distante dalla formazione giovanile?

Le lezioni di M. Heidegger e di Gadamer ad Heidelberg gli avevano dato la possibilità di approfondire il discorso sulla ermeneutica. Questa non è una semplice questione di interpretazione di testi e di significati e quindi di conoscenza, ma è soprattutto un problema di comprensione, di messa in mostra delle condizioni, del comprendere, del modo di essere dell’esistenza, dell’esserci, cioè del luogo e del tempo storico in cui ciascuno è collocato come ente, in rapporto sempre funzionale alle proprie esigenze con le cose della vita quotidiana.

Dalla fondamentale opera “Essere e tempo” di Heidegger (1927), Vattimo prende lo spunto per l’avvio della costruzione sistematica del suo pensiero debole (espressione coniata da J.F. Lyotard). Tutto il contesto culturale del cosiddetto post-moderno, progressivamente corroboratosi, trova appunto Vattimo pronto a inserirsi nel dibattito filosofico a partire dagli anni sessanta.

Già Heidegger, respingendo l’interpretazione in chiave esistenzialistica della sua opera, aveva avvertito che la sua riflessione filosofica era centrata sulla ontologia, cioè sul problema dell’essere, punto di partenza con Parmenide del pensiero filosofico.

Il filosofo tedesco, facendo ricorso alla fenomenologia di Husserl, suo maestro, dà un’ampia illustrazione della sua tesi, ricordando come tutta la filosofia moderna abbia percorso un cammino ambiguo e banale.

Vattimo accoglie la tesi di Heidegger, secondo il quale è indispensabile ritenere l’essere, privo di quei caratteri di immutabilità e stabilità, che per il pensiero filosofico dai greci in avanti invece erano fondamentali.

Tali caratteri di fondamento hanno inficiato il pensiero moderno da Cartesio in poi. Quando Nietzsche proclama apertamente che “Dio è morto”, intende proprio dire che la metafisica è finita, la metafisica che ha portato fuori strada pensatori di grande prestigio, come Hegel che descrive la storia come percorso di autoconoscenza dello Spirito, il quale riflettendo sui vari momenti di crescita progressiva del sapere, diviene consapevole della natura di essere Tutto, Assoluto.

Ecco, è questo modello di “grande narrazione”, per usare un termine caro a Lyotard, che ci fa propendere per il nichilismo nitzschiano. Anzi, sostiene Vattimo, se vogliamo capire meglio la crisi della nostra epoca, dobbiamo essere ancora più nichilisti. Il disagio, l’angoscia e tutte le situazioni catastrofiche che molti sono pronti ad attribuire al nichilismo, sono invece dovuti al fatto che siamo ancora poco nichilisti.

Sembra un paradosso, ma non lo è.

Basta intendersi sulla parola nichilismo. Il nichilista non è colui che non crede a niente, ma semplicemente colui che vuole appropriarsi della propria esistenza, secondo la dimensione temporale, storica. Il che significa che l’essere con cui dobbiamo fare i conti non è più quello della tradizione greca parmenidea, intoccabile, immutabile e inamovibile fondamento che ha portato l’uomo a una dura alternativa tra l’essere e il niente, ma un essere che si rapporta con la nullificazione della nostra esistenza, che dà senso alla storicità e rende credibile la libertà dell’uomo.

E’ più che evidente il disaccordo di Vattimo con E. Severino (filosofo del pensiero forte), il quale sottolinea la follia del mondo occidentale, cioè la contraddizione in cui si è sempre dibattuto quando ammette che le cose sono niente e tuttavia divengono, mutano. Severino dice che questo è appunto l’esperienza di tutti i giorni: la realtà sta dinanzi a noi, ma cambia, si trasforma. La stessa religione ci ricorda che noi e il mondo veniamo dal nulla (Dio crea dal nulla) e andiamo verso il nulla. E’ noto che il pensiero filosofico di Severino si sviluppa con l’attribuzione della eternità a tutti gli enti e affermando che il divenire della cosa non porta all’annullamento della stessa ma a una modificazione. Anche la stessa morte è apparenza.

Il punto di vista di Vattimo è più radicale. Se riteniamo che non c’è più un fondamento su cui la ragione può costruire una struttura stabile e fondare la propria conoscenza oggettiva del mondo, se non c’è più un essere assoluto, un campo metafisico che regge tutta la realtà, è chiaro che tale argomentazione ha via libera per una sola conclusione: la metafisica classica della tradizione è finita, non c’è una unica verità, ma plurali verità. Siamo di fronte a un essere effimero, ambiguo, caduco, frammentario, umano e storicizzato, non più unitario. L’uomo si è liberato dal peso oppressivo dell’unica verità, per la cui difesa e volontà di affermazione, spesso si è fatto trascinare nella violenza, nella lotta, nella guerra.

Ecco il nichilista è colui che non ha da vantare grandi certezze e riconosce una realtà frammentaria, priva di fondamento unico. Questo si qualifica come pensiero debole, pensiero della postmodernità, più aperto e tollerante, meno arrogante.

Se il discorso di Severino sulla morte sfocia infine nella eternità degli enti, in fondo non è troppo lontano da quell’idea di “conforto metafisico” del cristianesimo e di altre religioni per l’uomo che vive la sua vita terrena con l’angoscia della fine, la visione di Vattimo, come di altri filosofi della postmodernità (J.F. Lyotard, J. Derrida), è più pragmatica nel senso che una volta che si è constatata e accettata la dissoluzione della metafisica, delle certezze e dei valori assoluti, siamo più disponibili, più aperti verso gli altri, sicuramente meno angosciati perché riteniamo che la verità non è solo in un luogo o immobile in un tempo, ma è plurale. Tracce di verità si trovano dappertutto, presso tutti i popoli e in tutte le epoche.

E qui Vattimo fa leva sulla parola pietas dal sapore religioso per far capire che è necessario tenere lontano l’odio e la violenza. Questo elemento caratteristico del pensiero debole è in stretta connessione con il rispetto che si deve avere per le tracce lasciate da chi ci ha preceduto. Si tratta di un valore che appunto scaturisce da una visione della storia, libera da ogni metafisica fondata sull’essere stabile e unitario, che guiderebbe gli eventi nella prospettiva del progresso continuo e inarrestabile. Non c’è una sola storia, ma le storie, non c’è una sola strada ma una infinità di strade, di valori, di visioni. La nostra società ha tanti modelli di riferimento, non uno solo. Di qui la netta critica di Vattimo nei confronti della Scuola di Francoforte, che tra gli anni quaranta e sessanta ispirandosi a Freud e a Marx, sosteneva che era imminente il pericolo della omologazione, nel senso che gli uomini andavano verso comportamenti simili. Oggi, dice Vattimo, il pericolo è scongiurato perché il pensiero debole spinge gli uomini a diversi modi di vivere, di interpretare e valutare le cose. La spinta è dunque verso la diversità e non piuttosto verso l’omologazione: pluralità di comportamenti, di fedi, di valori, di sessualità, ecc.

Vattimo condivide l’intelligente analisi di Lyotard sulla realtà e sul mondo  che va sotto il nome di Grandi narrazioni.

La categoria della grande narrazione è la derivazione perfetta di una concezione finalistica della storia. Tutti gli eventi, gli accadimenti, erano interpretati come una serie progressiva che attraverso uno sviluppo inarrestabile mirava al raggiungimento del fine dichiarato: per l’illuminismo era l’emancipazione dell’uomo grazie alla diffusione dell’istruzione; per l’eghelismo era l’autocoscienza dello Spirito; per il marxismo la vittoria del proletariato e la giustizia sociale; per il cristianesimo la salvezza dell’anima, ecc. E’ il rifiuto del concetto di una storia come progresso sicuro, è il rifiuto di una finalità sostenuta da un fondamento, da un essere unitario e stabile. La morte di Dio, la negazione della metafisica, hanno messo definitivamente da parte la teleologia della storia, proprio perché si concepisce l’essere come frammentato e precario: di qui l’imprevedibilità della storia.

Negli ultimi decenni del novecento domina questo orizzonte culturale di fine di ogni fondamento, di morte dei sistemi dei valori assoluti, entro il quale si vuole interpretare ogni aspetto della vita: dalla politica alla economia, all’arte, alla morale. L’attesa del nuovo, la categoria del continuo superamento, la categoria della tolleranza, diventano parole d’ordine per la vita sociale. Sorgono fenomeni che suscitano straordinari entusiasmi, compreso quello per una richiesta di autentica spiritualità più profonda come quella proveniente dal movimento denominato New Age, il cui successo diventa una sfida per la Chiesa cattolica.

Oggi, il pensiero debole sembra in declino. Le scelte, fondate non più sui valori assoluti ma plurimi, che avrebbero dovuto garantire maggiore libertà e migliore comprensione tra i popoli, in realtà non hanno ottenuto quei risultati auspicati. Le divisioni permangono, gli odi non si spengono, le guerre continuano con angoscia e orrore.

Severino, campione del pensiero forte, parla di una filosofia per il futuro; Vattimo, campione del pensiero debole, guarda anche lui al futuro, dicendo che non siamo ancora pronti all’idea di una vera convivenza.

E qui forse ha ragione M. Cacciari quando con fine analisi, ricordando Antonio Rosmini (beatificato dalla Chiesa cattolica), osserva che il concetto di tolleranza tanto diffuso e approvato, non è affatto sufficiente, perché la tolleranza ha il sapore della sopportazione, se non della intolleranza: io ti tollero benché la pensi diversamente da me e ritengo che tu sia in errore: in mezzo, tra me e te, c’è una distanza, quella che tiene in allarme e che può far esplodere la lotta.

Bibliografia

  • G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, 1971
  • G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, 1984
  • G. Vattimo, Il pensiero debole, Feltrinelli, 1983
  • G. Vattimo, Dialogo con Nietzsche. Saggi, Garzanti, 2000
  • G. Vattimo, Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la    filosofia, Laterza, 1994
  • G. Vattimo, Vocazione e responsabilità del filosofo, Il Melangolo, 2000
  • G. Vattimo, Tecnica ed esistenza. Una mappa filosofica del Novecento, Paravia, 2002
  • G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, 1989
  • G.Vattimo, Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, 2003
  • G. Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Garzanti, 1985

Vincenzo Fiaschitello

Nato a Scicli nel1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola alla Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974, preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.

E’ autore di vari saggi sulla scuola, di opere di poesia e di narrativa.

Attualmente è redattore della Rivista culturale telematica “Il Pensiero Mediterraneo” (Redazione di Roma).

Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore Ordine al merito della Repubblica Italiana (1997).

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