Il nonno in collegio
di Maurizio Mazzotta
Il nonno frequentava il ginnasio a Lecce ma era la masseria che lo attraeva al punto che vi si recava ogni volta che poteva e anche quando non avrebbe dovuto, ché era tempo di scuola. Per un bambino con un maestro come Modesto e aule immense quali erano oliveti e vigneti, allora terreno di caccia, la masseria non esercitava soltanto quel fascino che fa sognare, sia pure intensamente, era davvero una calamita lucente che lo ipnotizzava e lo attraeva.
Quando tutta la famiglia di don Salvatore si trasferì a Nùvoli nel palazzo con lo stemma, nacque Vincenzo. Accadde come più tardi al nipote. Vincenzo si impossessò e si abituò al palazzo durante la prima infanzia e sperimentò più tardi gli spazi delle Torri e l’avventura, assai più vasti a quei tempi. Il resto della famiglia aveva un’opposta predilezione, perché l’ambizione di Salvatore Guerriero di abitare il palazzo con lo stemma era passata alla moglie e ai primi due figli in varia misura e si esprimeva in vario modo, consono al carattere di ciascuno e condizionato dalle diverse esperienze.
La moglie Addolorata, per quanto poco ambiziosa di suo, non poteva non compiacersi della scalata del marito sia pure con autentico pudore.
Il maggiore, Ferdinando, era nato e vissuto solo sei anni alle “Torri” e aveva assorbito e rielaborato in modo personale i sentimenti paterni e le spinte verso l’alto, e quando dalla masseria i genitori passarono a Nùvoli aveva nove anni, era già da qualche anno seminarista e tornava in famiglia di rado.
Nel seminario si suonavano tutti i toni delle virtù e cantate oltre che suonate erano la castità, l’ubbidienza, l’umiltà e la modestia. Si educava alla regola e all’autocontrollo. Se un seminarista in passeggiata collettiva nelle vie di Lecce incontrava i genitori non usciva dalla fila, poteva solo accennare col capo un breve saluto. Per questo Ferdinando si nascondeva nel cuore il piacere di entrare in quel palazzo. Ma lo sguardo avrebbe denunciato a un attento osservatore l’orgoglio rinchiuso. Sia pure di sfuggita, lanciava un’occhiata allo stemma quando varcava il portone, nelle poche settimane estive di vacanza concesse, perché il Seminario non era abbastanza ricco da possedere ville in campagna.
La secondogenita Rosaria, molto più giovane, libera nelle manifestazioni dei propri sentimenti, mostrava apertamente la sua soddisfazione di vivere nel palazzo ed era saldamente agganciata a Nùvoli. Ancora bambina chiedeva alla madre di essere acconciata come una principessa.
Vincenzo era stato concepito e nacque nel palazzo. Non conosceva le ambizioni covate dal resto della famiglia e potendo valutare con sereno realismo tendeva alle origini. Per la sua sensibilità era profondamente e autenticamente democratico e odiava lo stemma, avendo provato i rigidi vincoli che la borghesia si impone quando scimmiotta l’aristocrazia. E soprattutto avendo conosciuto le “Torri” in dimensioni di luce.
La voglia di aperture stimolò le sue fughe. Da bambino e da ragazzo fuggiva da Nùvoli e da Lecce per andare alle “Torri”; più tardi da Lecce per motivi e mete ancora più inquietanti.
La serenità di don Salvatore durò poco. Una volta insediatosi nel palazzo, considerata la strada intrapresa dal primogenito e soddisfatto per le ambizioni della figlia, nelle sue preoccupazioni c’era Vincenzo. La prima preoccupazione gliela regalò quando scappò dal collegio, creando subbuglio ovunque e apprensioni in famiglia per qualcosa che lui, don Salvatore, non poteva capire. Da allora lo impensierì, lo turbò, lo allarmò, in progressione con l’età e con ciò che faceva fino alla decisione di rimanere a Roma. Don Salvatore cercò di dimenticare il figlio senza riuscirci. A chi avrebbe lasciato tutto ciò che aveva? Quale cognome si sarebbe sostituito al suo? Nel corso degli anni Rosaria si sposò ed ebbe un figlio risucchiato anche lui dal Seminario di Lecce. Don Salvatore arrivò in fine che era disperato, e quando Vincenzo tornò a lui, lo perdonò. Assolse il figlio perché aveva bisogno di credere che il suo cognome non sarebbe finito con lui.
Il nonno aveva dolorosa coscienza delle pene procurate al padre. Cosa potevo fare, diceva più tardi al nipote, se mi accorsi subito che le mie esigenze erano altre, che avevo bisogno di una vita diversa? Comunque a soddisfare queste necessità, sia pure all’ultimo, aveva rinunciato. Per il padre o per qualche altro motivo?
A Nùvoli mancavano i locali per la scuola elementare. La scuola era la casa del maestro e i pochi alunni potevano pure essere fortunati se capitava loro un insegnante che, considerata la loro provenienza sociale, si metteva in testa di svegliargli l’amore per lo studio. A dieci anni Vincenzo si inserì in una vera scuola, in condizioni ambientali completamente diverse. Il Palmieri di Lecce era da qualche decennio un liceo con cattedre universitarie di Diritto Civile e Penale, annesse per alleggerire l’università di Napoli. Ai tempi del nonno era preside una straordinaria figura di garibaldino che spingeva gli allievi più grandi a conoscere la città, a vivere la cultura, mostre, spettacoli che essa offriva, a frequentarne i teatri, l’aristocratico Paisiello, il nuovo Politeama, che conteneva 1500 spettatori, costruito apposta per far fronte alla voglia di spettacoli del popolo. Il preside garibaldino, forse proprio per questo, fu interessato alle fughe di Vincenzo quanto il padre invece preoccupato.
Il racconto che presento è tratto dal romanzo breve Le sue dita come stecchi di mandorlo – essereuomo in Amazon. Regalo le poche copie rimaste a chi ha il piacere di leggere libri e vuole conoscere tutta questa storia, peraltro alcuni brani sono già apparsi in questa pagine. Nonno e nipote: scambio di emozioni. il nonno racconta due secoli del Salento e consegna al nipote le origini della famiglia intrise di gioie, dolori e incanti.