IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Il cavaliere Hernandez”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello (prima parte)

letto a baldacchino

letto a baldacchino

                                      

Al mattino presto cominciarono a sfilare, dinanzi al corpo del cavaliere Hernandez immobile e inerte su un letto con baldacchino attorniato da quattro grossi candelabri, conoscenti, gente semplice timorosa e ossequiente, che immancabilmente tutte le volte che lo incontravano per strada lo salutavano con rispetto.

Più tardi, in mattinata, prima che il corteo si muovesse per raggiungere la chiesa, sarebbero arrivati i notabili del paese. Il nano, suo fedele servitore, se ne stava seduto in un angolo della grande sala, già vestito con giacchetta e pantaloncini scuri. Sembrava rattristato, ma non si sa se per la morte del padrone o se per l’incerto destino che di lì a poco lo attendeva. Ogni tanto si alzava, andava alla finestra e dall’alto di uno sgabello il suo sguardo si faceva strada tra il glicine fiorito che pendeva lungo finestre e balconi e ricopriva la facciata della casa. A lui spettava il compito di guidare i visitatori illustri dal cancello alla sala dove era stata posta la salma.

Le donne cominciarono a recitare il rosario, spesso interrotto da brevi e pungenti commenti sulla vita del cavaliere. La più anziana che aveva preso l’iniziativa della recita del rosario era quella più attiva.

-“Povero cavaliere! Chi si sarebbe aspettata una fine così! E’ stata la solitudine che lentamente lo ha divorato, lui, un uomo così ben messo, vigoroso, autoritario”.

-“Eh, diceva un’altra al suo fianco, se l’è cercata lui la solitudine. La povera moglie, una vittima!”

-“E i figli? Ma lasciamo stare: Ave Maria piena di…”

E dopo aver dato uno sguardo al defunto:

-“La femmina, che ragazza buona e bella. Impazzita e chiusa in manicomio. E il povero ragazzo, che brutta morte, peggio di quella di un cane. Ma basta, ora è dinanzi a nostro Signore, saprà lui come giustificarsi e farsi perdonare!

La moglie del cavaliere Hernandez stava seduta su una poltroncina accanto al marito. Aveva il viso lacrimoso, gli occhi gonfi e ogni tanto pareva guardare il volto di cera del marito e sospirava. Facendo un segno con il braccio, chiamò Teresina, la donna che si occupava della casa e viveva lì da molti anni.

-“Ti prego, Teresina, prepara una tazza di tè a queste brave donne che sono qui da stamattina”.

Teresina contò le donne presenti nella sala e andò subito in cucina. Dopo poco quelle poterono ristorarsi con il tè e i biscotti alla mandorla che non mancavano mai in quella casa.

Verso le dieci, si vide il nano che, precipitandosi al cancello d’ingresso, accompagnò i primi illustri personaggi venuti a fare le condoglianze e onorare il defunto.

-“Signor barone, la ringrazio di essere venuto e anche lei, signor avvocato Scimone. E’ questa la fine che attende ciascuno di noi. Lottiamo, ci arrabbiamo, facciamo di tutto per prevalere sugli altri e poi ecco come ci riduciamo: un pezzo di legno che non sente e non vede più niente!”

E la donna crollò sulla poltroncina, tenendosi un fazzoletto sulla bocca e trattenendo a stento i singhiozzi. Il barone Pinna le mise una mano sulla spalla e in silenzio si avvicinò al cavaliere e banalmente disse: “Sembra proprio che dorma!”

L’avvocato confortò come poté la vedova e, dopo aver fatto il segno della croce dinanzi al defunto, si avviò con il barone verso l’uscita. In quel momento, accompagnati dal nano, giunsero altri due amici del cavaliere: il dottor Cassone, farmacista, e il professore Sipala. Anche loro ebbero parole di circostanza con la moglie, salutarono il cavaliere fermandosi a guardarlo con attenzione. Sottovoce il professore non poté fare a meno di dire all’amico: “Ma guarda come l’hanno conciato, agghindato come dovesse andare a un ballo. Gli manca soltanto l’orologio e la catenella assicurata all’asola del gilet!”

Un ultimo inchino e i due raggiunsero il barone Pinna e l’avvocato Scimone, che già si avviavano verso la cattedrale dove si sarebbero celebrate le esequie.

-“E’ uno spettacolo che mi rattrista profondamente, riprese a parlare il professore, quando vedo un morto trattato in quella maniera!”

-“Quale maniera?” si affrettò a domandare il barone, ignaro di quanto quello aveva detto poco prima al farmacista.

-“Eh, proprio così! Per me è un sacrilegio. Barone, lei non ha notato come l’hanno mascherato? Cravatta, vestito scuro, camicia immacolata con colletto e polsini inamidati, scarpe nere lucide, onorificenze attaccate alla giacca”.

-“Ma è giusto così, interruppe l’avvocato, ai morti si deve ogni onore!”

Ma il professore non era il tipo disposto facilmente ad arretrare dalle opinioni espresse: “Mi scusi, avvocato, la dignità di un morto non emerge dall’abito, dai ninnoli con cui possiamo circondarlo, dai paramenti solenni con i quali siamo soliti approntare la cerimonia funebre. Un morto è un morto! Siamo nati nudi, è giusto che, morti, andiamo nudi sottoterra. L’usanza antica era molto più rispettosa. Ecco, per me è meglio ripristinarla. Come sarebbe più dignitoso avvolgere il cadavere nudo in un semplice lenzuolo! Anche Cristo, calato dalla croce, fu avvolto in un telo e portato alla sepoltura!”

-“Bene, bene, disse il barone, il professore la sa lunga e con i suoi argomenti storici non possiamo spuntarla. Piuttosto, dobbiamo pensare al carro funebre. Vorrei che noi vecchi amici potessimo dare un contributo concreto alla vedova per le spese. Suggerirei di far sapere all’agenzia funebre di mettere sul mio conto la spesa della carrozza con due cavalli. Che ne dite?”

-“Ma certamente, barone, disse l’avvocato a nome degli altri che si affrettarono ad approvare e ci divideremo la spesa in parti uguali”.

Intanto nel giardino di casa Hernandez era entrata la carrozza funebre tirata da due cavalli impennacchiati. Si era radunata una piccola folla in attesa che la bara uscisse. Dopo pochi minuti si videro quattro uomini vestiti di grigio che senza alcuno sforzo portavano in spalla la bara di legno scolpito.

Il cavaliere Hernandez lasciava per sempre la sua casa. Donna Elena, la vedova, aveva voluto che la bara del marito facesse un giro per il lungo corridoio dalle pareti tappezzate di moltissimi ritratti degli antenati spagnoli. Lì il cavaliere amava passeggiare per ammirare quei volti.

Ora le cose attorno, quadri sedie tappeti tavoli tendaggi, tutto sembrava assumere l’aspetto di un mondo che, mentre la bara avanzava, si andava ritirando come esiliato e costretto a chiudersi in un’ombra sempre più vasta e silenziosa.

Il corteo si avviò verso la cattedrale, dove era in attesa una piccola folla. Il barone e i suoi amici avevano già preso posto in chiesa in prima fila. Al passaggio del carro, la gente si segnava e qualche donna a voce bassa commentava: “Il cavaliere non è stato come si dice un brav’uomo. E’ stato un uomo molto duro. Guardate la povera vedova come sembra addolorata. Io al suo posto non sarei andata nemmeno al funerale. L’ha fatto soffrire una intera vita. E lei, dimessa e ubbidiente, ha sempre accettato la volontà del marito!”

In chiesa il parroco accennò per doveroso spirito di carità alla vita irreprensibile di buon cristiano, nonostante le difficili prove cui il Signore lo aveva sottoposto. Al cimitero fu sepolto nella monumentale tomba di famiglia, accanto ai genitori e ai due figli.

Prima di separarsi, il barone disse ai suoi amici che l’indomani sarebbe arrivato ospite nella sua bella casa un giovane regista francese, che qualche mese prima aveva conosciuto a Parigi.

Monsieur Jacques Dupont aveva accettato con gioia l’ospitalità del barone. E poiché nutriva una grande simpatia per l’arte, la cultura, la vita allegra, la cucina del nostro paese, era sicuro di poter risalire la china della depressione che già da qualche tempo si era impadronita di lui e gli impediva di lavorare come prima. Non aveva più entusiasmo, né fiducia nella sua creatività. Le idee brillanti di un tempo non erano più stelle lucenti in un cielo azzurro, ma appena misere scintille che si spegnevano in un baleno senza lasciare traccia. A quarant’anni poteva vantare di avere realizzato una decina di documentari e un paio di film di successo. Poi più niente. La depressione gli mordeva il cuore e la mente. Ora sperava che il soggiorno che il barone Pinna gli offriva potesse aiutarlo a riafferrare la sua serenità e creatività.

La sera seguente il suo arrivo, il barone e Jacques uscirono a passeggio per il corso ad ammirare le bellezze barocche del paese. Poi al Circolo dei Nobili, Jacques venne presentato ai tre amici del barone e agli altri frequentatori. Il giovane regista che si distingueva per l’alta statura, per la capigliatura bionda, per il portamento elegante e il modo aggraziato con cui si esprimeva nella nostra lingua, fece un’ottima impressione. Jacques si trovò subito a suo agio e cominciò a elogiare quell’ambiente arredato in stile rococò, con grandi specchiere, tendaggi di velluto rosso, statuine di porcellana posate su piedistalli di marmo, stucchi ai soffitti, lampadari di vetro di Murano. Nel grande salone trovavano posto poltrone e divani e un buon numero di tavolini e sedie. Naturalmente Jacques volle informarsi sulla storia del Circolo, per cui il barone si affrettò a dire che il Circolo nacque all’inizio del ‘700 come esclusivo ritrovo di tutti i personaggi blasonati del paese. Sull’esempio dei club inglesi era proibito l’ingresso alle donne. “Solo di recente, continuò il barone, è caduto il divieto d’ingresso in omaggio a un maggior rispetto per le donne e quello ai borghesi privi di un titolo nobiliare, in nome della consolidata democrazia”.

In quel momento si avvicinò il garzone del bar: “Signor barone, vossia prende sempre il solito? E lei, avvocato, preferisce il gelato al gelsomino, vero? Per lei, professore, c’è una torta speciale! Al signor farmacista che porto? E a questo signore?”

-“Guarda, beddu picciottu, interloquì il farmacista, ieri non mi sei piaciuto. Mi hai portato un latte di mandorla cauru! Stasera fai na bedda granita ri caffè pi mia e pi chistu signuri francisi”.

Il garzone segnò tutto su un taccuino, poi restò immobile a guardare lo sconosciuto.

A quel punto, il barone lo riportò alla realtà: “Ca ma fari cu su palu?” E tutti si misero a ridere.

-Lei ci scuserà, disse il barone, ma tra di noi ci piace esprimerci spesso in dialetto, parlare la lingua della nostra madre terra.

-“E se volete sapere l’origine e il senso di questa espressione, disse il professore, ve lo dico io in poche parole”.

-“Sempre lui, il sapientone!” disse il farmacista

-“L’espressione nacque durante il lavoro di costruzione di una casa. Il capo mastro una mattina si accorse che uno degli operai assunto da poco  si era fermato come incantato con un palo di legno sulle spalle e per sollecitarlo a muoversi e a sbrigarsi gli lanciò la frase: Ca ma fari cu su palu? In seguito, alcuni buontemponi l’hanno pure caricata di un significato osceno, quando l’interlocutore risponde: Quali palu?

-“Bene, disse il barone, come vede caro amico è così che qui vola piacevolmente il nostro tempo. Piuttosto, ora che ci penso, a lei potrebbe interessare molto la vita del cavaliere Hernandez, che proprio l’altro ieri è stato sepolto. Ma prima che la mettiamo al corrente di ciò che sappiamo di questo personaggio, vorremmo che ci dicesse qualcosa di lei”.

-“Io non ho molto da dirvi, se non che ho sempre amato sin da ragazzo il cinema. Ho realizzato il mio sogno di fare il regista studiando in particolare i film dei maestri italiani. Ora, da qualche tempo, sono in crisi e ho accettato l’offerta del barone per una vacanza piacevole che possa ridarmi fiducia. Tutto qui. Anzi no, vi voglio narrare per tenervi allegri quello che mi è capitato all’aeroporto in partenza da Parigi. Al momento del check-in, l’impiegato della compagnia aerea italiana mi dice: “Signore, il suo bagaglio non può essere imbarcato perché eccede il peso consentito”.

-“Veramente la bilancia indica un peso che rientra nella norma”.

-“Signore, non importa quel che dice la bilancia, i suoi effetti personali possono avere un peso regolamentare, ma io non la lascio passare”.

-“Ma vuole scherzare?”

-“Le pare, signore, che tra tante incombenze abbia voglia di scherzare!”

-“Senta, mi lasci passare o sarò costretto a rivolgermi alla direzione”.

-“Faccia pure!”.

Vado a protestare nella stanza del direttore e questi mi dice: “Signore, in realtà i suoi effetti personali hanno un giusto peso, ma evidentemente l’impiegato ha letto nei suoi occhi, sul suo volto stanco, che il suo carico di affetti supera il limite. Lei si reca in Italia e per di più in Sicilia, una terra di mare e di profumi. La prego, provi a fare un sorriso e vedrà che l’impiegato la farà passare immediatamente”.

-“E ora, dopo questo intermezzo, parlatemi di questo cavaliere Hernandez, sono impaziente di fare la sua conoscenza tramite i vostri ricordi. Sono davvero curioso, vi ascolto”.

Per primo cominciò il barone che lo presentò subito come un uomo molto orgoglioso delle sue origini.

-“Per farle capire a che punto si elevasse il livello del suo orgoglio, le riferisco la storia dell’invito che fece a uno sconosciuto che dalla Spagna gli aveva fatto pervenire una lettera su carta intestata con tanto di stemma nobiliare.

Si dichiarava un suo lontano parente che avrebbe voluto conoscere e si firmava don Juan Hernandez.

La corrispondenza durò qualche mese, finché il cavaliere Hernandez si convinse che al punto in cui si era, sembrava opportuno, se non necessario, invitare quel parente di cui prima non aveva mai sentito parlare. Ricordo che chiese il mio parere e io tentai di dissuaderlo perché fiutavo qualche imbroglio. Ma niente. Il cavaliere si incaponì e, appunto, maturò l’idea di invitarlo all’inizio della bella stagione. Si sapeva che non navigava in acque tranquille sul piano economico, ma lui pur di fare bella figura era disposto anche a indebitarsi. E infatti mi chiese un prestito”.

“Carissimi amici, continuò il barone, una pagliacciata, ve l’assicuro! Erano venuti in quattro: il marito, la moglie e due figli. Dicevano di essere imparentati alla lontana con i Borbone di Spagna. Sin dalle prime battute mi accorsi che i luoghi, i tempi che rievocavano erano completamente sfasati. Don Juan raccontava motti di spirito, matrimoni e parentele di personaggi di cui non avevo mai sentito parlare, né da mio padre, né dai miei nonni. Volevo riferire questi miei dubbi e fatti che puzzavano di imbroglio, ma non ebbi l’animo di farlo: il pranzo era già pronto, le camere per gli ospiti erano sistemate con ogni cura, le luci splendevano, i piatti di preziosa ceramica e l’argenteria già facevano bella mostra sul tavolo. Non sapevo come fermare quella macchina di orgoglio che il cavaliere aveva messa in moto. Sorrideva, dava ordini alla squadra di camerieri che per l’occasione aveva richiesto a una nota agenzia del paese.

Finito il pranzo, il cavaliere conversò a lungo con il suo nuovo parente, il quale si sprofondava in cerimoniosi quanto ridicoli inchini ogni qual volta il cavaliere gli offriva un bicchiere, un cioccolatino, il gelato. Non aveva badato a spese. Dalla pasticceria, il cavaliere aveva fatto arrivare tutte le specialità di dolci siciliani.

Per tutto il pomeriggio, i figli di don Juan tormentarono Ninuzzu con le loro richieste. Il nano fece del suo meglio: li portò a visitare tutti gli angoli della casa, comprese le cantine che si prolungavano in gallerie sotterranee lunghe decine di metri, e il giardino che aveva un bel viale di alberi di alto fusto e diverse piante di limoni e aranci. Ogni tanto i ragazzi lo guardavano incuriositi e vedendolo così piccolo di statura credevano che fosse anche più piccolo della loro età, mentre invece aveva oltre quarant’anni e un viso rugoso.

(continua)

La seconda e ultima parte sarà online il prossimo 30 settembre.


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