IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Ginevra Sforza”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello – Parte quinta

Ginevra Sforza

Ginevra Sforza

I primi ad essere giustiziati furono i due fratelli Malvezzi e poi tutti gli altri, affinché i bolognesi non dimenticassero che un governo legittimo non può essere spazzato via dalla violenza della plebaglia, sia pure affamata. Nel contempo Giovanni cercava di calmare gli animi, promettendo mediante un decreto l’importazione di una giusta quantità di grano e di viveri per soddisfare i bisogni dei cittadini.

Era ormai evidente per Giovanni che il tumulto era stato orchestrato dalla famiglia Malvezzi. Le spie da qualche tempo lo avevano avvertito di una possibile congiura contro di lui. Ora dopo la decapitazione dei due giovani rampolli, Giovanni doveva pensare al capo famiglia. Il vecchio Malvezzi, angosciato per la sorte dei figli, si teneva nascosto. Ma fu tutto inutile, perché si trovò un servo corrotto che per una manciata di scudi d’oro fu pronto a pugnalarlo nel sonno.

Il momento dello scampato pericolo della congiura meritava finalmente di essere ricordato con solennità. Giovanni perciò incaricò il pittore Lorenzo Costa di raffigurarlo con tutta la famiglia nella cappella che da lui prese nome nella chiesa di San Giacomo Maggiore.

Durante i terribili giorni del tumulto, Ginevra e Gentile si erano tenute in disparte: Ginevra si limitava a incoraggiare il marito a resistere contro quei forsennati, Gentile preferiva restare anche di notte a casa dell’amica per il timore di cadere in qualche agguato. In realtà il pericolo non era affatto immaginario. Giravano voci gravemente denigratorie sul suo conto. Si diceva che lei invocasse il demonio tutte le volte che si accingeva a visitare un infermo e che ottenesse la guarigione grazie a quella intercessione luciferina. Qualcuno addirittura giurava di averle sentito recitare formule magiche, mentre saltellava per la via. Una serva di casa aveva udito il notaio rimproverare più volte la moglie, sorpresa nel suo laboratorio a mescolare una misteriosa polvere bianca con semi rossi mai visti prima e chiamare i demoni con strani nomi. Gentile era così entrata in un giro di menzogne vergognose, particolarmente pericolose per la sua stessa incolumità. Per di più nel convento francescano fra’ Silvestro era stato messo sotto accusa da un anziano confratello zoppo, che aveva riferito al suo superiore che un giorno fra’ Silvestro e la sua amica Gentile Budrioli avevano evocato forze demoniache, mentre eseguivano esperimenti nel laboratorio.

La notte stessa fra’ Silvestro fuggì dal convento e nessuno seppe dove si fosse andato a rifugiare, ma sicuramente lontano da Bologna.

Sfortunatamente per Gentile accadde un ulteriore grave fatto. Uno dei figli di Ginevra era stato colpito da una malattia misteriosa; i medici che lo avevano visitato non sapevano cosa fare. A Ginevra non restò altro che fidarsi della sua amica Gentile, la quale procedette secondo il solito con le sue erbe medicamentose. Ma tutto purtroppo risultò vano. Alcuni giorni dopo, il bambino morì. E la prima ad essere ritenuta colpevole fu proprio Gentile. Da quel momento anche Giovanni dovette arrendersi e cominciò a condividere le stesse accuse contro la donna che ormai molti bolognesi le rivolgevano. L’immagine di Gentile si era offuscata, la sua posizione diventava sempre più insostenibile soprattutto dopo che lo stesso Giovanni l’aveva abbandonata al suo destino.

Il temibilissimo inquisitore Domenico Pirri, già da qualche mese a capo del tribunale dell’Inquisizione presso il convento dei domenicani, era particolarmente adirato perché i francescani si erano lasciati sfuggire fra’ Silvestro, in odore di stregoneria e di eresia.

I tempi erano piuttosto favorevoli a una maggiore crescita del potere della Chiesa, non solo a Bologna dove lo stesso Giovanni lasciava che Gentile venisse perseguita, soprattutto per calcolo politico, per ingraziarsi il papa, ma anche a Firenze dove Savanarola, cacciati i Medici, aveva instaurata una repubblica in cui trionfavano i poveri, la morale e la religione con i suoi dogmi. In quella circostanza fuggirono da Firenze anche i grandi artisti chiamati da Lorenzo de’ Medici, il quale aveva accolto in casa lo stesso Michelangelo quando ancora era appena tredicenne. Ora a venti anni anch’egli è costretto ad abbandonare Firenze, spaventato dal clima politico della città e a raggiungere Bologna. Qui ha appena il tempo di mostrare il suo genio tra il 1454 e il 1455 scolpendo tre sculture (San Proculo, San Petronio e un Angelo) e completando così la bellissima Arca di San Domenico di Nicola Pisano dove è custodito il corpo del santo.

Domenico Pirri non si lascia sfuggire l’occasione per dare dimostrazione delle sue capacità di teologo, giurista e inquisitore. L’arresto di Gentile Budrioli, che il popolo chiama “strega”, è ormai cosa fatta. Pirri avrebbe desiderato anche arrestare la stessa Ginevra, ma evidenti ragioni di stato glielo impedivano.

Quell’arresto fu salutato con gioia, soprattutto dalle famiglie nemiche dei Bentivoglio. Era unanimemente riconosciuto che Giovanni avesse subito l’influenza negativa di Ginevra e della sua amica Gentile nella trattazione degli affari politici. Si pensava che persino la morte dei vari membri della famiglia Malvezzi fosse da imputare al desiderio di vendetta delle due donne, che avrebbero voluto la completa distruzione della famiglia.

In un’epoca in cui era frequente l’eliminazione fisica (il veleno e la spada erano di moda) dei propri nemici, il principe per salvare il proprio stato trovava pieno consenso se si serviva di tale procedimento. Nel caso dei Malvezzi, non avendo Giovanni eliminato tutti i membri della famiglia, accadde che coloro che si salvarono non disdegnarono di correre a Roma a invocare l’intervento del papa.

Dopo l’arresto, condotta nella prigione di San Domenico a pochi passi dalla sua casa nel Torresotto di Porta Nova, Gentile venne rinchiusa in una cella stretta, buia e umida. Un tavolaccio senza materasso, una sedia e un piccolo tavolo era tutto l’arredamento di quel triste ambiente. Trascorsero due giorni prima che qualcuno aprisse la porta (nei giorni precedenti attraverso uno spioncino aveva ricevuto un po’ di pane e acqua) e le annunciasse la visita di una persona importante.

Ginevra aveva dovuto imporsi con la sua ferma volontà affinché Giovanni le accordasse il permesso di far visita in carcere alla sua amica. Si trattava di un passo politico molto compromettente, in quanto era noto che Ginevra era stata coinvolta nelle stesse accuse, per cui il marito sconsigliava la visita. I giudici dell’Inquisizione non l’avevano arrestata solo perché era la moglie del signore di Bologna.

Ginevra era rimasta sconvolta per l’arresto dell’amica e per il gravissimo pericolo che correva. Ottenuto, infine, il permesso, vestita di nero e con il capo coperto dal velo, accompagnata da due dame e dalla scorta, si presentò alla porta delle prigioni. Il priore in persona la accolse, la fece entrare e lasciò fuori le persone del seguito. Ginevra riconobbe appena la sua amica. Sedute l’una accanto all’altra si abbracciarono e piansero a lungo. Poi d’improvviso Gentile, asciugandosi il volto e guardando le labbra sottili serrate dell’amica, il pallore tristissimo, fu presa come da una vaga pietà e, quasi volendo dare coraggio all’amica prima che a se stessa, cominciò a parlare.

-“Non affliggerti per la terribile sorte che mi aspetta. Sono ormai consapevole che niente e nessuno potrà liberarmi dal rogo. Dimostrerò che anche una donna sa morire con coraggio e dignità, come ha fatto Savanarola solo qualche settimana fa sul rogo a Firenze. Mi domando come possano ritenersi nel giusto questi carnefici teologi inquisitori? Nel nome dei dogmi che loro difendono, essi si arrogano il diritto di uccidere, ma Dio non può aver dato il diritto di far soffrire e distruggere le sue creature. Loro dicono di lottare per la verità. Ma io non conosco verità che non si trovi anche in ciò che si ritiene essere un errore, come d’altra parte accade che nella verità spesso si nasconda un germe di falsità. Quando una notte d’estate da ragazza vidi appollaiata la luna tra i tetti delle case della nostra città, fui così colpita dalla bellezza dello spettacolo che piansi di tenerezza. Un’onda di mistero invase la mia anima e fu allora che decisi di dedicarmi alla conoscenza, a studiare con passione la natura, a leggere gli astri, a servirmi di combinazioni di erbe naturali per vincere o almeno allontanare la morte. Ho imparato molto dallo studio delle erbe. Scoprivo con i miei esperimenti che alcune di esse potevano aiutare a ritardare l’ora suprema o anche ad anticiparla. Il dubbio in questo cammino era sempre presente dinanzi a me come una luce che mi incoraggiava sempre a continuare. Il mio spirito inquieto mi sollecitava a rifiutare i modi di essere della vita quotidiana, sentivo il bisogno di cambiare, di sfidare quello che tutti esaltano come il buon senso, la ragionevolezza, l’accettazione passiva delle credenze della tradizione, delle regole fondamentali di vita per una donna e cioè la cura della casa e dei figli o la via della monacazione. A me piaceva conoscere luoghi e persone lontani, discutere con dotti e artisti. Grazie ai miei studi, grazie anche a te, Ginevra, ho potuto realizzare una buona parte dei miei sogni e delle mie aspirazioni. Ma come purtroppo accade, l’invidia, la diffidenza, l’odio, l’ignoranza, il pregiudizio, hanno creato attorno alla mia persona ignobili menzogne, accuse false. I miei esperimenti, le mie ricette naturali, ogni mio gesto, movimento, ogni parola, sono stati interpretati con estrema malevolenza, come invocazioni del demonio, come colloqui con potenze del male e magie capaci di produrre malattie e morte nelle persone da me non gradite. Eccomi, dunque, chiusa in questo carcere in attesa di una ingiusta sentenza di morte”.

-“E’ tutto vero quel che tu dici, mia amica. Non posso fare altro che provare ancora una volta ad avere ascolto presso Giovanni, perché tu possa evitare la condanna, sebbene senta di avere esaurito tutte le mie lacrime”. E così dicendo ebbe appena la forza di carezzarle un’ultima volta i capelli, entrò il guardiano. Ginevra uscì coprendosi il volto con il velo e pianse in segreto.

Si era quasi alla fine di giugno del 1498. Gli interrogatori dei testimoni si susseguivano ogni giorno. L’inquisitore Domenico Pirri faceva valere non solo la sua preparazione teologica, ma anche quella giuridica. I testimoni erano invitati a riferire i fatti di cui erano a conoscenza, distinguendo quelli cui avevano assistito direttamente da quelli raccontati da altri. Tutto era trascritto con diligenza in un verbale che un segretario incaricato redigeva ogni giorno. La maggior parte dei fatti registrati riguardavano eventi che i testimoni avevano udito narrare da altre persone. Parlavano di evocazioni di spiriti, di invocazioni di demoni, di riti magici che l’imputata eseguiva con una polvere bianca ricavata dalle ossa di defunti estratte dalle tombe del cimitero, di congiungimenti carnali con Lucifero sul sagrato di una chiesa, di strane illuminazioni notturne, di un volo effettuato dalla finestra della sua casa verso un luogo fuori città. Persino il notaio Cimieri, marito di Gentile, era sfilato dinanzi al Pirri per testimoniare che quando la moglie si chiudeva nel suo laboratorio udiva voci e rumori strani. La serva di casa, anche lei convocata dal tribunale, riferì che la padrona le proibiva di entrare nel laboratorio e che varie volte di notte sentiva lamenti: “Oh Lucifero! Oh Lucifero! Ti aspetto, vieni!”

Ce n’era, dunque, abbastanza per sottoporre finalmente a interrogatorio e tortura l’imputata.

Al piano interrato delle prigioni di recente restaurate c’era una grande sala attrezzata con i più moderni strumenti di tortura: grosse tenaglie, pinze, ferri acuminati, corde, ruota, cavalletto, fruste, gogna, ecc.

L’inquisitore Pirri portava sempre con sé un grosso cumulo di carte, tra le quali raccolto in fascicolo, c’era il più aggiornato testo di caccia alle streghe, il Malleus Maleficarum (4). Per Domenico Pirri quel documento che aveva a lungo studiato e applicato era una sorta di Bibbia da seguire alla lettera. L’idea centrale era quella di non sottovalutare alcun elemento che potesse inficiare la dottrina della Chiesa. Si doveva colpire con rigore chiunque manifestasse opinioni eretiche e soprattutto la magia nera, la predizione del futuro, l’invocazione del demonio, tutte cose di cui erano particolarmente esperte certe donne, identificate come streghe. Da esperto giurista, il Pirri, dopo l’accurata fase delle indagini con la raccolta verbalizzata delle testimonianze e l’effettuazione del sopralluogo della casa di Gentile, la mattina successiva diede ordine di condurre l’imputata per dare inizio al suo interrogatorio.

Nel suo lavoro, Pirri procedeva non solo rispettando quanto prescriveva il manuale dei due domenicani, ma anche partendo dalle sue personali radicate convinzioni e cioè che le donne più degli uomini costituiscono un pericolo per il mondo, per la quiete della società, in quanto essendo credule sono più facilmente aggredite dal demonio, più impressionabili, più portate all’inganno. E non mancava di ricordare Eva.

A suo parere era, dunque, da condividere pienamente il suggerimento del Mallus circa le modalità dell’inizio dell’interrogatorio, cioè di sottoporre l’imputata a una breve tortura perché comprendesse la situazione grave in cui si trovava e rispondesse ben desta alle domande dei giudici.

Si andò avanti per circa un’ora. A Gentile venivano imputate le accuse di negromanzia, di raccogliere nei cimiteri, assistita da almeno tre demoni, le ossa dei defunti, di ricavarne una polvere bianca con la quale procurava malefici, malattie e morte alle persone secondo il suo piacere, di avere ceduta l’anima a Lucifero, di aver giaciuto con lui e con altri settantadue diavoli. Siccome, nonostante le sofferenze procurate dal graduale aumento delle torture, Gentile non confessava, si decise di interrompere l’interrogatorio e di riportarla in cella per quel giorno.

Per tutta la notte, Gentile non chiuse occhio per il dolore causato

dalle ferite su tutto il corpo. Alla luce fioca dell’alba, filtrata dalla inferriata della piccola finestra, vide o credette di vedere l’ombra di un frate che le diceva:”Hai bisogno di crescere in amore!” E lei:”Padre, non ho più bisogno di nulla, guarda le mie ferite, il mio corpo martoriato. Forse l’Eterno non vuole più nemmeno la mia preghiera”!

Passò appena qualche minuto e si videro entrare due aguzzini che la riportarono nella sala delle torture. Questa volta Gentile fu denudata, legata su un tavolo di legno e sottoposta a tortura. La richiesta ossessiva di confessione veniva ripetuta, ma Gentile si rifiutò di ammettere quel che non aveva commesso. Gli stessi giudici capirono che oltre non si poteva andare. Avrebbero privato la città di uno spettacolo esemplare che tutti attendevano, per cui su indicazione del Pirri decisero di procedere con quanto previsto in questi casi dal Malleus .

-“Non è indispensabile, disse Pirri, avere la confessione; con un ferro appuntito abbiamo cercato il punto insensibile che il demonio imprime sul corpo per comprovarne la proprietà, ma è stato inutile. Evidentemente il demonio per ingannarci le ha ridonato la sensibilità. E’ dunque colpevole. Risulta altresì colpevole anche secondo la prova del peso: posta su un piatto della bilancia e sull’altro il libro della Bibbia, abbiamo constatato che l’imputata pesa di più. Quest’ultima verifica ci dice senza possibilità di errore che Gentile Budrioli è colpevole. La condanniamo dunque al rogo sulla pubblica piazza”. (5)

Diffusa la notizia della condanna di cui del resto nessuno dubitava, il popolo si preparò ad assistere al rogo come se si trattasse di una festa. Gli oppositori politici di Giovanni esultavano perché in tale condanna di una sua protetta e consigliera, amica della moglie, vedevano un forte indebolimento del suo potere. Nulla egli aveva potuto fare per salvare Gentile, nonostante le preghiere e le lacrime di Ginevra, la quale era annientata dalle pieghe così tragiche della vicenda umana di quella donna che tanto aveva operato per rovesciare usanze e comportamenti, che negavano alcuni diritti fondamentali al genere femminile. Gentile in questa dura lotta viene coinvolta in un gioco più grande di lei, di odi e intrighi politici, di invidia, finendo col diventare un capro espiatorio in procinto di essere stritolato e ridotto in cenere.

Sulla piazza, dinanzi alla chiesa di San Domenico, si era radunata una

gran folla, sobillata dai padri domenicani, amici dei giudici del tribunale, che avevano ogni interesse perché il processo agli occhi della gente potesse apparire necessario per la salvaguardia della fede. Alcuni recitavano preghiere ad alta voce, alternando invocazioni al Signore affinché scacciasse il demonio che si era impadronito dell’anima di quella strega. Si levavano le grida vitree dei fanciulli che facevano agghiacciare quel po’ di sangue ancora rimasto nelle vene della povera Gentile.

Quando giunse fuori, sembrava non sentire più le voci della piazza, né le ferite che le procuravano ai suoi piedi scalzi certi ragazzi che, camminando sotto la passerella sulla quale avanzava lentamente, infilavano tra le tavole lunghi ferri acuminati. Sembrava ora che i suoi pensieri si fossero concentrati attorno a un luogo altrove, a un nido sicuro entro cui chiudersi.

Il frate che intendeva confortarla lungo il breve tragitto si accorse della inutilità di quanto andava dicendo e restò scosso nel suo orgoglio.

Il cuore di Ginevra, chiuso nella gabbia del torace fracassata per la lunga tortura, palpitava appena quando la legarono al palo impeciato.

L’urto della morte sopraggiunse ancora prima che le fiamme si levassero alte a divorare il suo corpo.

Tra la folla giubilante, mentre salivano al cielo le scintille di fuoco e un fumo nero sospinto dal vento bruciava gli occhi e la gola di coloro che si erano accalcati fin sotto il palco, uno strano mendicante in fondo alla piazza appoggiato al muro piangeva in silenzio, coprendosi il capo con un mantello logoro e sporco. Nessuno lo riconobbe. Fra’ Silvestro, quel 14 luglio 1498, volle lasciare il suo nascondiglio sicuro e tornare a Bologna un’ultima volta per fissare nella memoria la nobile immagine di quella donna, che gli era stata compagna di studi per tanti anni.

In un altro luogo della città nel fastoso palazzo da poco costruito, Giovanni, tentava di frenare il pianto di Ginevra, ma senza successo. Ginevra si era vestita a lutto come il giorno in cui seppe che la sorella Battista era improvvisamente morta a ventisei anni. Il suo era un dolore sincero e a nulla servivano quelle ragioni di stato che Giovanni portava a giustificazione del suo mancato intervento presso il tribunale dell’Inquisizione per salvare la vita alla sua amica.

Quel lusso, quella tappezzeria, quei soffitti decorati, quegli stucchi, quei mobili intarsiati di squisita eleganza, quei marmi che adornavano i lunghi corridoi, le scale e ogni nicchia, lo splendido vasellame di prezioso metallo, tutto le era venuto a noia. Le sembrava tutto inutile, meschino, perfino il suo bellissimo busto di marmo scolpito dal Laurana, quando tanti anni prima era andata a far visita alla sorella a Urbino. Giovanni l’aveva sempre apprezzato per cui aveva ordinato ai suoi architetti di collocarlo in posizione privilegiata nel nuovo palazzo.

Purtroppo dopo quell’evento drammatico, la sorte della famiglia Bentivoglio divenne precaria. Alcuni membri della famiglia Malvezzi sopravvissuti alla vendetta di Giovanni, fuggiti a Roma, pregarono insistentemente papa Giulio II di intervenire per cacciare dalla città i Bentivoglio, che governavano con violenza e avevano anche legami con eretici. Il papa non nascondeva il suo interesse per riprendere il controllo di un territorio sul quale era indiscussa la sua legittima autorità. Si convinse dunque a ordinare a Giovanni e alla sua famiglia di lasciare Bologna. E poiché Giovanni si rifiutava, truppe pontificie marciarono contro la città. A quel punto Giovanni non tentò alcuna difesa e, obbedendo all’ordine del papa, abbandonò in fretta la città e si ritirò a Milano presso gli Sforza.

Ginevra, invece, non volle ubbidire e si oppose alle truppe del papa con un piccolo esercito arruolato in fretta dal figlio maggiore. La resistenza fu spazzata via e il pontefice poté fare il suo trionfale ingresso in Bologna. Ginevra, scomunicata dal papa, fu esiliata. Si rifugiò presso il marchese Pallavicino a Parma. Sopravvisse il tempo sufficiente per vedere crollare tutti i suoi sogni. La sera, chiusa nella sua stanza, ripensava alla sua infanzia, agli anni di una adolescenza interrotta molto presto con il matrimonio; immaginava la sua morte, come sarebbero state le sue esequie in una terra estranea, come ciascuno dei suoi numerosi figli avrebbe accolto la notizia della sua scomparsa, come il suo sposo Giovanni nella sua amara solitudine, mal sopportato dai perenti Sforza di Milano per una ospitalità che di giorno in giorno si faceva sempre più ingombrante e infruttuosa, poiché ormai tutti avevano la certezza che il tempo di un ritorno a Bologna fosse impensabile.

In quei giorni le giunse anche la notizia che Giulio II, su istigazione dei Malvezzi, aveva dato ordine, dopo averlo a lungo visitato, di abbattere il palazzo, simbolo del potere dei Bentivoglio. Incendiato e raso al suolo, il meraviglioso palazzo trascinò con sé nella rovina anche il busto di Ginevra scolpito da Francesco Laurana.

I nemici di Bentivoglio si accanirono contro di lei anche dopo la sua morte. Non soddisfatti che aveva chiusa la sua vita separata dal marito e dai figli, sepolta in una fossa comune e non sotto una lastra di marmo nella cappella di una chiesa, continuarono nella diffusione di maldicenze sul suo conto, designandola come donna ambiziosa e consigliera vendicativa, fino a sostenere che si era strangolata perché non poteva più sopravvivere al peso dei suoi misfatti.

Qualcuno addirittura le dedicò per la sua morte un sonetto carico di odio e di disprezzo, anche per le sue origini ebree:

“Se fui nel mondo carca d’ogni vizio/ empia, maligna, avara, e scellerata/ or son nel Stigio Regno incatenata/ ove d’ogni fallir porto supplizio/…ciò avviene perché d’Ebrea Madre son nata/…voi altri Ebrei lasciate ogni mal fare/ pigliate esempio da mia acerba morte/…


(4)Da qui, più tardi nel 1525, prese ispirazione un altro inquisitore, Modesto Scrofeo da Vicenza, che mandò al rogo decine di donne e lasciò scritto un Formularium pro exequendo inquisitionis officio (inedito, custodito nella Biblioteca Casanatense di Roma)

(5)Quella sentenza di morte per la strega enormissima di Bologna (epiteto riportato nei verbali degli interrogatori), si andava ad aggiungere ad altre cinquanta – sessantamila donne uccise per stregoneria nel XV secolo. Ciò che più colpisce nei documenti domenicani è il fatto che la donna, dominata dal demonio, costituisce una minaccia per la società. Essa incarna la sessualità che è l’elemento primario della corruzione. Solo il rogo, sopprimendo il suo corpo, causa del peccato, può far trionfare l’ordine e la salvezza. In un contesto sociale maschilista tale modo di guardare alla donna appare del tutto normale: non è assolutamente possibile tollerare la libertà femminile. Un pregiudizio destinato a durare a lungo.

Vincenzo Fiaschitello

Nato a Scicli il 18/10/1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma con il massimo dei voti (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (Esami di Stato D.M.10/8/1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Vincitore Concorso nazionale a 119 cattedre, indetto con D.M. 30/6/ 1969) e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola –Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974 (Vincitore Concorso nazionale D.M.25/9/1970), preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.

Ha pubblicato oltre venti opere di saggistica, di poesia e di narrativa, nonché molteplici articoli di critica letteraria, di filosofia, di storia, di pedagogia e di didattica.

Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore Ordine al merito della Repubblica Italiana (Decreto Pres. Rep. 2/6/1997 ).

separatore
Rivista online Il Pensiero Mediterraneo - Redazioni all'estero: Atene - Parigi - America Latina. Redazioni in Italia: Ancona - BAT - Catania - Cuneo - Firenze - Genova - Lecce - Marsala - Milano - Palermo - Roma - Trieste. Copyright © All rights reserved. | Newsphere by AF themes.