Amara e Bella l’emigrazione giovanile
di Sandra Guddo
Domenico Modugno nel 1971, attraverso una canzone popolare, esprimeva con pochi e incisivi versi tutta la sofferenza di chi è costretto a lasciare la propria terra in cerca di lavoro. Una terra “amara e bella” dove ai “cieli infiniti” corrispondono “volti come pietra e mani incallite ormai senza speranza”.
Una sintesi perfetta del dramma dell’emigrazione che è in atto nel nostro paese dal Sud al Nord, dalla Sicilia alle regioni settentrionali d’Italia e d’Europa. Un dramma iniziato con l’annessione della Sicilia allo Stato Sabaudo e perpetrato negli anni in modo crescente e amorale.
Per troppo tempo la responsabilità del fenomeno crescente dell’emigrazione è stata attribuita a questa terra amara: la Sicilia che si mostrava non solamente amara ma anche avara nel senso che negava di fatto la possibilità ai suoi figli di trovare un lavoro con cui potere costruire un futuro per sé e la propria famiglia, obbligandoli a cercare altrove la possibilità di un futuro meno incerto.
Tale narrazione, costruita ad arte dai mezzi di comunicazione a servizio dei poteri forti, va smantellata con decisione e con cognizione di causa ripercorrendo, seppure in modo sintetico, la storia della Sicilia. Quella vera non quella che ci propinano i testi scolastici, infarciti del peggior tipo di antimeridionalismo pregiudizievole e bugiardo!
É inconfutabile, infatti, che prima del 1861, gli emigrati siciliani erano sparuti gruppetti di contadini che andavano in cerca di terre coltivabili e si spostavano pertanto dalle terre demaniali a quelle baronali o viceversa, oppure dalla campagna alla città in cerca di più facili guadagni. Costretti alla fuga erano i condannati politici che, per sfuggire alle patrie galere, cercavano asilo in altre nazioni più liberali.
Ma è dopo l’Unità, come afferma il noto storico siciliano Francesco Renda (1922/ 2013) nella sua monumentale opera” Storia delle Sicilia dalle origini ai giorni nostri”, che assistiamo impotenti a una vera e propria “esplosione migratoria”.
Tale affermazione si basa ovviamente su dati statistici inconfutabili che hanno visto diminuire la popolazione siciliana dal 1990 ad oggi da 5,600 abitanti a 5,000, una cifra mai registrata prima. Una tendenza pericolosa, un dato allarmante a testimonianza della desertificazione umana in atto nella nostra isola di cui nessuno parla. I mass-media ignorano il fenomeno né la classe politica dirigente se ne occupa più di tanto.
Perché tanto silenzio?
Ciò risponde e spiega il carattere dell’occupazione italica ai danni della Sicilia decisamente improntata alla dialettica dello sviluppo/sottosviluppo del Sud.
Le regioni meridionali devono godere di un certo sviluppo economico e occupazionale ma soltanto quanto basta per contenere il malcontento che serpeggia più o meno apertamente in Sicilia e per mantenere le condizioni di territorio atto al consumo delle merci prodotte al nord. Un doppio attacco alla fragile economia meridionale che, se da un lato, fornisce materia prima, d’altro lato diventa sacca di esportazione dei prodotti settentrionali. È noto a tutti, infatti, che l’area privilegiata di esportazione non siano le regioni europee o estere ma il sud d’Italia.
A questo punto risulta di facile interpretazione la condotta dei governi italiani dal 1861 ad oggi che hanno considerato la Sicilia come una vera e propria colonia, distruggendo in pochi decenni l’economia locale, dislocando maestranze al nord e impiantando tutte le produzioni industriali nelle regioni settentrionali accompagnando e sostenendo tale economia con la costruzione di infrastrutture che ne facilitassero i trasporti e le comunicazioni.
Al Sud soltanto strade obsolete, spesso tracciate sulle vecchie vie costruite ai tempi dei Borboni, dissestate e inadatte a un equo sviluppo dell’economia locale che, per non morire del tutto, grazie all’ingegno dei coltivatori siciliani ha mirato ai prodotti biologici di alta qualità trovando sbocchi commerciali soprattutto all’estero.
Il Mediterraneo non è più il centro del mondo ma tutto si è spostato verso altre latitudini dove il lavoro sembra essersi concentrato in modo quasi esclusivo lasciando ai margini la Sicilia e tutto il meridione.
Un fato ineluttabile, un destino crudele o una precisa volontà politica di lasciare ai margini proprio quelle regioni che un tempo erano tra le più industrializzate d’Europa e che vedevano le città di Napoli e Palermo tra i primi posti in classifica per la presenza di industrie, commerci e traffici nazionali e internazionali?