“Elena di Troia: una Eva greca”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello-Prima parte
Un tempo, restare privi di discendenza era considerata una delle peggiori
sventure che potessero capitare all’uomo. Forse è ancora così, ma sta di fatto
che il calo demografico oggi è una realtà: i matrimoni sono in discesa
vertiginosa, i giovani non guardano più alla famiglia come a un obiettivo
fondamentale della vita. Mancanza di lavoro, precarie condizioni economiche,
malintesi, disaffezioni, contrasti di vedute all’interno della coppia, ruolo della
donna profondamente mutato, costituiscono alcune delle cause della crisi della
natalità.
Su tali cause, Giorgio andava riflettendo tornando a casa una sera, dopo
l’accesa discussione al bar con gli amici. Egli si era particolarmente prodigato
a difendere le conquiste della donna moderna, riguardo alla parità dei diritti
con l’uomo, alla sua libertà e alla sua dignità di persona, contro il parere di
alcuni estremisti, che non aveva esitato a bollare come “talebani” e di altri,
piuttosto tiepidi, che si limitavano a certe concessioni, ma con riserva di “se” e
a “condizione che”.
Camminando sul marciapiedi deserto e accostando verso il muretto con il piede
una bottiglia vuota di birra che rischiava di rotolare e andare in frantumi sulla
strada, Giorgio si ricordò di una vecchia storia. Gli si ergeva innanzi il
fantasma di quella giovinetta di dodici-tredici anni che con un vestitino a fiori
pendeva come un cencio da un albero di carrubo, con i piedi scalzi che
sfioravano l’arido terreno. Non avrebbe mai voluto vedere uno spettacolo di
quel genere e per di più di quella povera ragazza che conosceva, con la quale
qualche volta aveva scambiato un saluto, passando dinanzi alla sua casa.
Giorgio, anche lui a quel tempo tredicenne, non si fece molte domande sul
perché di quella atroce morte. Gli restò per sempre fissa nella memoria
l’immagine della ragazza impiccata e l’eco dei discorsi degli adulti che
discutevano sul delitto, il cui autore venne presto assicurato alla giustizia.
Non aveva mai voluto comunicare agli altri quella esperienza negativa che
aveva vissuto da ragazzo, ma da quando quasi giornalmente venivano diffuse
notizie di femminicidio, Giorgio più volte si era lasciato andare a ricordare
quel lontano evento, a confrontarlo con quanto accadeva di simile nel tempo
presente e a discuterne con gli amici. Le notizie di stampa, i dibattiti sul tema
della donna, oggetto della violenza e della follia del maschio, lo avevano
talmente coinvolto che il pensiero e la figura della donna erano sempre presenti
fino al momento in cui riusciva a prendere sonno.
Accadde una notte che il suo sonno navigò su un unico lungo sogno.
-“Oh, Elena, ti riconosco bellezza divina. Di tanto in tanto si spegne in un
morbido etereo ondeggiare il tuo mito nel mondo, poi d’improvviso riprende
vigore il canto della tua storia celeste. Profondo come il mare, oggi, il
disprezzo per la donna, sebbene non manchino poeti e sognatori pronti a
celebrare le virtù femminili. Com’è doloroso constatare che la violenza abbatte
le difese della donna, la quale nel suo isolamento grida la sua disperazione.
Affranta, ma ritta, si eleva a cercare la libertà e dall’abisso del dolore la sua
voce sale fino alle stelle. Elena, i tuoi occhi supplichevoli e dolci sono ancora
colmi di sogni. La tua anima è sgombra dai tanti lutti che oppressero la tua vita
terrena. Non ci sono fiori sui prati di tutta la terra che non abbiano pianto il tuo
silenzio, il tuo ritorno alla casa degli dei, al raduno celeste dei numi che ti
generarono. Su di te l’aurora intreccia coriandoli di luce. Non amo più
indovinare le innumerevoli parole che il tuo silenzio dice. E allora parlami,
ombra, ti prego. Parlami ombra, sveglia il tuo solenne dignitoso silenzio e
narrami di te in questa notte, la più bella della mia vita che mai scorderò.
Trattieni i tuoi singhiozzi, sono pronto a udire la tua voce che come un mare
tempestoso si insinuerà nella grotta più interna della mia anima,
commuovendola e portandola dove tu vorrai. Elena, Elena, sei dunque tornata
sulla terra?”
In quel momento ci fu una pausa nel suo dire. Ebbe la sensazione che quelle
parole che pronunciava uscissero non dalla sua bocca, ma da una bocca
misteriosa e che anche la sua stessa voce gli sembrava diversa.
Poi riprese: “Elena, qualcuno ha narrato che a Rodi ti ha visto pendere dalla
forca, ha visto il tuo collo, ancora bello, spezzato e chino sul petto, come un
remo che affonda nell’acqua. Com’è che ora mi appari così fresca di gioventù,
splendente di luce? Si vede che sei figlia di dei, anzi tu stessa sei una divinità!
Ti prego, Elena, chiarisci i miei dubbi. Chi sei veramente? Qual è stata la tua
vera avventura terrena? Non so più quante cose contraddittorie hanno detto di
te i poeti e tutti coloro che hanno voluto celebrare la tua infinita bellezza”.
Sembrava tutto così vero a Giorgio, quasi non credeva che si trattasse di un
sogno. Gli parve che Elena accennasse a un sorriso, senza ancora rispondere
alle sue domande. Era circondata da una luce che si stagliava sullo sfondo
azzurro dell’etere, quando vide le sue labbra muoversi lentamente, le sue
palpebre benevolmente sollevarsi; i suoi occhi fecondi e ridenti lo guardarono
e trafissero di gioia la sua anima, fin quasi a procurargli per l’ebbrezza un
capogiro, che per poco non lo fece venire meno.
-“Chi sei tu che vai cercando una donna che non esiste più?
La mia avventura della vita è stata quella che è stata! Tante Elene avete avuto
per lunghe generazioni e tante ancora si aggirano per le vie delle vostre città.
Tutte protese a lottare contro il vento che nega loro la libertà. Storie di grandi
dolori e sofferenze, di dinieghi, di assurda schiavitù. Le parole spese in loro
difesa spesso nel volgere di breve tempo sono ridotte a rovine, discarica
ignobile di rifiuti dove si aggirano miserabili voraci animali. Qui condivido la
morte con anime eccelse di donne che insieme a me salgono e scendono nella
notte profonda i piani di questo luogo, da dove nessuna può uscire. La nostra
pietà ci induce sempre a commiserare il destino delle donne.
Noi donne siamo come una bilancia: sul primo piatto poggiamo le fatiche di
ogni giorno, le lacrime, le ansie e le pene; e poi i fiori, i sogni, il mare, la luna e
l’amore. Se sull’altro piatto va a posarsi la violenza dell’uomo, di colpo questo
peso vince ogni cosa e fa schizzare in alto il secondo piatto. Piangiamo per
quelle donne che vivono morte, donne che portano tra i capelli corone di spine;
per quelle donne che hanno destini bruciati, che indossano ossa spezzate,
pronte ad essere chiuse in sacchi e a dissolversi in fumo fuggitivo verso
l’orizzonte. Piangiamo per quelle donne costrette a lasciare bimbi destinati a
mendicare l’amore per le madri e a soffrire per una infinita tristezza, bimbi
destinati a poggiare il capo su una dura pietra e a tremare come fiammelle
mosse dal vento. Basterà scavare un po’ sulla terra perché chiunque potrà
accorgersi del sangue versato dalle donne.
Ma basta, è tempo che io ti parli di me.
Mi chiamavano luna d’argento, sospiro di stelle, rosa del giardino delle fate,
canto di sirena incantatrice, mano delicata d’ogni ferita guaritrice, bellezza
suprema, fonte di amore che, non per mia colpa, non potei celare. A questa
vollero bere con voluttuoso inarrestabile impeto coloro che mi condussero alla
rovina. Ma come potevo vivere senza amore, se il Cigno aveva segnato il mio
destino sin da quando aveva lasciato il suo seme nel grembo di Leda, mia
madre? Nacque così la favola che io fossi divina, sia per la bellezza purissima
(eredità di mia madre!), sia perché dietro il Cigno si nascondeva lo stesso Zeus.
Credevo alla mia divinità, soprattutto fanciulla, quando in riva al mare giocavo
con le mie compagne; i loro corpi, pur perfetti, non potevano eguagliare il mio.
Quel tempo di giochi, di spensieratezza, di libertà, di scherzi intrecciati da
mille grida con le amiche, fu il migliore della mia vita. Correvamo a
nasconderci dietro qualche duna della spiaggia, più per vezzo che per paura,
quando sentivamo voci e risate di giovani che si avvicinavano troppo per
ammirare le nostre bellezze da vicino.
A sera, durante i rituali preparativi prima di andare a letto, scavavo la bellezza
del mio volto nello specchio di bronzo, che l’ancella reggeva dinanzi a me.
-Qui il segno di una prossima ruga, qui un altro! -dicevo disperata. L’ancella
con un dolce sorriso tentava di rassicurarmi: Ma no! Ma no! E’ solo la luce
della fiaccola che inciampa sull’ombra dei tuoi capelli. La tua pelle è fresca e
morbida, è una piuma d’uccello, le tue labbra sono rosse ciliegie, i tuoi occhi
rubano tutto l’azzurro al cielo e al mare!
E io pregavo il cielo: Trasvolate sul mio corpo ore e giorni come ombre di
uccelli senza lasciare traccia alcuna. Incomparabilmente belle restino le mie
braccia, splendenti le mie gambe, luminosi il mio viso e il mio sorriso. Che io
continui ancora a lungo a trascorrere tra le amiche questo bel tempo della mia
vita sulla riva del mare, sciabordando, ascoltando il canto degli uccelli,
correndo tra le dune di sabbia a piedi scalzi.
Accadde un giorno che, come al solito mentre giocavo con le compagne in riva
al mare, vedemmo una vela che il vento spingeva velocemente verso la terra.
Ci fermammo a lungo a guardare incuriosite, finché ci accorgemmo che
l’imbarcazione non era spinta solo dal vento, ma anche dalle braccia poderose
di almeno sei giovani che remavano con ritmo frenetico. Un giovane aitante in
piedi li incitava a gran voce. A quel punto le amiche, prese dal terrore,
fuggirono. Io non ebbi paura e quasi in segno di sfida mi fermai e, mentre la
barca era giunta vicinissima alla riva, continuavo a giocherellare, respingendo
con i piedi la schiuma del mare.
Fu un attimo. Il giovane che era in piedi, improvvisamente balzò giù dalla
barca, fece tre o quattro salti nell’acqua, mi afferrò e mi sollevò sulle sue spalle
possenti. Mi posò sul fondo della barca, legandomi mani e piedi. Mi divincolai,
lanciai grida altissime, pregai. Fu tutto inutile. La barca cambiò rotta
rapidamente e già navigava lontano dalla terra quando fu dato l’inutile allarme.
Grande fu la disperazione dei miei fratelli Castore e Polluce, che giurarono
vendetta.
Intanto il giovane, che disse di chiamarsi Teseo e di essere un principe, mi
condusse nel suo palazzo e continuava a blandirmi con mille carezze, ma io
insistevo nel pianto e tra le lacrime lo scongiuravo di riportarmi indietro nella
mia patria, a Sparta. D’improvviso Teseo mutò atteggiamento, da docile e
paziente, divenne furioso e mi trascinò in una stanza buia. E lì fu preso da un
tale delirio che, liberandosi delle sue vesti regali, si procurava ferite sul corpo
con le proprie unghie. Disperata, schiantata da quella pura follia, lanciavo urla
in quella casa deserta, finché la sua violenza e la sua forza bruta non ebbero la
meglio e fecero di me la sua schiava. Ma dove erano gli dei quel giorno?
Avrebbero mai pensato a ricucire la mia verginità? A sanare quella
disperazione immensa che aveva invaso l’anima mia?
Qualche giorno dopo seppi chi era veramente Teseo. Sua moglie Fedra si era
suicidata di recente a causa dell’insostenibile senso di colpa per aver scatenato
l’ira del marito contro il figlio Ippolito, accusato ingiustamente da lei di averla
violentata. Questo evento drammatico che si era concluso con l’uccisione del
figlio aveva procurato a Teseo un annebbiamento della coscienza. Con l’aiuto
del suo fidato amico Piritoo, egli era alla ricerca di una donna bellissima che
potesse sostituire Fedra. Ossessionato dalla mia bellezza, nonostante il
responso della Pizia che lo sconsigliava perché non ero ancora una donna
matura (avevo appena dodici anni!) e non tenendo alcun conto della autorità di
mio padre Tindaro, re di Sparta, e dei miei fratelli, volle rapirmi e farmi sua
schiava ad ogni costo. Quando Teseo cominciò a riflettere e riconobbe di
avermi arrecato una gravissima offesa, decise di affidarmi alla madre, la quale
non gli risparmiò severe critiche, sebbene anch’ella facesse parte di quella
selva oscura del patriarcato, in cui le donne erano vittime silenziose della
costruzione socio-culturale egemonica del maschio.
“Teseo -disse la madre- hai osato violare una fanciulla innocente per soddisfare
il tuo istinto maschile, senza farti scrupolo del dolore e dell’offesa arrecati.
Certamente gli dei non ti favoriranno nelle tue imprese. E poiché non hai
ascoltato nemmeno i consigli della Pizia, io temo che molte sventure cadranno
sul tuo capo e sulla nostra casa.”
Quella donna fu con me molto dolce e mi confortò a lungo. I suoi timori non
tardarono ad avverarsi. Teseo, infatti, dopo l’impresa vittoriosa contro il
Minotauro, portando con sé Arianna, si dimenticò di ammainare il vessillo nero
prima di entrare nel porto come aveva promesso, e procurò il suicidio del
padre.
Non passò molto che Sparta organizzò la vendetta per il mio rapimento. I miei
fratelli Castore e Polluce, abili domatori di cavalli e superbi guerrieri,
scoprirono il luogo dove ero tenuta segregata. E senza incontrare resistenza
alcuna giunsero alla casa domestica, dove trascorrevo le giornate, passeggiando
e chiacchierando con la mia fedele ancella. All’improvviso uno scalpitio di
cavalli, un rumore di armi, alte grida dei servi che affollavano la casa,
annunciarono l’arrivo dei miei fratelli che mi chiamavano a gran voce. Già le
stanze della casa, i sentieri fiancheggiati da ombrosi alberi e da fontane
zampillanti di limpida acqua, erano cosparsi di cadaveri, quando io mi interposi
tra loro e l’anziana donna che nel frattempo era venuta da me a chiedere
protezione. Li supplicai di riporre le loro spade e di risparmiare la donna,
madre di Teseo, perché incolpevole, saggia e generosa di gentilezze verso di
me. La risparmiarono; Castore mi caricò sul suo cavallo e affiancato da un
gruppo di valorosi compagni mi consegnò a coloro che dovevano condurmi a
Sparta. Poi proseguirono nella loro missione di vendetta, lottando contro Teseo
e il compagno Piritoo. Solo gli dei misericordiosi salvarono loro la vita in
quella difficile circostanza.
A Sparta, serbai a lungo il ricordo della violenza subita da Teseo, lottai con me
stessa per emergere dall’offesa irreparabile, invocai la morte che rifiutò la mia
amarissima esistenza colma di angoscia e di dolore. Ma tutti i nobili greci
continuavano ad associare al mio nome l’immagine della bellezza e del fascino
e vi era chi diceva che quando entravo in una stanza buia non era necessario
aprire finestre e balconi, perché bastava la luce del mio volto a incendiarla!
Constatavo con piacere che il mio sguardo profondo attizzava un incendio nei
cuori di tutti i nobili che frequentavano la casa di mio padre Tindaro, al punto
che questi, preoccupato per le conseguenze negative che avrebbero potuto
derivare dal favore concesso a questo o a quest’altro, decise di lasciarmi libera
di scegliere e di seguire il consiglio dell’astuto Ulisse. Mio padre sacrificò il
migliore dei suoi cavalli, sul quale fece salire tutti coloro che pretendevano la
mia mano e li fece giurare che, chiunque fosse stato da me scelto come sposo,
avrebbe ricevuto aiuto da tutti nel caso che qualcuno avesse tentato di rapirgli
la moglie.
Io scelsi Menelao. Suo fratello Agamennone aveva già sposato mia sorella
Clitennestra. Ma gli dei non dovettero gradire queste unioni, a giudicare dagli
eventi che seguirono. Per parte mia, come sposa di Menelao, nulla ho da
rimproverarmi. Mi comportavo come una donna premurosa, vigile, accogliente.
Non mancavo di versare personalmente il vino nelle coppe degli ospiti, di
partecipare alle conversazioni, di offrire consigli e suggerimenti al mio sposo.
Non intendevo certo giocare il ruolo della sposa dedita esclusivamente al
lavoro del telaio. Non lo disprezzavo di sicuro perché amavo intrecciare i fili e
realizzare tele sulle quali brillavano per eleganza e bellezza disegni di alberi, di
uccelli, di fontane. Ma non mi bastava. Non condividevo l’immagine di una
donna stereotipata, angelo fittizio patriarcale. Ecco io non volevo essere zittita,
intrappolata, chiusa in una splendida statua di marmo, senza voce, né anima.
Purtroppo questa mia ribellione, questo desiderio di libertà, non mi giovò
affatto e anzi per gli uomini io divenni per sempre il simbolo della bellezza
sensuale e distruttiva e dell’amore illecito. Ma io intendevo lottare contro le
costruzioni dell’egemonia maschile, volevo essere l’artefice della identità di
una donna libera, umana, né donna fatale, né donna angelicata, semplicemente
donna, con virtù non esenti da difetti e passioni. Trovo pertanto inutile quella
difesa fantasiosa di poeti come Stesicoro che mi vide fantasma a Troia, ma
realmente presente in Egitto. Non nego quindi il mio momento di debolezza
che è proprio della natura umana e tipico della fragilità femminile, quando il
figlio di Priamo, il giovane e bello Paride, dimorò nella mia casa e volle
rapirmi. C’è qualcuno che può esattamente pesare quanto spetti alla mia
volontà, quanto a Paride e soprattutto quanto agli dei dell’Olimpo? Chi l’ha
detto che questo è giusto, quest’altro è sbagliato? Sono così brevi le stagioni
che gli dei ci concedono, pensavo nei momenti di solitudine, che è meglio
abbandonarsi agli eventi e fare in modo che il mondo proceda tranquillo nel
suo cammino: è questa la vita! E’ questo, essere uomini e donne! In certi
momenti non può aiutarti nessuno.
Quel mattino di primavera, accompagnata dalla mia fedele ancella e dalla
nutrice, ormai debole e anziana, mi recai al limitare del bosco di eucalipti, dove
c’era la statua della dea Afrodite. Avevo innalzata una fervida preghiera alla
dea perché tenesse lontano da me e dalla mia piccola Ermione ogni male,
quando all’improvviso udii passi sconosciuti e nello stesso tempo vidi tra me e
le donne che mi accompagnavano una nuvola bianca che mi avvolse tutta.
Accanto a me Paride, bello come il sole, con i suoi occhi azzurri e sorridenti,
mi baciò e mi strinse fra le sue braccia. Non capivo nulla, era come se i vapori
di quella nuvola avessero annullato la mia volontà; una specie di incantamento
dei sensi, certamente inviato dagli dei, aveva preso tutta la mia persona.
Vittima inconsapevole del volere degli dei, pronunciai persino un giuramento.
Promisi a Paride che il giorno dopo sarei fuggita con lui. La mia testa, più che
confusa, era colma delle cose mirabili che il giovane figlio di Priamo nei giorni
precedenti mi aveva raccontato di Troia. Lì, le donne godevano di un maggior
credito rispetto alle donne di Sparta, erano libere di esprimere le proprie
opinioni, venivano ascoltate anche nelle assemblee pubbliche, erano insomma
tenute in grande considerazione. Non erano come a Sparta statue di pietra,
mute e sottomesse. E io, che desideravo ardentemente la libertà e un ruolo di
donna simile a quella di un uomo, non potevo non restare affascinata da quei
racconti.