“Il maestro”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello
-“Eccoci all’ultimo giorno di scuola, ragazzi; veramente
l’ultimo è per me che vado in pensione, non certo per voi che
dovete proseguire gli studi il prossimo anno alla scuola media.
Continueremo a vederci, quando volete venirmi a trovare a casa
potrete farlo, mi farete tanto piacere e insieme ricorderemo le
cose che abbiamo fatto con molta passione”.
-“Signor maestro, a me piacerà ricordare la poesia Tre casettine
dai tetti aguzzi… (1) e il commento che abbiamo scritto sul
giornalino!”
-“E a me, signor maestro, piacerà ricordare le interviste che
abbiamo fatto per strada agli operai che andavano al lavoro”.
-“E tu, Vitaliano, non ricorderai nulla? Perché te ne stai così
silenzioso?”
-“Lo so io, signor maestro, è triste, ma non lo vuole
ammettere!”
-“Bene, allora ci faremo una bella risata tutti insieme,
ricordando come Vitaliano il primo giorno che usammo il
ciclostile per la stampa del giornalino si imbrattò di inchiostro il
grembiule e poi distrattamente si portò le mani in faccia,
sporcandosi tutto il viso”. E scoppiò l’allegria! Poi il maestro
continuò: “Vi aspetto tutti a casa mia alle tre del pomeriggio e
festeggeremo con il dolce che ha preparato Ferdinanda”.
Bussò alla porta il bidello: “Maestro Bruni, il direttore, al
termine delle lezioni, l’attende in sala riunione”.
Il maestro Bruni ricevette gli applausi e le felicitazioni del
direttore e dei colleghi per il raggiungimento dei limiti di età e
l’assegnazione della pensione. Per la verità, non tutti
parteciparono con sincera amicizia e simpatia. Nell’ultimo anno
di servizio, il maestro Bruni aveva dovuto subire più di una
prepotenza, per colpa del collega Nicolini. Costui, molto amico
del direttore e suo confidente, aveva per gelosia professionale
diffuso da tempo notizie tendenziose sul metodo di
insegnamento del maestro Bruni, a suo dire, non rispettoso dei
programmi scolastici, troppo democratico, dispersivo e
inconcludente. Quei giudizi facevano breccia tra i colleghi che
condividevano il comportamento autoritario, rigido e
tradizionale del maestro Nicolini, sempre pronto a punire e a
usare la verga. Nicolini, insomma, si vantava di appartenere alla
vecchia guardia, come lo stesso direttore. Entrambi, subito dopo
l’armistizio del 1943, si erano dovuti allontanare dal paese per
qualche tempo, per timore di possibili rappresaglie nei loro
confronti, dal momento che il direttore aveva rivestito un posto
di responsabilità nell’amministrazione fascista e Nicolini si era
distinto prima come avanguardista e poi come agente della
milizia. Il maestro Nicolini sapeva tenere la disciplina, sapeva
far marciare i suoi scolari, che all’uscita della scuola facevano il
saluto militare al direttore che si mostrava pienamente
soddisfatto.
Era stato Nicolini a segnalare al direttore l’opportunità per il
nuovo anno scolastico (l’ultimo per Bruni) di formare una
classe con alunni ripetenti, indisciplinati e con problemi
comportamentali, una di quelle classi che in seguito verranno
chiamate differenziali.
Doveva essere una sorta di punizione. Invece per il maestro
Bruni quell’ultimo anno fu una splendida occasione per un vero
arricchimento umano e professionale. Furono ragazzi
straordinari: da esseri aggressivi e violenti, giorno dopo giorno,
si trasformarono e impararono a sfidare se stessi. Non fu più
guerra di tutti contro tutti, ma di ognuno contro se stesso, per
frenare la loro sovrabbondante energia vitale, il desiderio di
lotta contro gli altri. Impararono non a competere tra di loro, ma
a collaborare e a solidarizzare. L’entusiasmo di pochi bastava a
coinvolgere tutti gli altri nelle attività che il maestro andava
proponendo.
La redazione del giornalino di classe, la stampa con il ciclostile,
le lezioni all’aperto, le interviste ai cittadini, gli incarichi di
responsabilità, magari affidati con regolari votazioni, furono
esempi ben riusciti di un rinnovato modo di fare scuola, ma che
non mancarono di suscitare gelosie e calunnie.
Nel pomeriggio di quell’ultimo giorno di maggio del 1952, gli
alunni della quinta M si ritrovarono a casa del maestro Bruni,
dove Ferdinanda, l’anziana sorella del maestro, aveva preparato
una incomparabile torta con ricotta e cioccolato.
Mancava soltanto Vitaliano. Nessuno lo aveva visto!
La mattina seguente, Vitaliano bussò alla porta del maestro
Bruni.
-“Oh, Vitaliano, ti aspettavo ieri alla festa!”
-“Scusi, signor maestro, ma ho avuto molto da fare ieri fino a
tarda sera. Ecco, le ho portato questo”, e gli consegnò un
quaderno.
-“Vieni, accomodati. Fammi un po’ vedere. Oh, grazie, ma è un
diario e che bei disegni! Ma parli di me?”
-“Sì, signor maestro, ho voluto raccontare tutto ciò che di bello
lei ci ha insegnato. Ma due fatti soprattutto mi resteranno nel
cuore. Nessuno prima di lei aveva avuto fiducia in me: lei mi ha
dato il compito di portare delle lettere importanti ai suoi amici;
mi ha persino affidato il denaro per fare alcune commissioni. E
poi mi ha insegnato a rispettare tutte le persone, per quanto
brutte o ripugnanti possano essere. Le dico questo perché sono
riuscito a vincere la mia paura irrazionale. Lei conosce
Testagrossa? Sì, è quell’uomo che va sempre in giro per il
paese. Ha una testa enorme su un corpo piccolo, tutti lo evitano
e quando lo vedono fanno gli scongiuri. Molto spesso è ubriaco
e fa ancora più paura. Ecco, è proprio questo che voglio
raccontarle. Due giovani, quando lo hanno visto ubriaco, lo
hanno spintonato e poi gli hanno tirato dietro dei sassi. L’ho
visto barcollare e avvicinarsi a una ripida scalinata. Non ho
nemmeno esitato un istante, ho fatto una corsa e gli ho dato la
mano prima che rotolasse lungo le scale e l’ho accompagnato
fino alla porta di casa sua. Forse gli ho salvato la vita. E nella
felicità ho pensato a lei”.
-“Bravo, Vitaliano. Ora so che hai compreso che cosa significhi
solidarietà. Cosa intendi fare da grande?
-“Signor maestro, a me piace scrivere: sono sicuro che un
giorno parlerò di lei!”
-“Vieni Vitaliano, intanto leggi. Ti regalo per le vacanze estive
questo bel libro di un famoso scrittore ungherese I ragazzi della
via Pal. Io l’ho letto da ragazzo e mi ha tanto commosso”.
Dopo nemmeno un anno dal giorno in cui Bruni aveva lasciato
la scuola, la sorella Ferdinanda morì e lui restò a vivere da solo
in quella casa. Da una finestra poteva vedere il grande e
signorile palazzo del barone Busacca, con accanto la torre
dell’orologio; dalla parte opposta, la casa si apriva con un
ampio orto circondato da un basso muro di cinta confinante, a
non più di due metri, con un antico palazzo settecentesco
adibito a carcere minorile. Quando si affacciava, appoggiato sul
muretto come sul davanzale di una finestra, poteva vedere fin
dentro la cella il letto, il tavolo e le povere cose che un detenuto
di volta in volta portava con sé.
Poiché quella era la facciata della casa più luminosa, esposta al
sole, il maestro passava lì le sue giornate, ora passeggiando tra i
vialetti, ora seduto su una poltroncina a leggere un libro o il
giornale.
La campana della torre echeggiava ogni quarto d’ora, misurava
con i suoi rintocchi la tristezza di un altro giorno che si avviava
alla fine. I suoi occhi stanchi dietro le lenti erano continuamente
come affilati a mille pensieri che gli balenavano nella mente.
Ricordava come certi giorni a scuola restava con la voce rauca
per il lungo parlare alla ciurma dei suoi amati ragazzi, che al
vento sventolavano come bandiere le sue parole. Si accorgeva
ora che la giovinezza era lontana, che il suo parlare aveva
appreso il lento ritmo del suo passo stanco e che la voce esitava
spesso al bivio e forse al quadrivio della parola. E riteneva, non
a torto, che quella sorta di incertezza nel cercare un nome o la
parola giusta fosse il segnale dell’inizio di un male inesorabile.
Scacciava per un momento quel pensiero della malattia e
richiamava certi ricordi piacevoli come la vista del mare con il
suo tremolio d’oro, la raccolta delle mandorle e le lunghe sere
passate a liberarle dal mallo con la famiglia e gli amici alla luce
della luna e di un fioco lume. E quell’odore di scorza secca
d’inverno che bruciava nel camino! Pareva proprio che lo
sentisse ancora.
Al tramonto del sole, rientrava in casa, chiudeva accuratamente
le imposte e si accingeva a fare una frugale cena, non prima di
aver provveduto al gatto che gli faceva compagnia.
Accarezzandolo mentre si avviava verso la camera da letto
soleva dirgli con tono melanconico: “Mio caro, si va a letto
ogni sera, sperando di rivedere al mattino ancora la luce del
sole!” E dopo un’ultima carezza, lo adagiava ai piedi del letto,
lo copriva con una piccola coperta e si preparava al sonno.
Ma il sonno tardava a venire e continuava a pensare.
Pensieri strani: e se lui, o meglio, tutti gli uomini fossero
soltanto ombre, fantasmi, sogni sognati da un sognatore eterno?
Sì, forse è così, si diceva: infatti moriamo perché quel
sognatore smette di sognare quello e quell’altro e quell’altro.
Non sognando più quei tali, ecco che quelli non esistono più,
sono scomparsi. E allora a me non resta che pregare e sperare
che quel sognatore continui a sognarmi. Mi conviene fare piano
specie la notte, se no rischio di svegliarlo.
Un mattino d’estate, appoggiato al muretto dell’orto, si accorse
con grande sorpresa che entro la cella di fronte si muoveva
qualcuno. Credette dapprima a uno scherzo della sua debole
vista che negli ultimi anni era andata sempre più indebolendosi
a causa delle cateratte agli occhi, poi sentì la voce di un
giovane:
-“Buonasera, signor maestro!”
-“E tu chi sei? Come fai a conoscermi?”
-“Mi chiamo Vittorio e sono qui da qualche giorno. Sono stati
gli amici che, appena hanno saputo che sarei stato mandato in
questa cella, perché tutte le altre del piano inferiore sono
occupate, mi hanno parlato di lei”.
-“Spero che tu non abbia commesso qualcosa di grave e che
possa presto tornare a casa”.
-“Sì, signor maestro, lo spero tanto anch’io. Ho commesso un
furto e ora sono veramente pentito. L’avvocato dice che poiché
sono incensurato, è fiducioso che presto mi rilasceranno”.
Bruni era contento perché finalmente aveva qualcuno con cui
parlare senza muoversi da casa. E poiché la liberazione del
giovane tardava, i due trascorsero tutta l’estate a scambiarsi
opinioni, a fare considerazioni sugli eventi del giorno, a
rievocare episodi della loro vita. Per la verità, era quasi sempre
il maestro Bruni che rispondendo alle domande del giovane
parlava di sé, degli anni di insegnamento, della sua famiglia e
della solitudine che sempre più gli pesava. Parlava volentieri il
maestro perché si era accorto che il giovane lo ascoltava con
attenzione e curiosità.
-“Mio figlio, disse una sera al giovane, avrebbe la tua età, oggi.
Quando morì aveva appena compiuto sei anni. Una malattia
sconosciuta se lo portò via, lasciandoci in un immenso dolore.
E mia moglie lo seguì dopo pochi mesi. Tornando a casa, dopo
la sepoltura, piangevo sulla sua vita così breve: un passero
senza piume volato via dal nido all’alba di un mattino! Un
ruscello inaridito non più ridente tra le rocce, ora solo tenebroso
silenzio, ombra lieve, orma asciutta già cancellata, ecco che
cosa era rimasto nella mia casa. Passo dopo passo imploravo il
suo nome, pianissimo, perché la voce restasse dentro di me e
circolasse come il sangue nelle vene. E mi venivano in mente
quei versi di Virgilio, là dove dice: “Osai gettare nell’ombra la
mia voce di pianto, colmai d’affanno il silenzio delle vie…(2).
Ma scusami Vittorio se ti rattristo con questi miei ricordi”.
-“Niente affatto, signor maestro, mi dica piuttosto come si
chiamava e mi racconti qualcosa di lui”.
-“Come maestro ho sempre amato i bambini e a loro ho
dedicato le mie migliori energie. E dunque quando mi nacque il
figlio, che mia moglie volle chiamare Alberto, provai la gioia di
essere padre e di vederlo attraversare quelle tappe della sua
crescita fisica e psichica con lo stupore di chi ammira le
meraviglie e i segreti della natura. Ogni bambino è intriso di
poesia, di magia, di creatività. Stavamo bene insieme, ci
facevamo scherzi che ci tenevano allegri, osservavamo insieme
il risveglio e il sonno delle piante, i percorsi dei piccoli insetti
che vedevamo nell’orto. Bastava poco per farci sorridere.
Quando qualche volta mi vedeva distratto o preoccupato per
qualche motivo, mi veniva dietro mentre passeggiavo per i
vialetti dell’orto, avendo cura di mettere i suoi piedi
esattamente sulle impronte che lasciavano le mie scarpe.”
-“Fermati, papà, ora ti prego dammi il mondo!”
Era un gioco che gli proponevo sempre quando lui era
accaldato dopo una corsa o dopo il pianto per un capriccio
passeggero e gli era tanto piaciuto sin dalle prime volte.
Gli dicevo: ”Ora pensa che metto il mondo sulle tue mani,
prova a dirmi se è pesante”.
E lui: “Oh, come pesa, papà!”
-“Ne tolgo una fettina, ora com’è?”
-“Pesa ancora tanto!” diceva.
-“Ne tolgo un’altra”. E così via. Gli restava solo una fettina.
-“Sì, ora il mondo è di peso giusto, finalmente!”
-“Che ne facciamo delle altre fette che abbiamo tagliato?”
E lui: “Oh, povero mondo, non le buttare, ti prego, le metto qui
in tasca e le conservo”.
-“Vedevo in tempi sommersi nel futuro la sua vita colma di
gioie e di spine, come ogni vita. Ora non vedo né sorrisi, né
viltà. Forse meglio non esser nati? Io sogno spesso il mio
bambino perduto. E’ vero che nel sogno forse non siamo più
neanche noi stessi, siamo ombre che vaghiamo in mezzo a un
mare di nebbia. E in quel mare ci pare di scorgere castelli,
strade, monti, cieli, stelle inesistenti; ci pare di scorgere gli
amici con i quali ci siamo accapigliati da bambini; ci pare di
scorgere i nostri morti che ci sorridono, ci rimproverano o
passano indifferenti. In quella nebbia io vedo l’ombra del mio
bambino, a volte mi guarda con aria smarrita senza nemmeno
far segno di riconoscermi, altre volte sembra sorridermi e va tra
le altre ombre, e io mi chiedo perché non mi parla”.
Giungeva la notte, ma le pietre del muretto su cui il maestro si
appoggiava erano ancora tiepide per la calura del giorno. Quella
sera l’orologio della torre suonò le undici e i due con un gesto
della mano si augurarono la buonanotte.
-“Proverò a costruirti un aquilone”, disse il maestro una
mattina, rispondendo a una domanda inaspettata di Vittorio, che
voleva sapere quel che si vedeva dalla parte opposta della casa
e del carcere.
-“Metterò un filo molto lungo, così quando soffia il vento,
l’aquilone volerà alto, sopra i tetti, e tu con i suoi occhi potrai
vedere il bel palazzo del barone, la torre dell’orologio e
l’orizzonte fino al mare.
Durò tre giorni quella gioia: il vento lo faceva alzare di qua e di
là e dopo bizzarre ascensioni e rapide discese, si stabilizzava in
alto vibrando le ali. Lo legava alle sbarre di ferro della finestra
e stava lì a contemplare, illudendosi di veder quel che il
maestro gli aveva tante volte descritto.
Al quarto giorno, le guardie si accorsero di quel gioco,
entrarono nella cella e tagliarono il filo; l’aquilone sobbalzò, si
piegò da un lato e in picchiata andò a sbattere contro una parete
del carcere e poi si posò sul tetto di una casa lontana. Stette lì
ancora un pezzo, poi il vento lo fece precipitare miseramente.
Il maestro Bruni, allora, per confortare il suo amico per la
perdita gli disse: “Quando ero il signor maestro, riverito e
rispettato dai miei alunni, io mi sforzavo di far capire loro che
noi uomini con il nostro pensiero possiamo sempre andare
infinitamente più lontano della realtà che ci circonda. E’ il
nostro pensiero che ci fa volare, vedere le cose anche se i nostri
occhi non le vedono. Noi uomini, dunque, dobbiamo essere
grati alla natura, ma nello stesso tempo non dobbiamo
insuperbirci, perché anche noi siamo natura, siamo tutt’uno con
l’aria, la terra, l’acqua, il sasso, l’albero, l’insetto. Quando
diciamo “io”, tanti “io” ci rispondono dentro e allora sembra
che la nostra vita sia simile a quella dei pazzi. Il pazzo è colui
che è fuori di sé, è colui che ha il suo “io” nell’acqua, nel
fuoco: “io sono l’albero”, dice e assume l’identità dell’albero e
sta fermo, immobile con le braccia-rami allargati che si
muovono al soffio del vento; “io sono il grillo notturno” e
lancia il suo cri-cri notturno. I pazzi sono come i santi. I santi
sono pazzi di Dio: il santo ha il suo “io” nel lebbroso ed è
pronto a baciarlo, il santo ha il suo “io” nel povero ed è pronto
ad offrire il suo mantello, il santo ha il suo “io” nell’affamato
ed è pronto a dargli il suo pane”.
Vittorio lo ascoltava e piangeva. Prima di allora, nessuno gli
aveva mai parlato così. Gli avevano, sì, parlato di libertà, di
solidarietà verso il prossimo, di rispetto per gli altri e per la
natura, ma quelle parole gli erano sempre sembrate vuote,
completamente astratte. Ora provava un bisogno reale di uscire
da se stesso, dal suo egocentrismo, per trasferire il suo “io”
negli altri e in tutte le cose.
Un mattino, il maestro, non vedendo il suo amico e credendo
che fosse rimasto ancora a letto, richiamò la sua attenzione con
lo specchietto. Faceva girare vorticosamente, come aveva fatto
tante altre volte muovendo rapidamente lo specchietto, la luce
del sole che si stampava sulla parete della cella. Ma stavolta la
gibigianna non ebbe risposta. Guardò, aspettò invano.
Evidentemente la cella era vuota.
Aspettò un giorno, poi un altro giorno, ma non cambiò nulla.
Allora chiese aiuto alla sua unica vicina di casa, la signora
Clara, una vedova che di tanto in tanto si offriva per qualche
commissione o lavoretto in casa. Con lei andò a chiedere
notizie del giovane al capo delle guardie del carcere minorile.
Costui restò alquanto meravigliato.
-“Ma, maestro, è da tanto tempo che quell’ala del carcere è
chiusa, non mandiamo più nessuno. Abbiamo soltanto due
celle, qui al piano terra.”
-“E io le dico che ho parlato per tutta l’estate con un giovane
chiuso nella cella di fronte al mio orto”.
-“Mi dispiace, signor Bruni, non so che dirle, ma le assicuro
che è stata sempre vuota da almeno cinque anni.”
-“Allora chi era quel giovane con cui ho parlato?”
La signora Clara e il capo delle guardie si dettero uno sguardo
d’intesa.
-“Andiamo, maestro, disse la signora Clara. E’ meglio che oggi
si riposi un po’ a letto. A pranzo le porterò una buona tazza di
brodo e si riposerà. Vedrà che starà meglio!”
La sera, la signora Clara tornò a portargli qualcosa di caldo e
una fetta di pane che aveva cotto lei stessa nel forno a legna
della sua casa. Il vecchio maestro se ne stava seduto in poltrona
con una coperta sulle ginocchia. La donna poggiò il vassoio e
gli mise nel taschino della giacca un garofano rosso. Mentre lei
si chinava, il maestro le accarezzò i capelli grigi e la ringraziò.
A distanza di molti anni, il maestro, ancora molto lucido,
ricordava i colloqui con il giovane Vittorio. E come se quello
potesse ancora udirlo, diceva: “Caro amico, invecchio
irreparabilmente, non sento quasi più le mie gambe. E’ andata
via da un pezzo quella illusione che ciascuno ha che non si
debba mai morire, che non tocchi a noi, ma agli altri, quella
illusione che spinge a tuffarci nella vita, nel mare del male,
meno che nel mare del bene, nella sete di gloria, di benessere.
A un certo punto della vita, e io sono arrivato a quel punto,
l’incertezza del morire ha di molto ridotto il suo raggio. Se
prima era lungo e si perdeva lontano nella foschia, ora è così
ridotto che posso misurarlo: da qui a là perfettamente visibile
da poterlo toccare allungando semplicemente il mio braccio. La
vita, dopo tutto, è stata lunga: ho visto luoghi, tramonti, ho
cullato sogni, ho assaporato gioie e il sale delle lacrime. Che
più? Mi restano negli occhi il sorriso di un numero incredibile
di bambini, i loro racconti, i piccoli segreti, le piccole angustie
e le loro speranze del futuro. Mi restano nel cuore le parole di
coloro che sono stati per me maestri di vita, che mi hanno
insegnato ad amare e mettere da parte pregiudizi, violenza e
orgoglio. Non ci potranno mai essere parole così colme di
riconoscenza verso coloro che ci hanno consegnato la fiaccola
della vita. Essere nati con questa carne che pure tra mille
difficoltà ci ha ben servito e con questo fiato di Dio che l’ha
nutrita e l’ha resa viva, è stato un supremo privilegio. Per nostra
fortuna, il profilo della morte che via via nel corso degli anni
andiamo scoprendo procede in senso contrario all’avanzare
dell’età: quando siamo ancora bambini, abbiamo orrore della
morte perché il suo profilo è simile a quello di una vecchia
megera, senza denti, con gli occhi affossati e i capelli radi; man
mano che diventiamo adulti e infine vecchi, il profilo della
morte si addolcisce, assume l’aspetto di una donna giovane e
bella, attraente, che non ci procura più quel terrore irrazionale
di un tempo, ma ci chiama, ci accoglie con dolce pietà.
Finisco i miei giorni con la fede dell’uomo occidentale verso
l’esistenza del divenire, fede che le cose sono un uscire dal
niente e un ritornare nel niente”.
Nel pieno dell’inverno a oltre ottanta anni, il maestro Bruni si
ammalò gravemente.
In ospedale, dove era stato ricoverato, un mattino ricevette una
visita. Un uomo sui trent’anni aveva chiesto di lui e l’infermiera
lo aveva accompagnato al letto dove giaceva con gli occhi
socchiusi, semiaddormentato. La donna lo voleva svegliare, ma
quello le fece segno di no. Si chinò su di lui e all’orecchio gli
sussurrò:” Tre casettine dai tetti aguzzi…”
Il vecchio aprì gli occhi e sorrise: “Tu, Vitaliano? Ero sicuro
che ti avrei rivisto!”
-“Come vede, maestro Bruni, ancora mi commuovo a ricordare
quei versi!
(1)A. Palazzeschi, Rio Bo, in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2002
(2) Ausus quin etiam voces iactare per umbram/ implevi clamore vias….Virgilio, Eneide II 768-769
Vincenzo Fiaschitello
Nato a Scicli il 18/10/1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma con il massimo dei voti (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (Esami di Stato D.M.10/8/1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Vincitore Concorso nazionale a 119 cattedre, indetto con D.M. 30/6/ 1969) e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola –Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974 (Vincitore Concorso nazionale D.M.25/9/1970), preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.
Ha pubblicato oltre venti opere di saggistica, di poesia e di narrativa, nonché molteplici articoli di critica letteraria, di filosofia, di storia, di pedagogia e di didattica.
Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore Ordine al merito della Repubblica Italiana (Decreto Pres. Rep. 2/6/1997 ).