“Bartolo Campailla”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello – Parte seconda
Uscendo da quella casa, Bartolo avvertiva un senso di
leggerezza, di semplicità e di candore che non aveva più
provato dalla sua fanciullezza. Entrare in confidenza con quella
gente, per la quale fino a un momento prima non aveva che una
scarsa considerazione, per la quale non aveva mai sentito alcuna
possibilità di condivisione di sentimenti sin da quando era
sbarcato a Tripoli se non per freddi rapporti di lavoro, gli
sembrava un fatto quasi miracoloso. Sentiva dentro di sé un
benessere che gli dava una carica di ottimismo e lo aiutava a
vedere la vita non più come ricerca di felicità, di ricchezza, di
divertimento, ma di una esperienza destinata a infonderle un
alto significato. Era una scoperta che gli apriva un orizzonte del
tutto ignoto.
Con questo spirito rinnovato, si accinse a declinare i ripetuti
inviti della signora Aurora a partecipare alle feste che si
organizzavano nel salone degli alti ufficiali. Un giorno, però,
Aurora lo pregò con tanta insistenza che non poté dire di no. Gli
disse che in quei giorni era arrivata da Roma la figlia di un
colonnello, suo amico. Doveva assolutamente conoscere quella
ragazza ventenne, bellissima e intelligente. Si dava una festa in
suo onore e lui era un ospite molto gradito.
Quando Dora entrò nel grande salone addobbato e illuminato
splendidamente, l’orchestra cominciò a suonare e lei,
sorridente, alta e flessuosa, si guardò attorno estasiata. Uno
stuolo di signore si affrettò a baciarla e i giovani ufficiali
scapoli fecero a gara per invitarla a ballare. L’unico in elegante
abito civile, Bartolo era rimasto in un angolo accanto a un
anziano ufficiale con barbetta e baffi bianchi, che gli parlava
continuamente. Bartolo lo ascoltava distrattamente con un’aria
piuttosto annoiata. in un momento in cui la musica taceva e i
camerieri giravano per la sala con i vassoi colmi di dolci, vide
arrivare la signora Aurora che teneva sottobraccio Dora.
-“Ecco, signor Bartolo, le presento la signorina Dora che ha
sentito parlare tanto bene di lei”,
-“Piacere di fare la sua conoscenza, signorina. Si fermi pure qui
con noi a gustare questi dolci eccezionali!”
Bartolo la trattenne per un po’ facendola parlare dei suoi
progetti e poi la invitò a ballare.
Quando Dora si allontanò per raggiungere le signore, Bartolo si
mostrò oltremodo riservato, non fece trapelare nulla della sue
impressioni sulla ragazza.
Un pomeriggio, casualmente, Aurora lo incontrò lungo il corso
Vittorio Emanuele e colse l’occasione per chiedergli che ne
pensasse di Dora. La sua risposta fu molto deludente per
Aurora. Bartolo non pensava affatto al matrimonio e le
confidava che presto ci sarebbe stato un notevole cambiamento
nella sua vita.
Alcuni giorni dopo, quando ormai frequentava regolarmente
l’Istituto arti e mestieri, Bartolo vide dinanzi al portone di casa
sua, un giovane che si pavoneggiava con una tuta azzurra di
meccanico. Sulle prime non lo riconobbe, sembrava più grande
della sua età, poi, visto che si avvicinava sorridente, esclamò:
“Tarin, ma ti sei proprio trasformato! Ti vedo entusiasta,
bravo!”
-“Sì, sono davvero contento, voglio essere il migliore! Sono
venuto a riferirle che domani mattina mio padre l’aspetta
dinanzi alla moschea per la visita”.
-Grazie Tarin, disse Bartolo, vieni ti offro un gelato”.
Lasciò le sue scarpe accanto a decine di sandali dei fedeli che
prima di lui avevano fatto il loro ingresso in moschea. Trovò ad
accoglierlo Abdullah, il quale lo fece assistere alla preghiera e
al sermone dell’imam. Al termine ci fu l’incontro con l’imam,
che con squisita gentilezza gli fece dono di una copia del
Corano.
Tarin e tutti i giovani come lui in quei giorni erano in fermento
per l’arrivo dei grandi campioni della Formula 1, come Varzi,
Taruffi, Tazio Nuvolari che correva su Bugatti. Tarin fu un
privilegiato perché approfittò dell’amicizia di un meccanico
suo amico, il quale aveva una autorimessa dove venivano
protette le macchine della corsa che egli poté contemplare e
toccare.
Fu un avvenimento che lasciò il segno tra gli sportivi di Tripoli,
ma fu anche un brutto episodio perché si accompagnò a uno
scandalo. La corsa era abbinata alla lotteria milionaria e alcuni
personaggi senza scrupoli della cosiddetta buona società
approfittarono dell’occasione per arricchirsi illegalmente.
Anche di questa vicenda Bartolo si era occupato e come al
solito aveva tirato le sue conclusioni nella relazione presentata
al governatore.
In quegli anni Bartolo fu incaricato di altre delicate ispezioni,
come quella presso i villaggi che nei dintorni di Tripoli
andavano sorgendo, man mano che arrivavano i coloni
dall’Italia. A questi villaggi erano stati dati i nomi di patrioti,
politici, scienziati: Tazzoli, Breviglieri, Garibaldi, Crispi,
Marconi.
A ogni famiglia veniva assegnato un podere con una casetta
arredata, gli attrezzi agricoli, una mucca, un pollaio, una mula.
Furono questi coraggiosi e laboriosi coloni che via via fecero
arretrare il deserto e avanzare il verde delle coltivazioni, grazie
anche alle chilometriche canalizzazioni: grano, leguminose,
ortaggi, ulivi, viti, agrumi.
Il compito ispettivo di Bartolo consisteva nel controllare che
quanto previsto dalla legge venisse rispettato. Non mancavano i
profittatori, i disonesti, che su un così largo commercio di beni
si approfittavano, rubando a piene mani, per cui spesso Bartolo
si trovava nella infelice situazione di raccogliere le lamentele di
povera gente che segnalava la mancanza o l’insufficienza di
qualcosa che pure era loro dovuto.
Le ispezioni che più di tutte ebbero un riflesso positivo nella
vita di Bartolo furono quelle alle scuole. Provava un grande
piacere nel visitare piccole e sperdute scuole dei villaggi
ospitate spesso in locali di fortuna. Gli alunni delle scuole
elementari e il loro maestro erano straordinari. Con quale
pazienza, con quale atteggiamento di solidarietà verso le
famiglie, con quale impegno e volontà nel migliorare la propria
cultura, leggendo presso le biblioteche del distretto libri e
riviste. Tutto poteva essere utile per trasmettere agli alunni
l’amore per la patria, per il lavoro, per il senso della comunità,
per i valori della famiglia e della religione. Specie su
quest’ultimo punto, Bartolo raccomandava l’importanza del
rispetto per le altre confessioni e soprattutto il dialogo con la
religione musulmana, che era la religione prevalente della
popolazione indigena. Questi maestri portavano per la maggior
parte l’esperienza della vita rurale, essendo figli di contadini e
spesso contadini loro stessi. Dunque vantavano una
straordinaria manualità che li avvantaggiava nel far capire ai
ragazzi i processi lavorativi nelle varie forme dell’artigianato.
Grande soddisfazione ricevette dalla visita all’Istituto di arti e
mestieri per i ragazzi più grandi che venivano avviati ai
mestieri più diversi, perno dell’economia del paese.
In quel periodo ebbe la possibilità di visitare la scuola cattolica
dei Fratelli delle scuole cristiane, una scuola prestigiosa, per la
quale Bartolo ebbe modo di esprimere il suo apprezzamento
nelle relazioni. Entrò in amicizia con il rettore della scuola e nei
giorni in cui non era impegnato nel lavoro, vi tornava
frequentemente e si fermava a leggere presso la ricca biblioteca
dell’Istituto. Fu lì che scoprì un bel libro che volle chiedere in
prestito per una lettura approfondita. Era l’opera di uno scrittore
anonimo: Racconti di un pellegrino russo.
Quel libro di spiritualità gli cambiò la vita.
Ancora agli inizi degli anni trenta, i soldati italiani dovettero
combattere con molta determinazione per allargare l’influenza
italiana in Cirenaica che era sotto la minaccia continua dei
ribelli. Per battere le bande e isolare i capi tribù, purtroppo si
commisero rastrellamenti, stragi, deportazioni di massa. La
pacificazione avvenne solo dopo la cattura e l’impiccagione di
Omar al-Mukhtar.
Qualche anno più tardi, il Duce inaugurò la via Balbia, circa
duemila chilometri, una costruzione straordinaria che facilitò i
collegamenti verso il confine egiziano.
Questi eventi tragici per la riconquista della Libia furono
oggetto di riflessione da parte di Bartolo, il quale non mancò
nei numerosi incontri con gli ufficiali di censurare sotto il
profilo umanitario le azioni militari degli italiani, al punto da
condividere l’opinione della stampa straniera che accusava
l’Italia di genocidio.
Le opinioni di Bartolo non piacquero e, ingigantite, suscitarono
malumori e atteggiamenti avversi nei suoi confronti. Il generale
R. e la moglie Aurora gli fecero notare che doveva esprimersi
con molta prudenza, se non voleva finire nei guai. ma ormai la
strada verso un calo della stima nei suoi confronti era aperta.
Per di più sopraggiunse un’altra questione che fece precipitare
la sua credibilità fascista.
Bartolo aveva rapporti molto cordiali con la comunità ebraica,
non solo con imprenditori ricchi o comunque benestanti, ma
anche con persone umili, come falegnami, fabbri, negozianti.
Con il rabbino amava discutere sul tema della creazione, della
esistenza di Dio.
-“Dobbiamo evitare, diceva il rabbino, di essere come l’uomo
superbo, l’uomo di potere, che è sicuro di poter strappare ogni
velo di parole misteriose e che si trova a non vedere più niente,
a non capire niente. Occorre leggere i libri sacri con umiltà,
meditare sulla parola di Dio, essere come il cieco che brancola
nel buio e chiedere continuamente a Dio che ci apra la mente e
il cuore per farci intendere, per aprirci la strada verso il suo
mistero. Tutto diventa simbolo attorno a noi, ed è il simbolo che
come messaggero ci annuncia l’esistenza di Dio.”
Bartolo restava affascinato da quel piccolo uomo con la
barbetta rotonda, con un viso scavato, con in testa la kippah. E
le sue parole scendevano nel suo cuore come dolce miele; le
contornava con i suoi pensieri, rifletteva sulla sua vita passata e
la ricostruiva, giudicandola priva di quella luce misteriosa che
ora intravedeva.
Quei colloqui si moltiplicarono. Quelle visite alla sinagoga non
sfuggirono ai suoi nemici. E un giorno nel salone degli ufficiali,
mentre si commentava l’ultima decisione del Duce sugli ebrei,
un giovane ufficiale si alzò in piedi e iniziò a esporre l’utilità
delle leggi razziali. Parlò in difesa della razza ariana, alla quale
gli italiani erano orgogliosi di appartenere e elogiò i
provvedimenti decisi dal Duce per isolare gli ebrei e metterli in
condizione di lasciare il paese.
Bartolo sentì il sangue ribollire dentro di sé e non poté fare a
meno di intervenire.
-“Io sostengo che le leggi razziali sono una vergogna. Il popolo
italiano è lontano da questo infausto razzismo. L’esodo di gente
intelligente, di grande cultura e tradizione avrà conseguenze
negative. Si è messa in moto una macchina ridicola e puerile
per fare attecchire l’odio contro un popolo laborioso che ha già
tanto sofferto. I muri della nostra città, i giornali, anche quelli
che vanno in mano ai ragazzi, riportano frasi offensive,
immagini di ebrei dipinti come persone spregevoli, come un
certo Assalonne Mordivò che chiede l’elemosina, mentre sotto
il mantello nasconde sacchetti d’oro. E’ ignobile questa
campagna di odio che avvelena la convivenza…”
Non poté più continuare perché il giovane ufficiale alzò la
voce: “Voi, voi, signor Campailla, in tutti questi anni avete
condotto una vita lussuosa al servizio del governo e tuttavia vi
permettete di denigrare e affossare le decisioni che provengono
dal capo del governo. E come se non bastasse…”
Non gli fece completare la frase, Bartolo con calma
rivolgendosi a tutti i presenti: ”Non intendo restare un minuto
di più, me ne vado. Domani stesso presenterò le mie dimissioni
al vicegovernatore. Io sono un uomo libero che ama la verità!”
Due giorni dopo, Bartolo si trovava sulla nave che lo portava in
Italia.
Un telegramma da Roma lo avvertiva che il conte era
gravemente malato e chiedeva di lui.
Quando giunse a Roma, apprese la triste notizia che il conte era
morto.
Gli ultimi avvenimenti gli avevano dato la sensazione di uscire
da un lungo silenzio e ora i suoi pensieri si affollavano come
nuvole a insinuare ombre nelle acque del reale, a spargere ansia,
a triturare sogni. Una inquietudine sconosciuta afferrava tutto il
suo essere; si rafforzava la volontà di mollare quella vita che
non lo attraeva più, di trafiggere quella bestia selvaggia che se
ne stava ancora acquattata in un angolo oscuro della sua anima,
pronta a insorgere, a irridere quelle azioni che avevano una luce
di umiltà, di generosità, di comprensione verso il prossimo.
Sentiva che la sua vita fino ad allora era diventata una matassa
arruffata, che spesso una inspiegabile apatia lo portava ad
appendere come scheletri le sue ore, le sue giornate. Di quella
gloria che un tempo si era figurata non era rimasta memoria,
nulla più che un ingranaggio arrugginito, una polpa marcia, una
buccia smorta.
Alla lettura del testamento presso il notaio, Bartolo anziché
dimostrare compiacimento, fu colto da un senso di nausea.
L’immensa fortuna del conte: denaro, titoli, beni immobili,
escluso il palazzo seicentesco che veniva assegnato alla città di
Roma, tutto veniva ereditato da Bartolo. Era diventato un uomo
ricchissimo, ma il suo progetto di vita ora confliggeva
totalmente con quella realtà.
In quei giorni prese a frequentare la chiesa della sua giovinezza,
dove si raccoglieva a lungo in meditazione. Il parroco non era
più lo stesso. Al suo posto c’era un giovane e dinamico prete, al
quale confidò le sue intenzioni: il suo desiderio era quello di
donare a cinque parrocchie povere della città i beni immobili
che aveva ereditato dal conte, affinché con i proventi si
potessero aiutare le famiglie più povere.
La generosità di Bartolo fu molto apprezzata e qualche giorno
prima della sua partenza cinque parroci furono accolti dal
notaio per ricevere la donazione. I terreni della Sicilia li donò al
padre che come mezzadro al servizio del conte per lunghi anni
aveva lavorato con onestà e dedizione.
Poi Bartolo dispose il trasferimento del denaro e dei titoli alla
cassa di risparmio di Tripoli e raggiunse la Sicilia. Salutò e
abbracciò i suoi anziani genitori e a Siracusa si imbarcò sul
piroscafo diretto a Tripoli.
Com’era cambiato dal suo primo arrivo a Tripoli! Allora era
giovane, deciso ad affermarsi, ad avere successo; ora più che
dimesso, desideroso di affossare il proprio egoismo, ogni idea
di primeggiare e pronto ad aiutare i più poveri, i dimenticati
dalla società, le vittime delle ingiustizie, gli scartati della terra.
Delle vecchie amicizie, lasciate del resto precipitosamente, e
dalle quali aveva ricevuto un grande prestigio sociale, non volle
più saperne. Riprese i contatti con le comunità islamica ed
ebraica e volle far visita all’arcivescovo della diocesi tripolina.
L’imam, il rabbino e l’arcivescovo furono i suoi principali
referenti del suo nuovo progetto di vita, che era andato
maturando già dall’anno precedente, quando aveva conosciuto
la storia di un uomo eccezionale: Charles de Foucauld, il
fondatore dei Piccoli fratelli.
Se un uomo, all’inizio così lontano da Cristo, era riuscito a
lasciare tutto e a ritirarsi nel deserto, ad aiutare tanti poveri
sofferenti, a fondare un monastero, una comunità di fratelli che
condividevano le sue idee di carità verso il prossimo, perché
non avrebbe potuto farlo anche lui?
Ne parlò all’arcivescovo. A lui espose il progetto di cambiare,
di dare una svolta alla sua vita, di imprimerle una nuova
direzione illuminata dalla fede. Una fede che aveva dormito a
partire dalla sua adolescenza, ma che era negli ultimi tempi
prepotentemente sbocciata. Si diceva pronto al gran passo dopo
la meditazione sui testi biblici e soprattutto sui Vangeli.
-“In questo momento della mia vita, disse Bartolo
all’arcivescovo, io sono come quel giovane ricco, a cui il
Signore dice: Va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri e
avrai un tesoro nel cielo; poi vieni, prendi la tua croce e
seguimi. Ma diversamente da lui che, dice l’evangelista Marco,
se ne andò dolente, io voglio accettare la parola del Signore”.
A quel punto, Bartolo disse che lasciava alla chiesa cattolica di
Tripoli quanto possedeva, perché provvedesse ai bisogni dei
poveri di Tripoli, senza alcuna distinzione di razza e di
religione. Poi aggiunse che la sua idea era quella di ritirarsi a
vivere nel deserto, seguendo gli insegnamenti di fratel Carlo de
Foucauld e raggiungere l’eremo da lui fondato.
L’arcivescovo fu oltremodo lieto sia per la generosità di
Bartolo, sia per quella idea di andare alla ricerca di Dio sulle
tracce di fratel Carlo. E si mise a esaltare la santità di
quell’uomo, che da una vita sregolata, da una vita di soldato,
era approdato alla fede e si era fatto umile tra gli ultimi, fino a
difenderli a costo della sua vita.
Nei giorni seguenti cominciò a preparare la sua partenza:
comprò un cammello, due coperte, due gherbe, un fucile e tutto
ciò che gli consigliavano gli indigeni.
Non dimenticò il suo amico Tarin che era diventato un esperto
meccanico. Gli fece dono di una somma sufficiente per aprire
una officina e una autorimessa. Tarin lo ringraziò con le lacrime
agli occhi e gli suggerì per una maggiore sicurezza del viaggio
di unirsi a qualche carovana.
Lasciò Tripoli la mattina del 6 giugno 1940, quando in Europa
spiravano da tempo venti di guerra.
La città era in fermento, il porto era invaso da ragazzi e ragazze
italiani che partivano per una “vacanza” obbligata in Italia sulla
costa adriatica, per volere del Duce. I loro genitori li
salutavano, abbracciandoli, piangendo e dando le ultime
raccomandazioni prima di salire sul piroscafo.
-“Tredicimila, diceva un vecchietto che in un angolo fumava la
pipa e si asciugava una lacrima, c’è anche la mia nipotina.
Chissà se potrò rivederla!”
Non tornarono infatti se non dopo molti anni e ci furono quelli
che non ritrovarono gli affetti lasciati quel giorno.
Quattro giorni dopo, Bartolo che si era unito a una carovana e si
trovava in pieno deserto, capì che era scoppiata la guerra, tante
volte annunciata, quando una squadriglia di aerei francesi
decollati da una base algerina, passò sopra la loro testa. Il
rumore dei motori innervosì i cammelli e furono costretti a
fermarsi. Più tardi si seppe che la bella città di Tripoli aveva
subito un bombardamento già la sera stessa del 10 giugno.
Il viaggio della carovana finì presso un’oasi attorno alla quale
sorgevano alcuni poveri villaggi. Il capo carovaniere consigliò a
Bartolo di unirsi a un’altra carovana che sarebbe passata da lì
fra qualche giorno. Ma Bartolo aveva ormai preso un’altra
decisione: voleva proseguire da solo, agognava la solitudine E
ora si presentava l’occasione giusta: aveva le sue carte, aveva
tutto ciò che gli serviva, possedeva una discreta esperienza del
deserto del Sahara. Poteva farcela!
Prima ancora dell’alba lasciò l’oasi. Come gli avevano
insegnato, era necessario affrontare il deserto nelle ore più
fresche e riposarsi quando il sole picchia sulla testa e lascia
senza respiro.
Già da qualche tempo aveva preso l’abitudine di parlare come
se avesse a fianco un amico: si faceva domande e ascoltava le
risposte.
-“Gibbosa è la tua anima, straripante di solitudine, udiva bene
quella voce, deserta come questa sabbia che ti circonda. Il
ghibli ti crea dune di volontà inconsistente, passioni che fai
fatica a dimenticare”.
-“Perché oggi non sono come ieri?”
-“Forse perché i tuoi occhi guardano le cose con spirito nuovo, i
tuoi occhi forse oggi splendono come quelle stelle così lontane
che trapuntano questo cielo della notte. I tuoi occhi sono nuovi,
nuovo è il tuo cuore”.
-“Eppure è così strano. Ora che vedo senza veli di cataratta, mi
è chiara la mia interiore povertà; vedo il male che a lungo ho
covato dentro di me e sento che posso avviarmi verso un
cammino di riscatto dal caos, dal miraggio di un’oasi,
inesistente, illusoria, che fin qui ha condizionato la mia vita”.
-“Ora non chiedermi altro, contempla questo momento in cui
all’orizzonte compare la debole luce che annuncia l’aurora.
Contempla questo mare di dune, mai immobile, che sembra in
lontananza toccare il cielo”.
Bartolo proseguiva nel suo cammino in sella al cammello e il
mondo attorno era bello, ondeggiante, così dolce come dovette
essere la carezza che appena nato ricevette da sua madre. Se ne
stette un po’ in silenzio; con la mano sinistra reggeva le redini,
con la destra si copriva la bocca per lo stupore, mentre il
cammello lentamente avanzava, affondando le zampe nella
sabbia. Udì la voce che gli diceva: “Tu sei un frammento di
questa bellezza, un frammento di Dio!”
Andava nel deserto da circa una settimana. Aveva visto una
sola volta di lontano una carovana che si muoveva in direzione
opposta alla sua, quando, controllando la riserva dell’acqua,
giudicò che era scarsa e fu preso dall’ansia. Consultò la carta e
si accorse che con una piccola deviazione poteva raggiungere
un’oasi, dove sicuramente avrebbe avuto la possibilità di
rifornirsi d’acqua e di viveri.
Dopo quasi due ore, scorse in lontananza un paio di palme
bruciate dal sole e ancora più avanti un palmeto che gli fece
sperare di essere arrivato all’oasi. A un tratto uno spettacolo
orribile si presentò ai suoi occhi. Da una duna,
improvvisamente, era sbucato un uomo in brandelli che correva
disperatamente, affondando nella sabbia, e dietro di lui due
cavalieri con il volto coperto che lo inseguivano. Quando lo
raggiunsero, lo colpirono con le loro sciabole e l’uomo rotolò
per tutto il crinale della duna. Poi il corpo si fermò, restando
inerte, sulla sabbia. I cavalieri guardarono quel corpo
insanguinato, girarono i cavalli e scomparvero da dove erano
arrivati.
Terrorizzato, Bartolo scivolò dal cammello e di corsa si
precipitò verso quell’uomo. La sabbia aveva rapidamente
inghiottito il suo sangue: era rimasta una scia diffusa di rosso
lungo la duna e una grossa macchia vicino al suo corpo. Gli
sollevò il capo, gli pulì la faccia e gli occhi pieni di sabbia. Poi,
vedendo che ancora respirava, prese dell’acqua e gli bagnò le
labbra. Tentò inutilmente di chiudere con le bende una enorme
ferita che gli attraversava il corpo dal collo fino all’inguine.
Durò due ore la sua agonia; a un certo momento le sue labbra
ebbero un fremito:”Mon…frère…Charles…mon frè…re…” e
poi spirò.
Bartolo lo seppellì ai piedi di un’alta duna.
Vicino all’oasi sorgeva un villaggio con le case dai muri
d’argilla impastata. A malincuore vi si fermò, pensando che
quei cavalieri provenissero da lì.
Da una porticina ingombra di sabbia, un vecchio con una barba
lunga e bianca gli fece segno di avvicinarsi. Indossava una
veste bianca su cui era cucito sopra un cuore il crocifisso e
disse di chiamarsi frère Bernard dei piccoli fratelli di Foucauld.
Fu una grande gioia per Bartolo quell’incontro, pure se segnato
da quell’evento così orribile.
Frère Bernard, appreso che Bartolo era diretto al piccolo eremo
costruito da frère Charles, lo invitò a restare per la notte e gli
spiegò che il suo viaggio era quasi al termine: due giorni erano
sufficienti a percorrere la pista del deserto che univa
quell’avamposto all’eremo. Gli offrì una tazza di tè e gli narrò
quel che era accaduto poco prima del suo arrivo. –“L’uomo,
inseguito e ucciso, apparteneva un tempo alla tribù dei tuareg.
Costui non era altri che il figlio di quel tuareg , che più di venti
anni prima, aveva ucciso durante una delle tante scorrerie
proprio frère Charles. Il giovane allora sedicenne era rimasto
sconvolto da quell’evento, di cui il padre da sempre si vantava,
perché sapeva dell’infinito spirito di carità di frère Charles. Per
questa ragione era fuggito dalla tribù e aveva fatto perdere le
sue tracce. Lo cercarono inutilmente per anni, finché un giorno
si presentò ai Piccoli fratelli, deciso a convertirsi alla religione
cristiana. Tutto andò bene per molto tempo, finché la notizia
della conversione non giunse ai tuareg. L’azione che oggi
hanno compiuto non è altro che una terribile vendetta, che io
vecchio e infermo non ho potuto impedire”.
Gli occhi gli si bagnarono di lacrime e la voce gli si spezzò in
gola.
-“Sia fatta la volontà di Dio”, disse Bartolo.
-“Hai ragione, mio buon fratello. Se questo è stato il volere di
Dio, non possiamo fare altro che accettare il mistero della
sofferenza e del male”.
-“Frère Bernard, riprese a parlare Bartolo, è proprio questo che
ancora non capisco. Mi chiedo sempre nelle mie meditazioni,
proprio perché ancora la mia fede è insicura e nuda, come può
Dio che è il Dio dell’amore permettere il male, far morire gli
innocenti, i bambini. Perché? Perché i terremoti, le alluvioni, le
guerre?”
-“Questa domanda, rispose frère Bernard, me la sono fatta
anch’io tante volte e tuttora nei momenti bui e tristi torna ad
assalirmi. Permettimi di dirti una cosa, prima di risponderti. Si
può uscire dall’angoscia di vedere che il cielo resti chino, solo
per mezzo della preghiera. Ma la preghiera, ricordati fratello,
non può avere un tempo limitato, come può essere un raggio di
sole che squarcia le nuvole e ci mostra l’azzurro del cielo, deve
essere incessante, continua, senza interruzione. E se chiedi
come ciò sia possibile, ti farò dono di un libro meraviglioso”.
Frère Bernard si alzò e con passo lento si avvicinò a un grosso
tavolo, aprì un cassetto e tirò fuori un vecchio libro sgualcito.
-“Ecco, disse, prendilo, è un mio regalo. A me non serve più,
sono vecchio e fra non molto dovrò lasciare questo mondo.
Prendilo tu, tu che sei ancora giovane; leggendolo e
meditandolo, potrai apprendere il segreto della preghiera
incessante. E’ il libro che si intitola Filocalia, una raccolta di testi patristici
sulla preghiera spirituale, pubblicata a Venezia nel 1782 da un monaco
del monte Athos, Nicodemo di Nasso”.
Bartolo lo prese con mani tremanti, come un oggetto prezioso e
ringraziò il vecchio.
-“Ora, continuò frère Bernard, posso dirti la mia idea riguardo
alla domanda che mi hai posto. Secondo me, il Signore
permette che ci sia il male perché vuole essere certo dell’amore
dell’uomo. Dio è come sfidato da satana. Tu ricorderai Giobbe,
il quale aveva ricevuto da Dio ogni tipo di benessere, ricchezza,
famiglia, salute; ebbene, satana sfida il Signore dicendo che
Giobbe ama Dio perché ha ricevuto innumerevoli benefici. Se
tali benefici venissero meno, sicuramente Giobbe non
benedirebbe Dio, ma gli si rivolterebbe contro. E tu sai che le
cose non andarono così: malattie, miserie, sofferenze di ogni
genere, non piegarono Giobbe, il quale appunto anche nelle
peggiori sventure continuò ad amare Dio. Dunque il male c’è
perché è una prova per la fede dell’uomo. Dio ha dato e Dio
toglie, dice Giobbe, o come hai detto bene tu: Sia fatta la
volontà di Dio”.
La gran parte della notte trascorse in preghiera e continuando a
parlare del bene che Bartolo avrebbe potuto fare per le
numerose famiglie povere che vivevano attorno all’eremo dove
era diretto.
-“Sono molto felice di aver fatto la tua conoscenza, disse frère
Bernard. Non è facile rinunciare, come hai fatto tu, ai beni
terreni in favore dei poveri. E io ascoltando la tua storia sono
rimasto molto colpito e sono sicuro che il Signore saprà darti la
pace e la verità che vai cercando”.
Si chinò fino a terra e prese un pugno di sabbia dal pavimento
che ne era tutto ricoperto.
-“Tutto si sbriciola in questo nostro mondo: i granelli di questa
sabbia sono gli uomini, le ricchezze, le civiltà del passato. Non
resta che questo. Ciò che non potrà morire è l’amore.
Vorrei darti, infine, un consiglio: cerca nel tuo bagaglio se ci
sono ancora cose ( lettere, diari, nomi, indirizzi, fotografie) che
ti legano alla vita che hai lasciato. Prendile e bruciale. Le loro
ceneri si aggiungeranno a tutte le altre del passato che
giacciono nella sabbia. Vivere nel deserto significa spogliarsi
del vecchio uomo e entrare nel mistero del passaggio, simbolo
della purificazione, rifare il cammino che gli ebrei percorsero
prima di giungere nella terra promessa. Vorrei anche farti un
augurio: che questo cammino nel deserto ti faccia apprezzare il
silenzio, la contemplazione, che è il vero colloquio con Dio, la
vera preghiera. A quel punto potrai verificare come tu sia
riuscito a spogliarti di ogni aspetto terreno, di ogni peso di vita
materiale, di ogni ambizione di sapere e a raggiungere la
semplicità dello spirito, simile a quella del fanciullo,
raccomandata dal Signore, come ricorda l’evangelista Matteo:
Se non vi convertite e non diventerete come piccoli fanciulli,
non entrerete nel regno dei cieli”.
Prima dell’alba, i due erano già in piedi. Il vecchio scostò la
tenda che copriva l’uscio e un filo di luce entrò dentro. Bartolo
baciò le mani di frère Bernard e commosso lasciò quella casa
benedetta, avviandosi con il suo cammello verso la pista che il
vecchio gli aveva indicato.
Non aveva mai visto tante stelle in cielo, vibravano tutte, da
quelle grandi a quelle più piccole, e in certi tratti del cielo erano
così fitte da formare quasi una piattaforma uniforme, senza
neppure un piccolo spazio di separazione tra l’una e l’altra. Il
suo volto rischiarato dalla luna brillava nell’oscurità; i cespugli
solitari e spinosi, piegati dal vento che da trasparente e fresco si
preparava a diventare sempre più freddo fino a
far rabbrividire, con rassegnata rinuncia alla lotta attendevano
di essere inghiottiti e sepolti in una nuova duna. In quella
vastità impressionante senza confini, qual è solo nel deserto e
nel mare, si sentiva sospeso tra felicità e rimpianto di essere
così a lungo rimasto lontano dal mistero della vita. Fasciato
dalla fedeltà della notte, era pronto ad abbandonarsi alla carezza
del sonno.
La luce del sole lo trovò ben avanti nel cammino; poi prima
della grande calura fece una sosta per bere una tazza di tè e
riprese il viaggio.
Verso il tramonto vide una roccia che sorgeva dalla sabbia
come un enorme fungo solitario. L’oscurità avanzò
rapidamente. Si sentiva al sicuro avvolto nella coperta che lo
avrebbe protetto dal freddo intenso della notte. Andava
scemando quella forte emozione provata al suo arrivo, quando
aveva dovuto far sloggiare due presenze indesiderate con un
ben assestato colpo di fucile. Due vipere avvinghiate si
crogiolavano agli ultimi raggi del sole, vicino al grosso masso
di granito che aveva scelto per fermarsi, e dopo averle a lungo
guardate con ribrezzo, le aveva sepolte più in là sotto una duna.
Al mattino, ancora al buio, accese un fuoco con i pochi sterpi
secchi che trovò li attorno e bevve una tazza di tè. Doveva
essere l’ultima giornata di cammino prima di raggiungere la
meta, secondo le indicazioni di frère Bernard.
Il sole era tramontato da poco, quando in lontananza Bartolo
vide che il gran mare di sabbia andava diminuendo, le zampe
del cammello non affondavano più come prima sulla sabbia, ma
toccavano un terreno duro e sassoso. Sulla sinistra scorgeva una
piccola altura con delle sagome di pietra bianca che immaginò
potessero essere rustiche abitazioni. Pensò che l’eremo dovesse
trovarsi da quelle parti.
Più si avvicinava e più distintamente scorgeva mille fuochi che
rischiaravano la prima oscurità della sera. Erano dei grandi falò
che fiammeggiavano, attorno ai quali si intravedevano ombre in
continuo movimento. Si diresse senza esitazione verso la pista
leggermente in salita che portava verso la piccola altura. Subito
dopo una curva, fu costretto a fermarsi perché vide che da ogni
lato spuntavano bambini, giovani, ragazze, uomini e donne di
ogni età.
Il villaggio era in festa, la campana dell’eremo suonava senza
interruzione.
La luna mandava i suoi primi bagliori nella notte; al tramonto,
il sole si era succhiata tutta la luce del giorno. In quello stesso
momento, altrove, brillavano i bagliori delle armi da guerra,
terribile prova che Dio mandava agli uomini.
Vincenzo Fiaschitello
Nato a Scicli il 18/10/1940. Laurea in Materie Letterarie presso Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (Esami di Stato D.M.10/8/1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Vincitore Concorso nazionale a 119 cattedre, indetto con D.M. 30/6/ 1969) e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola –Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974 (Vincitore Concorso nazionale D.M.25/9/1970), preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I. Autore di vari saggi sulla scuola, di opere di narrativa e di poesia.
Onorificenza su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri: Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana (Decreto Pres. Rep. 2/6/1997)