Il marxismo, oggi
di Vincenzo Fiaschitello
La notizia del fallimento della Silicon Valley Bank, che in questi giorni ha gettato nel panico un gran numero di risparmiatori americani e ha allarmato le borse di mezzo mondo, richiama alla memoria il clamoroso crollo nel settembre 2018 della famosa banca Lehman Brothers, per il quale per una intera settimana si assistette con sgomento alle immagini televisive di impiegati che portavano via i loro effetti personali, raccolti in improvvisati pacchi.
Vari autorevoli studiosi non hanno esitato a riconoscere, in tali eclatanti eventi, chiari segnali della vera crisi che attanaglia il capitalismo.
E’ noto che in queste situazioni gli stati, per salvaguardare il sistema generale (posti di lavoro, stabilità politica, armonia sociale), sono obbligati a intervenire immettendo fiumi di denaro nelle banche in crisi, perché a loro volta non inneschino contagi pericolosi.
Così operando riescono a colmare i vuoti creati dagli alti livelli di debito, dalla sfiducia degli investitori, dai crolli dei mercati azionari, ma in realtà non fanno altro che spostare il “buco nero” dalle istituzioni bancarie alla finanza statale. E’ un pericoloso boomerang che di solito provoca una condizione politica di austerità che, come è facilmente intuibile, colpisce le fasce più deboli della società: restringimenti dei prestiti, aumento delle tasse, inflazione, licenziamenti.
Per gli economisti di fede liberale si tratta di crisi che il capitalismo periodicamente subisce e ne sperimenta le conseguenze negative, ma dalle quali “risorge” sempre più rafforzato.
Per altri di fede marxista è invece la conferma che il capitalismo va verso il dissolvimento, verso una completa distruzione così come previsto dalla teoria di Marx, che com’è noto è fondata sul convincimento che la concentrazione del capitale nelle mani di pochi privilegiati (capitalisti, società multinazionali), anziché favorire la crescita e il miglioramento delle condizioni di vita, porta alla chiusura delle fabbriche e degli uffici ritenuti improduttivi e al licenziamento dei lavoratori. Ciò fa aumentare il divario tra ricchi e poveri, fino a un livello tale di disuguaglianza per cui sarà inevitabile un rovesciamento mediante la rivoluzione.
La stessa direzione verso la globalizzazione dell’economia mondiale con la scomparsa o quasi dell’impresa familiare e la diffusione dei monopoli imprimerà sicuramente una accelerazione verso il disfacimento del sistema, basato sul mercato libero in cui si è sempre riposta la massima fiducia per la risoluzione di ogni problema economico: credito, domanda e offerta, produzione, sovrapproduzione, ecc.
Fino alla metà degli anni settanta del secolo scorso, questa idea centrale del marxismo, secondo la quale avremmo dovuto aspettarci la rovinosa fine del capitalismo, sembrava ancora restare salda.
Il metodo dialettico, che Marx aveva preso a prestito da Hegel per la stesura delle sue opere, alcune delle quali in collaborazione con Engels , (dal Manifesto del partito comunista alla Sacra Famiglia, al Capitale), è applicato non più a un mondo di idee astratte, ma a quello delle cose materiali, della gente reale, degli uomini gravati dalla fatica del lavoro e oppressi dai soprusi dei ricchi e dei potenti, in continua lotta di classe, diventa la scienza delle leggi generali presenti nella natura e nella società che incentivano lo sviluppo, la trasformazione, e danno la garanzia del progresso grazie alla incessante negazione e al suo superamento verso uno stadio qualitativamente migliore.
Come il marxismo ha interpretato queste leggi della natura e della società?
Per la natura è evidente il riferimento a Darwin, il quale vedeva nell’ambiente la causa principale della evoluzione della specie. In questo processo continuo di trasformazione che per Darwin è da intendere prolungato nei secoli e nei millenni e quindi graduale, per il marxismo è possibile che il cambiamento si verifichi anche per salti improvvisi, come è sostenuto da un orientamento della biologia moderna.
Appare chiaro che politicamente il socialismo ha fatto propria la tesi della gradualità, mentre il comunismo ha preferito restare fedele alla tesi che ammette la possibilità dei bruschi cambiamenti.
Per la società la legge fondamentale che produce mutamenti e sviluppo è la lotta di classe. In particolare tale lotta ha come esito finale la rivoluzione, che vince sull’inerzia delle tradizioni, sulle abitudini, quando la classe operaia si impadronisce delle forze produttive che condizionano lo sviluppo della società, liberandosi dalla alienazione del lavoro insoddisfacente, annullando la fonte principale della ricchezza borghese fondata sul pluvalore e instaurando la dittatura del proletariato.
Solo per quest’ultimo aspetto, il marxismo sembra accettare una certa gradualità, una qualche “pazienza”, nel senso che, ritenendo indispensabile una razionale organizzazione, non è male ammettere la necessità di uno Stato, ma ovviamente non lo Stato inteso come forza repressiva, mostro burocratico, ma uno Stato di cui possa servirsi la classe operaia per rovesciare il sistema borghese e preparare il potere politico della classe operaia.
Questo in sintesi il quadro generale del marxismo.
Ma proviamo a domandarci che cosa oggi è vivo e che cosa è morto del marxismo.
Non c’è dubbio che la cifra relativa all’aspetto economico-politico del plusvalore, che Marx intuì lucidamente sin dall’inizio della sua attività, resta ancora del tutto valida per comprendere il capitalismo del tempo presente. Il salario corrisposto al lavoratore per la prestazione della sua opera non corrisponde al valore dei beni prodotti. C’è un plusvalore delle merci vendute, un profitto che il capitalista accumula, formando il capitale, fondamento e garanzia di funzionamento dell’intero sistema capitalistico. E su questo punto fermo del pensiero di Marx si può accendere ancora il dibattito politico e decidere da che parte stare, individuare le conseguenze, le ingiustizie sociali, la ricchezza dei pochi e la miseria di tanti e in realtà tutti i conflitti che riguardano il mondo del lavoro.
Quel che invece si può considerare piuttosto datato e comunque sbagliato, “pane raffermo” non più commestibile, è la cifra speculativa del materialismo storico, che è propria della cultura ottocentesca di cui il nostro tempo ha fatto giustizia. Oggi appare inaccettabile perché riduttiva tale concezione della storia che Marx dichiara già nel Manifesto del partito comunista (1848): “La storia della società esistente fino ad ora è la storia della lotta di classe”.
Affermare di avere individuato l’unico e perfetto metodo per una comprensione scientifica della storia non sembra affatto condivisibile. Il fondamento di questa certezza assoluta sta nel fatto che Marx ritiene di aver scoperto la “molla” o il motore che genera lo sviluppo della società umana nel rapporto dialettico tra le forme sociali e politiche e il “modo di produzione” in un particolare stadio storico.
La teoria marxista della storia è dunque tutta intesa a studiare la complessità di queste relazioni concrete che si evolvono con il miglioramento degli strumenti di produzione.
La volontà dell’individuo, le sue idee, sempre in ritardo rispetto alle azioni concrete, sono da considerare “sovrastrutture” della società. E’ la base economica la forza trainante, decisiva, del progresso della società. Tutta la storia dell’umanità è analizzata da Marx tenendo ferma questa legge, dal feudalesimo al capitalismo. Lo sviluppo si verifica secondo una regola “scientifica” ben precisa: sono i mezzi di produzione che decidono il destino di uno stadio storico; questo sopravvive finché i mezzi di produzione sono appropriati, scompare nel momento in cui gli stessi diventano inabili, inadeguati.
E’ evidente l’unilateralità di questa visione della storia.
In primo luogo perché oggi noi non accettiamo una assolutezza della scienza di tipo positivistico. Sappiamo infatti che la scienza non ci offre certezze indiscutibili: vale il principio della falsificabilità delle ipotesi scientifiche; la logica quantistica ha messo in discussione lo stesso principio di causalità.
Tutto questo può dunque lasciarci perlomeno perplessi di fronte alla sicurezza della interpretazione scientifica di Marx (materialismo storico-scientifico).
In secondo luogo non si può che restare del tutto insoddisfatti e fermamente critici nei confronti di una cifra speculativa che, partendo dal convinto proposito di archiviare la metafisica, alla fine sfocia in un ordine di idee che non sono lontane dalla metafisica. A conclusione della sua teoria, che altro fa Marx, se non parlare di “attesa”, di “speranza”, di un “paradiso” (sia pure su questa terra), che solo la dittatura del proletariato può garantire, con la soppressione della povertà, con la liquidazione dell’enorme fossato che separa la classe dei ricchi capitalisti dalla classe operaia, con la realizzazione della uguaglianza, con la pianificazione ideale dell’economia?
In fondo la teoria marxista si volge verso un misterioso misticismo utopistico!