Dal “palazzo nuovo” di Marittima, sud Salento, echi di cronaca sulla morte di Stalin
di Rocco Boccadamo
Non sembri una provocazione, ma, talora, sul metro del sentire individuale e strettamente soggettivo, può succedere che un evento di storia, anzi, come nella richiamata circostanza, di grande storia, rimanga prodigiosamente incasellato e ricordato in seno agli angusti confini di un paesello e alle minuscole vicende e relazioni fra individui, correnti in mezzo a quattro case
Così, almeno, è per chi scrive
A onore del vero, lo spunto per le presenti note viene dall’accenno, fornito tempo fa dalla stampa e dai mezzi d’informazione in genere, circa la ricorrenza del settantesimo anniversario della scomparsa di Stalin, statista, politico e dittatore sovietico bolscevico, Segretario Generale del Partito Comunista dell’URSS e leader di quel paese dal 1924 al 1953. Sicuramente, figura di spicco a livello mondiale, che, nel bene o nel male, secondo i punti di vista, ha lasciato un’impronta di rilievo sul corso e sul graduale divenire delle vicende del ventesimo secolo.
Contava solamente dodici anni, nemmeno compiuti, il comune osservatore di strada, quando, sul calendario appeso alla parete, fece capolino il marzo 1953 ed era in 1° Media, da privatista, cioè a dire affidato alla preparazione a cura del suo maestro delle Elementari.
Questo, per una breve parentesi da convittore, nella lontana e prima sconosciuta Anagni, ingloriosamente conclusasi con il ritorno forzoso a Marittima, invocato a colpi di lacrime per “sintomi” di spaesamento e, soprattutto, per angoscia da separazione dalle cure materne, che aveva fatto saltare i tempi ordinari d’inizio e frequenza dell’analogo corso presso l’apposita scuola pubblica in Maglie.
Cosicché, essendo il suddetto insegnante, al mattino, occupato con la classe di alunni dell’istruzione obbligatoria, le sue lezioni avevano luogo, a casa sua, durante il pomeriggio.
Lì, fra gli altri allievi, veniva anche Enza, la quale doveva approfondire le ordinarie materie di studio al fin di poter sostenere gli esami d’ammissione alla Scuola Media: all’epoca, per frequentarla, non vigeva alcun obbligo e, però, era necessaria una prova selettiva.
Una ragazzina aggraziata e gentile, Enza, di famiglia abbiente, il padre, medico e, nello stesso tempo, per eredità, proprietario terriero, la madre, distinta signora originaria di una cittadina del Nord Salento.
Enza era la terzogenita, prima di lei, una sorella e un fratello, già fuori da Marittima, alle Medie o alle Superiori.
La casa d’abitazione di Enza era rappresentata da un grande edificio, a piano terra e primo (o nobile) piano, sulla via principale del paese, da sempre e anche adesso noto come “Palazzo Nuovo”.
In realtà, secoli addietro, in quel punto di Marittima, sorgeva un palazzo baronale con ampio giardino attiguo, soprannominato giustappunto “Aria ‘u barone” (Aia del barone), fino a quando, tale augusta dimora, non fu attraversata e rimaneggiata da una sede stradale e, quindi, ne residuarono solo due separate sezioni: da un lato, una casa, quasi completa, con bellissimo stemma araldico che, anche oggi, si nota alla sommità del portale d’ingresso e, dall’altro, una torre massiccia detta “Torre d’Alfonso”, dal nome del proprietario.
Ai primi del 1900, proprio a fianco di tale torre, fu edificata una struttura grande e moderna, ecco l’origine dell’appellativo “Palazzo Nuovo”, su due elevazioni: per la precisione una metà circa dell’area coperta è rimasta incompleta, forse per mancanza di disponibilità nelle tasche di un comproprietario, con vani terranei, sovrastati, unicamente sul frontespizio, da un’infilata di balconi e finestroni e con, alle spalle, spazi semplicemente a piena aria.
Nella casa di Enza, invece, stanze enormi e dalle volte altissime, che colpivano gli occhi dell’amichetto e compagno di studio. Senza soverchio riguardo per gli orari, mi portavo spesso e di buon grado nella magione del dottore, dove, oltre che E. e la sua mamma, notavo immancabilmente la presenza, fissa, di una persona di servizio, donna di mezza età, piccola di statura, gentilissima, proveniente da una località del Capo di Leuca, dal nome particolare e inconsueto, che non posso citare per intero, Carmina.
La signora, con amabilità, mi offriva sempre qualcosa, una caramella, un piccolo dolce, un frutto e, ad ogni modo, la permanenza accanto ad Enza, tra la risoluzione di un problema, una pagina di storia e un tema d’italiano, a quattro mani o a due voci, si snodava simpatica e piacevole.
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In un mattino di marzo del lontano 1953, intorno alle undici, ci trovavamo nella cucina soggiorno: un locale immenso con grande tavolo centrale, pieno di sole, grazie alle ampie vetrate. Appoggiata su una mensola, una radio dell’epoca con struttura esterna in legno, marca “Geloso” o “Telefunken”, non ricordo esattamente, si faceva sentire in sottofondo con voci e suoni. All’improvviso, preceduto da una specie di cinguettio, emise un annuncio nei seguenti termini:
“Il giornale radio è trasmesso in edizione straordinaria per annunciare che, a Mosca, si è spento Iosif Vissarionovic Stalin”.
A tale comunicato, tutti i presenti, adulti e ragazzi, restarono bloccati. Anche se l’evento si era consumato a migliaia di chilometri di distanza, evidentemente, la fama del protagonista era talmente elevata da far sì che la notizia lasciasse il segno. In altri termini, anche nella minuscola e sperduta Marittima, si sapeva chi fosse Stalin.
Notare che, quella radio era forse l’unica nel paese, di giornali non se ne leggevano punto, con l’eccezione di qualche saltuario acquisto presso la rivendita di “Sali e tabacchi” gestita da Dante e Assunta, a pressi di saldo, per opera di un ragazzino di 1° media, di numeri arretrati e rimasti invenduti dei periodici “Settimana Incom”, “Epoca” e “Tempo”.
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Si sono inanellati settant’anni, tuttavia, i solchi tracciati dall’aratro del tempo alle spalle di questa vicenda storica, mi sembra che risalgano appena a ieri e, alla medesima suggestione, che la mia stessa età non abbia compiuto, come è nella realtà delle cose, un lunghissimo cammino.
D’altronde, mentre io ho smesso il lavoro ormai da cinque lustri, Enza, sino a poco tempo fa, era ancora in attività, a Roma, presso un’eminente istituzione giudiziaria. Ci rivedevamo, sistematicamente, nel periodo estivo, a Marittima o a Castro, e lei puntualmente a dirmi: “Caro Rocco, tu fai il pensionato, il nonno, vai in barca a vela, beato te, mentre io continuo a lavorare come una ciuccia”.
Al che, con un sorriso, mi limitavo a osservare: “Dai, chi te lo fa fare, smetti e tornatene qui”.
Poi, anche lei, è rientrata per sempre nel comune, natio e amato Salento.