“La maledizione della violenza” un libro di Giuseppe Spedicato che sarà presentato il 26 giugno a Lecce – Biblioteca Palmieri
di Maurizio Nocera
Scrive il filosofo politico:
«”L’uomo dotato di coscienza si deve nascondere, è un errore della natura”. L’essere più adeguato a sopravvivere è l’uomo privo di coscienza, che non si crea scrupoli a danneggiare l’altro pur di raggiungere i suoi scopi.// Il motore del mondo è l’egoismo».
Questa massima la si può leggere in quarta di copertina del libro La maledizione della violenza. Se vogliamo la pace dobbiamo osteggiare le condizioni che la impediscono (Youcaprint, Lecce 2022, Copertina di Claudio Rizzo, pp. 102), a firma del prof. Giuseppe Spedicato.
In quella massima c’è una bella carica di pessimismo, che forse si stempera un po’ nel momento in cui andiamo a leggere il libro. Che l’uomo privo di coscienza (un ebete) non si renda conto del vivere la vita, questo è assodato, ma che l’uomo dotato di consapevolezza si debba nascondere o che sia un errore della natura, è un po’ troppo. Comunque la filosofia politica non è un compartimento stagno, per cui anche in questo caso c’è accoglienza della massima di sopra.
Nella sua Nota preliminare, l’autore egli avverte:
«Intaccare la cultura della violenza e della guerra non è facile, questa concorre fortemente alla produzione e soprattutto alla concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi soggetti. Concorre quindi a promuovere le strutture del potere o meglio dei poteri: militare, economico, politico. Questi poteri inoltre controllano il potere mediatico, ossia gli organi di informazione, ed è soprattutto attraverso questo potere che si trasmettono i modelli culturali: ideologie, ostilità, odi razziali».
Perfetto. Sia la prima sia la seconda citazione ci danno l’esatta misura di quello che è oggi il potere capitalistico finanziario. Tutto concentrato nelle mani di pochi, non più di 2000 persone su un totale di quasi 7 miliardi di umani. E tutto il capitale finanziario è concentrato solo nell’Occidente cosiddetto democratico, dove, e qui sono molto concorde con l’autore, è un capitale finanziario egoistico.
Anche la successiva considerazione che Spedicato fa («l’assenza di guerra non è necessariamente vera pace») non solo è veritiera, ma si conclama come una verità assoluta. Dire che sul pianeta ci siano stati periodi di assenza di guerra è una menzogna, perché, sia pure in qualsiasi modo camuffato, la guerra e le guerre ci sono sempre state. È superfluo fare esempi.
Il libro comincia con una prima parte (Il monto della produzione della violenza, con testi di Ibn Khaldum e di Werner Sombart) dove l’autore, dopo aver riflettuto su una massima di Fëdor Dostoevskij, parte con una Premessa (L’egoismo e la crescita economica) che già nell’incipit svela tutto il sapere sulla grande questione dei pochi e dei molti.
Spedicato scrive:
«A causa dell’egoismo umano si ripete sempre una vecchia storia, quella del predominio dei pochi sui molti».
È questo un assioma su cui è difficile avere dei dubbi. Così com’è non vero che qualsiasi tipo di crescita economica porti benessere per tutti. Nei sette secoli di sviluppo economico capitalistico è indubbio che all’inizio del suo percorso tale modello abbia comportato anche del benessere per le popolazioni, ma è altrettanto indubbio che oggi come oggi (in questo momento che scrivo le Tv annunciano la morte di Silvio Berlusconi, “principe” del capitale finanziario italiano) tale “sviluppo” comporti guerre, miseria per intere popolazione (Africa, America del Sud, Indocina, ecc.) e difficoltà di relazioni. Basti vedere il “macello” dell’attuale livello delle comunicazioni che, se grazie alla tecnologia, abbiamo la possibilità di essere in tempo reale in collegamento con il resto del mondo, dall’altra parte, sembra vivere in una sorta di giungla irreale.
Non sbaglia l’autore quando, nel capitolo su Il nuovo feudalesimo, fa sua la tesi secondo cui, a causa delle rendite parassitarie ormai dominanti in tutto l’Occidente, molte popolazioni di altre continenti si ritrovano ad essere considerati «moderni servi della gleba».
Nel capitolo La violenza come evento fondativo, Spedicato spazia, attraverso il testo di Ruggiero (La violenza politica – Un’analisi criminologica, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2006), su alcune elaborazioni psicologiche e scientifiche di Freud e Einstein (Perché la guerra?, Bollati Boringhieri editore, Torino, ristampa marzo 2022). Tuttavia non poche tesi (ovviamente riprese dai due filosofi) dell’autore mi lasciano un po’ perplesso sull’affermazione che la guerra (le guerre) possano avere un effetto positivo. Mai una guerra (le guerre) hanno lasciato erba verde sul terreno di scontro: macerie, distruzione, sangue, morte. È vero pure che dalla violenza può nascere una nuova società. Basta pensare all’affermazione di Marx che «la violenza è levatrice di storia», ma egli la scriveva in un contesto in cui alla violenza del capitalismo (crudele sfruttamento dell’uomo sull’uomo) occorreva contrapporre la «violenza proletaria», dal quale poi infine doveva nascere la nuova società più giusta, più egualitaria, più umana.
Interessante quanto Spedicato riesce a pescare dai testi di Ibn Khaldun (Discours sur l’Histoire universelle, Acte Sud, Arles, 1997) e da quello di Gabriel Martinez-Gros (Brève histoire des empires, Éditions du Seuil, 2014).
Le tesi di Ibn Khaldun: «La formazione della ricchezza non avviene spontaneamente, questa può essere creata solo artificialmente. La storia dimostra che richiede condizioni che solo lo Stato o l’Impero possono imporre. La prima condizione è l’imposizione fiscale. Questa crea un’accumulazione di risorse finanziarie a beneficio di uno Stato centrale che così può avviare un processo di sviluppo». A ciò c’è poco da aggiungere. Solo – e questo è quanto sottolinea l’autore – lo Stato per imporre il suo dominio deve necessariamente usare la violenza, ad iniziare da quella fiscale.
Di Werner Sombart, Spedicato analizza il testo Guerra e Capitalismo, mettendo in evidenza l’assioma «che tra guerra e capitalismo ci debba essere un qualche rapporto è una considerazione che appare più che fondata». E come se appare più che fondata. Comunque sia, o che il capitalismo sia figlio della violenza o che il capitalismo, ad un certo punto del suo percorso (ad esempio oggi), diventi elemento fondativo della violenza, mi pare essere più che scontato.
Il capitolo su Il modello economico e le eresie degli economisti (tratto dal testo della Robinson e da quello di Galbraith, Storia della economia, Rizzoli, Milano, 1988), in cui si afferma che «La costruzione di un modello economico non è molto complicata a farsi se stabiliamo in anteprima in base a quali ipotesi lo costruiamo e se semplifichiamo il problema. In buona sostanza se non lo mettiamo in relazione con la realtà. Noi occidentali, a partire dagli antichi Greci, abbiamo cercato sempre di racchiudere e spiegare la realtà costruendo modelli». È vero. E questo ci viene spiegato – afferma Spedicato – da Keynes con il gioco della costruzione di più e diversi modelli economici, in parte andati a buon fine. Si pensi, ad es., allo “Stato sociale”, invenzione appunto di Keynes.
Nel capitolo Le ragioni dei ritardi del mezzogiorno e il ruolo delle organizzazioni criminali in Italia, l’autore riprende la tesi di Gianni Giannotti (v. Sociologia e sviluppo del Mezzogiorno, Besa, Nardò, 2014), per anni docente presso l’Università del Salento, dove si occupò dei «caratteri sociologici ed economici dell’arretratezza del Mezzogiorno», causata soprattutto da una «“fitta rete clientelare”» che per decenni bloccò qualsiasi tentativo di sviluppo, condizionato anche e soprattutto da una persistente criminalità organizzata, a tutt’oggi ancora difficile da estirpare.
Un capitolo intero l’autore lo dedica alla Somalia e alla lunga guerra che ha disintegrato quello Stato. Non ci sono molte attenuanti: è stato l’Occidente capitalistico (oggi soprattutto quello finanziario) che l’ha distrutto. Il capitolo è molto interessante, perché si basa su una serie di interviste che l’autore ha fatto nel corso di circa dieci anni a donne somale.
Nel capitolo A chi educa la società, Spedicato scrive una grande verità: «la pace non è altro che una parentesi della storia», come pure è una sacrosanta verità: «Nella storia della filosofia politica esiste una grande filosofia della guerra, ma non esiste una grande filosofia della pace».
La seconda parte del libro inizia con un Dialogo sulla disumanizzazione della maggioranza pacifica e con una dichiarazione della filosofa tedesca Hanna Arend: «Per quanto le cose di questo mondo ci colpiscano intensamente, per quanto profondamente esse possano emozionarci e stimolarci, non diventano umane per noi se non nel momento in cui possiamo discuterne con i nostri simili».
Nella sua Prefazione l’autore scrive: «Siamo in Italia, nel Salento (sud della Puglia), in una casa di campagna, è l’inverno del 2016, il camino è acceso e ci troviamo a conversare:Rita, educatrice, cittadina del mondo.Mohammed, insegnante marocchino. E in più: «Rashad, ex militare proveniente da un paese mediorientale.Giuseppe [Spedicato], italiano, giornalista pubblicista.Tutti costoro discutono «di globalizzazione, di politica, di appartenenze culturali e religiose, di modelli e obiettivi educativi, di discriminazioni e violenze».
Si tratta di un bel racconto, dove i dialoganti si interrogano sul Perché l’essere umano discrimina e esercita violenza e lo fa soprattutto ai danni di gruppi umani che non hanno neanche la forza di difendersi?
Un bel racconto dicevo, dove alla fine i dialoganti affrontano vari problemi per giungere ad una conclusione condivisa: tentare di contribuire a «rendere più umano l’uomo».
Nelle sue conclusioni, il prof. Giuseppe Spedicato aggiunge che:
«Ci siamo detti che osservando il nostro mondo non possiamo non renderci conto che si va verso una società che sta lasciando l’uomo senza punti di riferimento, sia laici che religiosi e quindi privo di identità sociale. Una società dove l’uomo deve odiare la cultura, deve trasformare le proprie radici culturali in folklore da utilizzare per attrarre turisti. Deve pensare che la sua vita non abbia un fine nobile. In buona sostanza si va verso una società dove l’uomo lavora per la propria distruzione. Un uomo che è in attesa dell’“uomo della provvidenza”. Umberto Eco ci ha spiegato bene cosa può accadere a coloro che sono privi di una qualsiasi identità sociale: “l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del ‘nazionalismo’. Inoltre, gli unici che possono fornire un’identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. Ma il complotto deve venire anche dall’interno: gli ebrei sono di solito l’obiettivo migliore, in quanto presentano il vantaggio di essere al tempo stesso dentro e fuori”».
Totalmente d’accordo con l’autore e con Eco. Che il mondo che verrà sia almeno un po’ migliore di quello che è oggi. Così almeno se lo auspica il prof. Giuseppe Spedicato.