Les italiens … a braccia nude (parte seconda)
di Gianvito Pipitone
Dal trattato della Goulette in poi (1868) che diede il la ad una sorta di immigrazione ufficiale, fra il nascente Regno d’Italia e la Tunisia (esattamente in quest’ordine), i primi a trasferirsi in diverse località costiere del paese maghrebino, furono gruppi di tunnaroti (specializzati nella pesca dei tonni) e di curallari (capaci di immergersi anche in profondità per raccogliere il pregiatissimo corallo), gli uni e gli altri trapanesi soprattutto. Di lì a poco, fece seguito la massa di “nude braccia” costituita da contadini, operai e piccoli artigiani, prevalentemente dialettofona, analfabeta o scarsamente alfabetizzata, proveniente perlopiù dalle zone interne più svantaggiate della Sicilia. La loro cultura era solamente orale, trasmessa dagli anziani ed era così forte da escludere ogni tipo di contaminazione con gli abitanti locali, almeno all’inizio. Spesso in questa prima fase il siciliano emigrato in Tunisia veniva assorbito dalle campagne, che lo rimandavano all’habitat naturale da cui proveniva oppure veniva impiegato nelle miniere di bauxite. In queste condizioni precarie e spesso inumane, non solo non aveva modo di stabilire contatti con le scuole e i centri di cultura italiani presenti nel territorio, ma spesso non riusciva nemmeno ad intessere dei rapporti sociali con gli abitanti autoctoni.
Col tempo però le cose cambiarono. All’inizio del Novecento la comunità italiana era ormai ben inserita nel contesto sociale del paese: furono parecchi quelli che uscirono dall’anonimato acquisendo proprietà fondiarie e creando le prime aziende siculo-tunisine nel territorio. Le cose migliorano anche dal punto di vista burocratico: i nuovi arrivi dall’Italia erano infatti sostenuti da un sistema creditizio e fondiario in mano a società private che acquisivano grandi appezzamenti terrieri per poi rivenderli ai nuovi immigrati. Furono anni di grande rivalsa economica e sociale per gli italiani di Tunisi. Ma proprio quando quel clima di crescita e fiducia sembrò illudere le masse di aver finalmente trovato dietro l’angolo di casa una nuova America, ecco che arrivò l’ennesima mazzata.
Ca va sans dire… Il calvario ebbe inizio quando una certa propaganda francese (a cavallo delle due guerre mondiali) coniò l’odioso slogan “le peril italien”, additando all’opinione pubblica tunisina la presenza degli immigrati italiani come un pericolo per la coesistenza pacifica, se non per la stabilità politica del paese. I siciliani, in particolar modo, vennero dipinti come violenti, irascibili, imprevedibili e in ultima analisi dei criminali incalliti. Presto, alla grancassa della propaganda, si unì il resto: il commercio, le imprese e la stessa produzione vitivinicola degli italiani furono fortemente ostacolati dall’amministrazione francese attraverso la massiccia introduzione dei prodotti provenienti dall’Algeria. La stessa importazione dello Zibibbo, il vitigno, fu dichiarata fuori legge. Tutto questo accadde sotto gli occhi della popolazione tunisina che, suo malgrado, dovette subire questa rappresentazione negativa del siciliano selvaggio, armato di coltello o pistola, pronto ad uccidere per futili motivi.
Ma perché’ accadde tutto ciò ? I motivi furono chiaramente politici e squisitamente geopolitici. Si è calcolato che nel 1938 la presenza di italiani sul suolo tunisino sfiorasse le 200.000 unità. Nonostante la Tunisia fosse un protettorato francese, la presenza italiana era notevolmente superiore a quella francese (secondo le stime ferma a circa 70.000 unità). I rapporti di forza fra le due comunità erano così sbilanciati a favore degli italiani da fare scrivere all’economista francese Paul Leroy Beaulieu: “La Tunisie est une colonie italienne administrée par des fonctionnaires français”. Questa preponderanza dell’elemento italiano su quello francese oltre ad essere un’anomalia, ha finito immancabilmente per avvelenare i rapporti fra i due paesi europei fino poi ad arrivare allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Volendo chiosare brevemente questo passaggio, si noti come molto spesso nella Storia la xenofobia e il razzismo abbiano utilizzato sempre e ovunque lo stesso linguaggio, le stesse immagini distorte e le medesime tecniche di comunicazione e di persuasione. E poco importa se le angherie francesi avessero motivazioni di origine politica: rivolte cioè ad una comunità la cui madrepatria si professava fascista.
Di contro, al giorno d’oggi, fa specie incontrare italiani (e siciliani!), evidentemente dei minus habens, spesso aizzati da forze politiche estremiste, ignari della loro storia che, applicando a priori l’odio sistematico nei confronti dell’immigrato sporco brutto e cattivo, non fanno altro che reiterare la massima che più li qualifica: che la madre degli imbecilli è sempre incinta.
Non mi dilungherò oltre le malefatte dei francesi, basta comunque sapere che già nel 1943, in piena Guerra, tutte le istituzioni italiane in Tunisia furono chiuse. I mezzi usati dalla Francia per liquidare in modo definitivo la question italienne furono radicali: chiusura di ospedali, scuole, associazioni culturali (come la Società Dante Alighieri) e dell’unica libreria italiana presente a Tunisi e il conseguente blocco della stampa italiana. A ciò seguirono azioni di riequilibrio demografico: l’espulsione dei quadri dirigenti e dell’élite intellettuale italiana e la spinta alla naturalizzazione di una parte di italiani che, non avendo scelta, divennero di fatto “francesi”, almeno sulla carta. Dopo tanto clamore, nel dopoguerra era normale conseguenza che la collettività italiana si riducesse a 66 500 unità.
Ma l’incubo per i nostri conterranei che decisero di rimanere sul suolo tunisino non finì lì. Con l’indipendenza della Tunisia dalla Francia nel 1956 tutte le proprietà straniere furono nazionalizzate dal nuovo governo tunisino. E nel 1964 (quando già la presenza italiana si era ridotta a 33 mila unità) le terre così faticosamente acquistate e tramandate da generazioni, di padre in figlio, vennero definitivamente espropriate dalle autorità tunisine. Si trattò dell’atto definitivo di liberazione della Tunisia dalla presenza francese, che colpì indiscriminatamente tutti gli stranieri, compresi gli italiani.
Gli italiani a quel punto, ingannati dal paese che li aveva accolti e che avevano contribuito a costruire, dovettero registrare pure la beffa finale dovuta all’assenza delle autorità Italiane che fece poco, troppo poco, per riaccoglierli nella madrepatria. Oggi gli italiani in Tunisia sono poco più di 5.000: si tratta soprattutto di pensionati o di imprenditori di nuova migrazione. Dell’antica comunità rimangono meno di un migliaio di individui che si ritrovano attorno a Il Corriere di Tunisi, unico giornale (ancora attivo dal 1956, anno della sua fondazione) in lingua italiana presente in tutto il Nord Africa.
In definitiva la presenza degli italiani in Tunisia, nell’ultimo secolo, racconta di una storia cominciata male, malvissuta dalla maggior parte di loro e finita purtroppo anche peggio.
L’urgenza di approfondire questo aspetto così vicino, malinconico e così doloroso della nostra storia mi è arrivata per caso, quando pochi giorni fa su youtube mi sono imbattuto su un video postato tempo fa dal Consolato Tunisino di Sicilia, dall’ingannevole titolo gastronomico: Maccarruni (con sottotitolo: un contributo alla sorellanza siculo tunisina). Spinto dalla curiosità, aiutato anche dal taglio elegante e malinconico dell’accompagnamento musicale, ho così “divorato” i 3 brevi frammenti, non più lunghi di 2 minuti ciascuno, ad introduzione del film-documentario, appunto Maccarruni, diretto dal regista siciliano Massimo Ferrara. Il film parla proprio della Storia della comunità siciliana in Tunisia a partire dalla fine del ‘800 e ha il merito di raccontarla attraverso le interviste dei nipoti o dei pronipoti degli emigranti, avvalendosi di un interessante corredo di preziose fotografie e di vecchi filmati in bianco e nero. Di piu non sono riuscito ad ottenere, almeno sul web. Sono scarne le notizie sul regista (su mymovies si ricordano solo 2 dei suoi film-doc, senza peraltro che venga citato Maccarruni), e, se si esclude una recensione molto ben scritta di Federico Costanza “Maccarruni”: storia di prossimità dei siciliani in Tunisia“, a cui rimando per chi voglia approfondire l’argomento, non ho trovato nessun’altra pista che riconducesse al film e al suo autore. Inutile dire che qualora qualcuno ne avesse notizia, mi farebbe piacere poter ricevere informazioni più dettagliate sia sul regista, che sulla sua filmografia e ovviamente sul film che, a questo punto, non vedo l’ora di poter vedere.
E finisco, con la filastrocca, lenta e malinconica (almeno come la storia che racconta) riportata nella breve presentazione, su uno dei frammenti di Maccarruni pubblicati sul web:
Così un giorno il nonno decise di raccontare una favola, i bambini erano seduti in cerchio, ammutoliti, ascoltavano… che al di là del mare c’era la Sicilia, la nostra Terra d’origine. E tutti i bambini si misero a guardare l’orizzonte e la cercavano oltre quel grande mare. Nonno ci andiamo in Sicilia? Sì, ci andremo, una notte e saremo lì… Eravamo in tanti ad ascoltare le favole del nonno. Noi che siamo nati e vissuti e cresciuti in Tunisia, da siciliani