A Castro, la “caseddra” delle mie “Frasciule”
di Rocco Boccadamo
Nel centro abitato di Castro, la splendida e apprezzata “Perla del Salento”, esiste, adesso, un cartello di segnaletica stradale indicante via Frasciule, nell’omonima zona di espansione edilizia, fra civili case popolari e edifici di tipo residenziale a uso di residenti e/o ospiti. L’area in questione si trova alla periferia della cittadina, esattamente a fianco di un comprensorio di verde pubblico, ricco di lecci, macchia mediterranea e altre interessanti specie di flora, denominato Parco delle querce, e però, lungo l’arco di secoli, già conosciuto con un appellativo differente, in altre parole Bosco Scarra o Bosco dello Scarra.
Nel 2023, ci troviamo, dunque, nell’ambito di un agglomerato abitativo, mentre, fino ad alcuni decenni addietro, si aveva di fronte semplicemente un fondo rurale, in mezzo ad altri terreni agricoli, adiacente al comprensorio del bosco sopra indicato, che, sebbene rimaneggiato, è tuttora presente.
Tuttavia, nella circostanza, si ha l’espressa intenzione di dedicare queste righe non già alla situazione attuale, bensì alla mappa, consistenza e destinazione precedenti del sito in discorso; del resto, dell’habitat dei tempi lontani, ancorché risalente alla sua primissima fanciullezza, dai due ai quattro anni d’età, l’osservatore di strada che scrive serba un ricordo vivo e nitido.
Con riferimento a quel posto, l’immagine passata conteneva niente più che il fondo agricolo delle “Frasciule”, accatastato come seminativo, ricco di piante di fico, con l’aggiunta di qualche albero di carrubo e adibito anche alla coltivazione di ortaggi.
Ne era proprietario, un signore originario di Marittima, anche se, da adulto, aveva scelto di trasferirsi a Lecce, facente parte di una famiglia signorile del paesello, tale don Gustavo Russi. Per completezza di logistica, v’è da aggiungere che, durante la stagione dei bagni, il predetto benestante se ne veniva in villeggiatura a Castro, dove possedeva una villa in zona Grotta del Conte.
Negli anni quaranta, all’incirca intorno alla fine della seconda guerra mondiale, nonno Cosimo, capo di una famiglia numerosa con moglie e sei fra figlie e figli, prese a mezzadria, da don Gustavo, l’anzidetto appezzamento delle “Frasciule”, conducendolo direttamente per svariate stagioni.
Sul terreno insisteva anche una casetta in pietra, che, fortunatamente, è sopravvissuta e si può scorgere tuttora, sia pure circondata, in parte, dalle palazzine recentemente realizzate lì intorno.
Una casetta (caseddra) spartana, tipica e simbolo della civiltà contadina, dotata di un’apertura d’accesso sul frontespizio, senza ovviamente alcun infisso o porta di legno o in altro materiale, sovrastata da una finestrella a forma triangolare, finalizzata, insieme con un altro finestrino quadrato situato al centro della parete posteriore, all’aerazione dell’ambiente interno. Caratteristica carina, una scaletta, parimenti in pietra, appoggiata a una parete esterna, per montare, dal terreno, sino alla copertura del manufatto.
Nel periodo estivo, in cui si concentravano diversi raccolti agricoli, ossia a dire patate, grano, orzo, legumi, lupini, fichi, carrube, fichi d’india, nonno Cosimo, unitamente al suo nucleo famigliare, si trasferiva stabilmente alle “Frasciule”, attendendo ai lavori, consumando i pasti e rimanendo, infine, a dormire: tutti insieme, nella ricordata casetta, per letti, semplici stuoie aperte sul pavimento e, in ogni caso, vale la pena di rimarcarlo, dopo le lunghe ore di fatica, il riposo alle membra e il sonno ristoratore non tardavano.
Le “Frasciule” rappresentavano, in certo qual modo, la base principale per lo svolgimento, da parte della famiglia di nonno Cosimo, dell’attività agricola nel suo complesso, nel senso che anche i raccolti di altri terreni, di proprietà o condotti a mezzadria, ad esempio i fichi maturati nel Bosco dell’Acquaviva, una volta raccolti e contenuti in capienti panieri di canne e vimini, erano trasportati sulle spalle, ovviamente a piedi, sino alle “Frasciule”, per essere ivi spaccati ed essiccati al sole su appositi cannizzi.
Per la verità, i giovani di casa Boccadamo, talora, si lamentavano con il genitore per tali lunghi tragitti con pesanti carichi addosso. In quegli ormai lontani anni, dal 1943 al 1945, succedeva di tanto in tanto che lo scrivente, classe 1941, fosse temporaneamente affidato ai nonni paterni Cosimo e Consiglia e relativi zii, così che trascorreva alcuni periodi, unitamente a loro, nel fondo e nella casetta delle “Frasciule”.
Per coprire i quasi due chilometri di strada fra il rione natio dell’Ariacorte e, giustappunto, la provvisoria dimora, il bambino non ce la faceva o, perlomeno, dava ad intendere di non essere in grado, a camminare con i suoi piedi e, di conseguenza, doveva intervenire la buona volontà e la pazienza del giovane zio Vitale, il quale si caricava Rocco sulle spalle.
Nonostante tale provvidenziale venuta in soccorso, rimaneva, per il piccolo, un altro problema: egli aveva un terrore matto della morte, dei defunti e di tutti i riferimenti e ambienti correlati, compreso il cimitero del paese, caratterizzato da alti cipressi. Purtroppo, per recarsi dall’Ariacorte alle “Frasciule”, era inevitabile percorrere la strada comunale sterrata Marittima – Castro, si doveva passare per forza accanto al camposanto, così, in ogni occasione, succedeva immancabilmente che Rocco, non appena intravedeva da lontano detti cipressi, serrasse gli occhi e si avvinghiasse al collo dello zio Vitale tenendo il capo abbassato, per ritornare poi ad aprirsi dall’isolamento e a guardarsi intorno solo quando si rendeva conto che il cimitero era stato superato e si trovava ormai lontano alle spalle.
Scorrevano serene e interessanti le giornate del piccolo ospite alle “Frasciule”: caccia alle lucertole o ai grilli, costruzione di rudimentali dischi con le pale di fico d’India, scalate sugli alberi da frutta per abbondanti assaggi, qualche puntata spericolata sino alla parte posteriore del fondo, dove si trovava una vasca di raccolta di acque piovane utilizzate a scopi irrigui.
Il “pilune” (grande pila), presentava all’interno, semi immerse nell’acqua, alcune grosse pietre ed era il regno incontrastato di famiglie di rane, oltre che, a volte, abitacolo di qualche serpentello, in particolar modo di un rettile innocuo proprio di queste zone, il biacco, di colore nero intenso che solo ad apparire, faceva scappare a gambe levate il giovanissimo esploratore.
Alle “Frasciule”, si sviluppavano, prendevano corpo alcune abitudini rimaste impresse nella mente, come le levate all’alba di nonno Cosimo al fine di raccogliere le primizie di frutta e ortaggi che recava in dono e omaggio al proprietario del terreno don Gustavo, in villeggiatura nella vicina Castro: così si usava fare allora.
Ancora, per assumere i pasti preparati dalla nonna Consiglia nella quadara in rame rossa, non esistevano per niente le posate e per attingere al cibo nel grande piatto comune si faceva ricorso ai gambi di cipolla, opportunamente sagomati alla base in funzione di cucchiaio o di forchetta, secondo il tipo di minestra del giorno.
Bello e tonificante, come già accennato, era il dormire nella casetta delle “Frasciule”, adagiati alla buona sul duro pavimento e, in qualche evenienza, con la compagnia di ospiti non proprio graditi, sotto forma di un topolino, una lucertola o una sacara, altra varietà di rettile presente da queste parti fra i vecchi muri o le pietraie, fonte di forte impressione sebbene non velenoso.
Saltuariamente, infine, nonno Cosimo era solito declamare, in idioma rigorosamente dialettale, alcune filastrocche; fra le stesse, mi sovviene particolarmente questa:
Pingula, pingula, barbaria,
vi ce dice la mescia mia,
la mescia mia, la Pignatara,
vi ce dice la cucchiara,
la cucchiara netta netta,
vi ce dice la trummetta,
la trummetta tuu, tuu,
essi fori, ca tocca a tu.
Leggibilmente, pingula, pingula, barbaria (traduzione sconosciuta), vedi che dice la mia maestra, la mia maestra, la Pignatara, vedi che dice il cucchiaio, il cucchiaio pulisce pulisce, vedi che dice la trombetta, la trombetta che fa tuu, tuu, vieni fuori perché tocca a te.
Durante la permanenza alle “Frasciule”, capitava anche che, a Castro, si celebrasse la festa della Madonna del Rosario, o Madonna mmenzu mmare, con la caratteristica processione di barche, rito, cui il piccolo Rocco non mancava di assistere accompagnato dai parenti.
Tempi lontani, abitudini tramontate e scomparse e tuttavia rimaste scolpite, giacché hanno segnato in maniera davvero profonda e incisiva la loro epoca.
Ci penso, ogni volta che passo dalla zona delle “Frasciule”, ora centro abitato. Scendendo da Marittima, il terreno era preceduto da un fondo comprendente una piccola casa di villeggiatura, detta il Casino, su due piani, con ingresso sul fronte strada delimitato da colonne in pietra tinteggiate di rosa, al pari della costruzione. Ci sono ancora, pressoché intatte, le colonne, mentre l’edificio si presenta in gran parte crollato e stinto.
Nel Casino si recava ad abitare, in estate, una signora di buona famiglia di Castro, donna Chiarina, la quale, rammento, aveva una figlia, Cecilia, non vedente dalla nascita.
Passando gli anni, venendo sempre maggiormente meno le sue capacità visive e man mano sposandosi i figli, il nonno Cosimo abbandonò la conduzione a mezzadria delle “Frasciule” e così cessò anche il trasporto delle panare di fichi dal Bosco dell’Acquaviva.
Nel ruolo di nonno Cosimo subentrò un suo nipote, il quale, anzi, in seguito diventò proprietario del fondo, acquistandolo da don Gustavo. Fattosi a sua volta anziano, le “Frasciule” passarono, quindi, al maggiore dei suoi figli. Quest’ultimo, agli inizi, non era molto soddisfatto del cespite pervenutogli, ma poi, inopinatamente, è stato per così dire ripagato all’atto dell’esproprio dell’area delle “Frasciule” per opera del Comune di Castro, in vista della realizzazione del complesso abitativo.
Difatti, in tale sede, gli sono stati dati in permuta alcuni appartamenti che assicurano alla sua famiglia un’apprezzabile rendita per affitto.
Gli anni dei temporanei soggiorni del piccolo Rocco alle “Frasciule”, precedettero di poco una fase assai importante sulla via della modernizzazione e dello sviluppo di Castro, all’epoca facente parte, insieme all’altra frazione di Marittima, del comune di Diso.
Il richiamo va esattamente all’amministrazione, dal 1946 al 1951, guidata dal sindaco Agostino Nuzzo, ancora adesso ricordato.
Il predetto si rese promotore d’importanti e primarie opere per il miglior sviluppo e la crescita di Castro, fra cui l’ampliamento di piazza Dante, la costruzione del ponte che collega il Canalone al Porto Vecchio, della rotonda belvedere, realizzazioni attuate con piglio attraverso Cantieri di lavoro. Ciò, nonostante le proteste e le reazioni di alcuni signorotti, a Castro unicamente per la villeggiatura, titolari di benessere e privilegi esclusivi, contrapposti alla povertà della gente in genere, i quali, verosimilmente, vuoti Gattopardi del Basso Salento, miravano più che altro a conservare la propria posizione.
Provvidenziale, dunque, l’azione di amministratori pubblici che guardavano al bene della comunità e a prospettive di crescita diffusa.