“Adeodato, il figlio di Sant’Agostino” un racconto di Vincenzo Fiaschitello
di Vincenzo Fiaschitello
Era il tramonto, quando Giuliano Ferri raggiunse la piazzetta dinanzi alla quale si ergeva la Basilica di San Pietro in Ciel d’oro.
La frescura che scendeva dai monti lontani, impastata ai colori accesi della luce che andava declinando, gli aveva reso molto piacevole la lunga passeggiata. Seduto su una panchina, si pose a contemplare la facciata della chiesa. Era stato sempre attratto dalla città di Pavia, perché gli faceva venire in mente certi eventi storici del medioevo, frammisti a immagini fantasiose sui bizantini, sulle genti longobarde, su personaggi come Liutprando, Desiderio.
Aveva gironzolato per la città nei due giorni precedenti, soffermandosi a lungo per le vie del centro, visitando il duomo e ammirando la gran mole del castello Visconteo e gli altri monumenti; di proposito aveva lasciato per ultimo la visita alla basilica, che le truppe francesi di Napoleone avevano spogliata e usata come stalla per i loro cavalli.
In chiesa era atteso da don Gaetano, agostiniano, che sin da giovane si era trasferito dalla Sicilia per studiare nel prestigioso collegio Borromeo della città lombarda. Correva tra i due un lontano vincolo di parentela, essendo don Gaetano, figlio di un cugino della madre.
Avendo appreso che il giovane Giuliano coltivava interessi filosofici e nutriva una grande venerazione per Sant’Agostino, lo aveva più volte invitato a raggiungerlo a Pavia. Ora finalmente Giuliano poteva incontrare quel suo famoso e colto “zio”, di cui in famiglia si diceva un gran bene.
L’incontro fu molto affettuoso. Don Gaetano vestiva il caratteristico abito nero con cintura di cuoio con fibbia alla cintola e, poiché a quell’ora tornava dal coro per la recita dell’Uffizio Divino, indossava l’almuzia, un cappuccio che gli copriva le spalle, secondo la foggia della tradizione risalente alle origini dell’ordine nel secolo XIII.
Don Gaetano era un monaco intelligente, gioviale e premuroso verso tutti coloro che chiedevano il suo aiuto. Alto, magro, quasi completamente calvo, la bocca sempre atteggiata al sorriso, il naso dritto e prominente, su cui si posavano gli occhiali con lenti spesse che ogni tanto sollevava con un gesto automatico della mano sinistra. -“Ebbene, caro Giuliano, come stanno i parenti in Sicilia?”
Provava a pronunciare qualche nome, ma don Gaetano mostrava di conoscere pochi anziani, perlopiù scomparsi. Mancava da molti anni e la nuova generazione gli era del tutto ignota.
Don Gaetano con voce baritonale cominciò a fargli la storia della basilica, soffermandosi sugli illustri personaggi che trovavano sepoltura fra quelle gloriose mura: da San Severino Boezio al re longobardo Liutprando, al grande capitano di ventura Facino Cane. Naturalmente alla tomba di Sant’Agostino, sotto la meravigliosa volta del presbiterio, riservò la più grande attenzione e cura, illustrando ogni particolare di quell’arca marmorea di eccezionale fattura, opera dei maestri comacini, che sovrasta la preziosa urna contenente le spoglie mortali del santo.
-“Sono trascorsi, diceva don Gaetano, milleseicento anni dalla sua morte e la figura di questo grandissimo santo e dottore della chiesa resta sempre in primo piano. Il suo pensiero ha lasciato una impronta incancellabile nella dottrina cattolica”.
-“Sì, don Gaetano, da quando ero studente sono rimasto affascinato dal suo genio, dalla sua immensa opera in difesa della ortodossia. Ma io sono venuto qui per sentire da te quel qualcosa della sua vita che lui ha taciuto o ha tenuto in ombra”.
-“Capisco quel che tu voglia dire. Si sa quasi nulla della donna con cui visse per circa quindici anni (nemmeno il nome), molto poco del figlio Adeodato. Ma ti dico già da ora che su questi personaggi ho da rivelarti qualcosa che ancora neanche gli studiosi di Sant’Agostino conoscono”.
In quel momento, venne a interrompere la conversazione un giovane di circa venti anni, di bassa statura, di pelle scura e capelli neri e ricci.
-“Don Gaetano, mi scusi, le riconsegno le chiavi della sala delle riunioni; ho messo tutto in ordine con l’aiuto dei miei compagni. Se non ha altri incarichi per me, vorrei pregarla di lasciarmi andare. Vado a studiare”.
-“Grazie, ci vediamo stasera a cena”, disse don Gaetano. E poi aggiunse, rivolgendosi a Giuliano: “Hai guardato bene quel giovane? Ecco, fisicamente Sant’Agostino doveva proprio essere come quel giovane che, per strana coincidenza, viene proprio da Souk Ahrasi in Algeria, l’antica Tagaste, dove appunto nacque il santo. E’ uno dei tanti migranti giunti in Italia negli ultimi anni. Ce lo ha affidato la Caritas diocesana insieme con un piccolo gruppo di altri conterranei. Sono dei bravi giovani e la nostra comunità li ha accolti con l’intento di rafforzare il legittimo desiderio di migliorare la loro vita e di aiutarli a realizzare i loro progetti. Vogliamo dare un piccolo incoraggiamento, un esempio, a coloro che ancora oggi dimostrano diffidenza verso l’accoglienza. Nell’immaginario collettivo, purtroppo, si è fatto strada il timore che le migrazioni minacciano di spezzare i legami all’interno della comunità, senza accorgersi invece dell’apporto prezioso di coloro che arrivano. Lo splendore e la civiltà di Roma furono anche il frutto di un intreccio straordinario di genti diverse. E Agostino fu un fulgido esempio. Agostino, pur con il suo temperamento battagliero, lui, che non si stancò mai di combattere nelle dispute pubbliche e negli scritti contro l’errore, non dimenticava l’umiltà, la gentilezza, nei confronti degli avversari, il rispetto. Cristo gli viveva dentro con la sua kenosis, con il suo abbassarsi, con il suo farsi uomo. Ciò gli insegnava ad ascoltare il battito del cuore degli altri, dei poveri, della gente che soffriva, delle vedove, dei malati, specialmente durante i suoi quaranta anni di servizio episcopale a Ippona. E dunque noi ora non ci stanchiamo di chiedere al grande santo africano di far sì che la nostra gente impari a non disprezzare coloro che arrivano da lontano per fuggire da guerre e povertà, impari a sentire l’odore di uomini, donne e bambini, fino a rimanere impregnati delle loro tristezze e angosce, delle loro gioie e speranze. Solo così la fiducia può prevalere sulla paura, la sincerità sull’ipocrisia”.
Giuliano ascoltava con molto rispetto quanto don Gaetano andava dicendo mentre lo guidava lungo un ampio corridoio del convento attiguo alla chiesa. La sua stanza era arredata con pochi essenziali mobili: un letto, un inginocchiatoio, un grande crocifisso alla parete, una scrivania, un piccolo armadio a vetri pieno di libri e di faldoni, un computer. Era d’accordo con le idee espresse da don Gaetano intorno al dovere dell’accoglienza degli emigranti e gli venne spontaneo ricordare che proprio in quei giorni la gente di Sicilia, in occasione dell’ennesimo sbarco di uomini, donne e bambini, sfuggiti al terrore, alla fame, alla guerra, al mare in tempesta, manifestava la sua tradizionale umanità, quel senso di sacra ospitalità e di rispetto per lo straniero, retaggio della civiltà greca, fiorita tanti secoli prima e mai tramontata. E gli venivano in mente i versi di Kavafis: l’umanità non ha pregio più onorevole,/ è solo degli dei ciò che sta oltre questo ( Epitaffio di Antioco ).
-“Ecco, disse don Gaetano, qui dentro troverai le risposte alla tua curiosità. Qualche anno fa, mentre esaminavo nella biblioteca del nostro monastero, alcuni testi che riportavano notizie sulle numerosissime epistole scritte da Sant’Agostino, mi sorprese il fatto che gran parte di queste non sono state ancora ritrovate, come pure molte prediche che il santo tenne durante la sua attività pastorale. Riflettei a lungo ed ebbi l’idea di tentare una ricerca presso ciò che restava della famosa biblioteca dei Canonici regolari di Siena. La mia intuizione fu premiata dopo due mesi di assidua ricerca.
Nessun codice riguardava discorsi, resoconti di pubbliche dispute o epistole di Sant’Agostino, ma uno, piuttosto rovinato e in alcune parti illeggibile, parlava del santo vescovo di Ippona. Credetti dapprima di avere tra le mani un nuovo manoscritto della vita di Sant’Agostino di Possidio, a me ben nota. Ma mi accorsi dopo le prime righe che non si trattava di Possidio. Era un codice sconosciuto che narrava la vita e l’attività di Sant’Agostino. Lavorai per circa un mese sul manoscritto, ogni giorno scoprendo tanti aspetti della vita del santo che lui aveva preferito tacere e che, rispettando quella decisione, anche lo stesso Possidio aveva trascurato.
Don Gaetano aprì l’armadietto a vetri e prese un faldone: “Qui c’è la traduzione del testo latino del manoscritto di cui ti ho parlato e che intendo pubblicare. Ti lascio il privilegio di leggere queste carte e, se lo desideri, puoi aprire anche il file che troverai nel computer contenente una serie di riflessioni sul pensiero di Agostino. Nei prossimi giorni io sarò impegnato con i miei superiori, tu già da domani puoi venire qui a consultare le carte”.
Giuliano ringraziò don Gaetano per la fiducia che gli accordava.
Il mattino seguente, al tavolo di lavoro di don Gaetano, Giuliano cominciò a sfogliare le carte contenute nel faldone:
“Io, frate Ugone del convento dei Canonici regolari di S. Martino di Siena che al presente scrivo queste righe, confesso di aver trovato, sepolto tra la polvere in mezzo a mucchi di carte ammuffite, una pergamena che conservo con enorme commozione nella mia piccola biblioteca. E’ opera di Prudenzio, un monaco di Ippona che conobbe il santo vescovo di Ippona al tempo della terribile invasione dei Vandali, il quale narra vicende della sua vita, a noi quasi del tutto ignote. Pasqua del 1299”
Manoscritto di Prudenzio
In nessuno scritto, Agostino, né prima della conversione né dopo, ha chiamato per nome la donna con la quale convisse per quasi quindici anni e con la quale generò il figlio Adeodato. Agostino aveva appena diciotto anni quando a Cartagine fu preso dalla passione per Fausta, una giovane cristiana. Nella struttura sociale e liturgica della chiesa, la giovane apparteneva all’ordine delle Vergini consacrate, dopo le Vedove e le Diaconesse. Come vergine consacrata, la ragazza di ottime qualità umane e intellettuali, non poteva sposarsi legalmente e quando rimase incinta scoppiò un grande scandalo. I due convissero da concubini.
Qualche tempo dopo, Agostino lasciò Cartagine e si trasferì con Fausta e Adeodato a Tagaste. Avrebbe voluto entrare nella casa paterna, ma la madre Monica glielo impedì. Donna fortemente legata ai principi morali predicati dalla chiesa cristiana, non poteva approvare quella unione illegittima e peccaminosa. Angosciata, ma tenacemente fiduciosa che il figlio potesse ancora salvarsi, un giorno lo fece chiamare dal suo amico Alipio, figlio del ricco Romaniano che l’aveva aiutata a sostenere le spese per la permanenza a Cartagine, durante il corso di studi di Agostino.
Agostino andò a trovare la madre per la quale nutriva un grande affetto e rispetto.
-“Agostino, quando porrai fine alla tua vita sregolata e dissoluta? Io prego il Signore, giorno e notte, che ti tocchi il cuore, che aiuti la tua mente a riconoscere la Verità. Tu hai bevuto con il latte l’amore di Cristo, ma ancora non ti senti pronto ad abbracciare la religione cattolica. Io ho fiducia nella tua intelligenza; vedrai che dopo le tue abili lotte contro gli errori degli eretici, troverai la giusta strada!”
-“Madre, sono certo che ciò avverrà, ma ho ancora bisogno di tempo, di meditare, di parlare con persone più autorevoli di quelle che posso incontrare qui o a Cartagine. Forse è bene che io pensi a raggiungere Roma, dove sicuramente le mie doti di oratore potranno meglio essere apprezzate. Vedi, madre, io credo che la via della Verità, per me corra parallela a quella della mia carriera. A Roma potrò contare sulla amicizia del prefetto Simmaco e con il suo intervento, potrei anche arrivare a Milano, dove vive il vescovo Ambrogio che, mi dicono, ha un grande carisma presso la comunità cristiana e la corte imperiale”.
-“Ecco, Agostino, è proprio questa tua ascesa che mi sta a cuore. Come puoi fare questi sogni, ora che hai con te un figliolo e soprattutto una donna che non puoi legalmente sposare, una donna che, a quanto mi hanno riferito, non appartiene a una classe sociale che può accrescere la tua dignità!”
-“Madre, non dimenticare che la nostra famiglia è di provenienza modesta. Io ho potuto seguitare gli studi superiori a Cartagine solo grazie all’aiuto generoso di Romaniano”.
-“Sì, è vero quel che tu dici, ma ciò che conta è l’aspirazione a salire i gradini, quanti più numerosi possibili, della classe sociale; per questo dovevi mirare a sposare una ricca ragazza che ti avrebbe portato una buona dote”.
-“Madre, stai tranquilla. Vedrai che Adeodato e Fausta non saranno mai un ostacolo per la mia carriera”.
Dopo quel chiarimento, l’angelo del Signore, nella notte suggerì a Monica in sogno che per il momento era necessario assecondare la volontà del figlio. Fausta costituiva un freno efficace alla natura passionale di Agostino.
Fausta e Agostino furono dunque accolti benevolmente da Monica, ma non immaginavano che la tempesta di lì a qualche anno sarebbe scoppiata ancor più furiosa.
Monica soffrì molto quando un pomeriggio dell’estate del 383 fu ingannata da Agostino. Le aveva fatto credere che era venuto al porto per accompagnare un amico. E lei, nell’attesa, era entrata in chiesa a pregare. Quando uscì fuori, sul molo il figlio non c’era più: le dissero che Agostino, Fausta e Adeodato si erano imbarcati sulla trireme che ora veleggiava lontano, verso Roma.
Agostino e Fausta non ancora trentenni erano consapevoli di andare incontro a una nuova esistenza, a difficoltà che avrebbero potuto decimare le loro speranze, pure erano pieni di entusiasmo, di volontà di far valere l’intelligenza e la capacità della gente di etnia berbera alla quale appartenevano. Da parte sua, il ragazzo Adeodato, undicenne, si mostrava saggio e riflessivo.
La notte, sul ponte, mentre gli altri viaggiatori schiamazzavano e stramazzavano in un angolo, vinti dai fumi dell’alcol o altercavano e bestemmiavano giocando a dadi, Adeodato, supino accanto alla madre e al padre accovacciati su un tappeto, guardando il cielo stellato, faceva mille domande. Fausta rispondeva con semplicità, così come le avevano insegnato in chiesa e cioè che non solo quello lassù era opera del Creatore, ma anche quella immensa distesa di acque che la trireme solcava. E Agostino, intervenendo a sua volta, faceva notare a Adeodato che tutta quella bellezza, tutta quella immensità poteva entrare nella sua piccola mente col pensiero.
-“E’ vero, padre, diceva Adeodato, è una cosa mirabile: è come credere possibile far entrare in un secchiello tutta l’acqua del mare!”
Dopo un momento di silenzio, Adeodato continuò:
-“Padre, com’è che la nostra mente può accogliere tanta grandezza e tanta bellezza dell’universo e a volte è oppressa dal male, da pensieri oscuri di odio e di violenza?”
-“Nel mondo è presente sia il Bene che il Male. E se mi domandi che cosa è il Male e perché c’è il Male, ti rispondo che il Male non è soltanto ciò che vediamo con gli occhi e magari soffriamo sulla nostra carne, i terremoti, le inondazioni, le violenze fisiche, ma anche i sentimenti di odio che nutriamo dentro di noi, come hai detto tu, lo stesso desiderio di volere procurare agli altri sofferenze e dolori. Ho conosciuto un ragazzo che per puro gusto di infrangere la legge e far del male andava negli orti dei vicini a rubare pere e a distruggerle, strappandole dai rami. Ho bisogno di meditare ancora su questo mistero del Male. Non so se veramente ha ragione il mio amico Onorato, che mi dice cha a guidare il mondo ci sono due Esseri contrapposti, così che la colpa del male non è nostra, ma di un principio esterno che vuole il male”.
Infine il sonno vinse la vivacità del fanciullo Adeodato che non ascoltava più. Fausta sorrise, godendo di quella promessa di intelligenza e in cuor suo ringraziava Dio.
Albeggiava, in lontananza verso oriente il cielo si arrossava lentamente. Una leggera brezza soffiava e già i primi gabbiani volteggiavano sopra di loro. Fausta coprì il fanciullo addormentato con il mantello di Agostino. Questi, assorto nei suoi pensieri, accennando a un sorriso, si alzò e guardò lontano innanzi a sé verso l’orizzonte. Fausta lo raggiunse, con delicatezza sfiorò con la mano i suoi capelli e gli restò a fianco senza parlare.
Giunsero a Roma, dopo una breve sosta di qualche giorno a Ostia. La città non aveva più il fascino e lo splendore di un tempo, non era più nemmeno la capitale della metà occidentale dell’impero.
A Roma il prefetto Simmaco si sforzava di mantenere saldo il potere imperiale, ma spesso con poca fortuna. Gli episodi di protesta e di violenza si ripetevano con sempre maggiore frequenza, anche perché i rifornimenti alimentari erano sempre più scarsi, anzi proprio in quei giorni la città era afflitta dalla carestia. Quei pochi mesi trascorsi a Roma non furono quindi felici per Agostino, Fausta e Adeodato. Grazie alla raccomandazione del prefetto Simmaco, Agostino, dopo aver superato una grave malattia, ottenne la cattedra di retorica a Milano. Così con coraggio e speranza Agostino nell’autunno del 384 con la famiglia raggiunse Milano, dove si fece subito apprezzare pronunciando l’elogio dell’imperatore Valentiniano II, con grande soddisfazione della imperatrice madre reggente Giustina, di fede ariana.
Tre sono gli eventi importanti che in questo periodo influenzano profondamente la vita di Agostino: l’amicizia di Ambrogio, l’autorevole vescovo di Milano; l’arrivo a Milano di Monica e di altri parenti, tra i quali il fratello Navigio; la separazione da Fausta che viene ripudiata.
Agostino su costante sollecitudine della madre aveva cominciato ad ascoltare le prediche di Ambrogio, apprezzava la fine oratoria e la sincerità con la quale aderiva ai principi della religione cattolica, ai sentimenti di amore e premura che aveva verso tutti, specialmente verso i poveri.
Quando finalmente Agostino confidò alla madre che si sentiva pronto ad aderire alla fede cattolica, rifiutando tutti gli errori delle varie sette religiose, e a ricevere il battesimo, Monica pianse di gioia. Le sue preghiere infine avevano avuto ascolto. C’era un ultimo ostacolo che la turbava: Fausta.
Assenti Agostino e Adeodato, Monica parlò con Fausta: nessuna alterazione, nessun astio, nessun rimprovero. Sapeva che Agostino l’aveva amata con passione, l’amava tuttora, per cui non intendeva farle torto. Con semplicità, parlando anche con dolcezza e in certi momenti con le lacrime agli occhi, diceva:
-“Figlia, ti prego nel nome del Signore, cerca di comprendere qual è, in questo momento, il tuo ruolo. Hai assolto in modo egregio il compito di madre: Adeodato è cresciuto, è molto intelligente, a contatto con il padre potrà acquistare innumerevoli meriti e affermarsi nella vita. Agostino è a una svolta importante, ha deciso di farsi battezzare, il suo genio sarà dunque al servizio della santa chiesa cattolica. Sono sicura che il Signore ha in serbo per lui grandi cose”.
-“Madre, ho capito quel che vuoi dirmi. Pur amandolo con tutta la mia anima, sono convinta che è necessario che io mi allontani, perché la sua mente possa essere libera da preoccupazioni familiari. Da qualche tempo nelle mie preghiere sento una voce insistente che mi invita a servire il Signore in un monastero. Ho fiducia in te: nell’assistere Agostino, tuo figlio, ti prego, ricordati che c’è anche il mio Adeodato. E se, come spero, anche lui riceverà il battesimo, voglia Dio che Agostino dimentichi di chiamarlo figlio del peccato”.
E così dicendo, sentiva il suo cuore sanguinare. Per nulla al mondo avrebbe fatto trasparire all’esterno il suo dolore per l’orrore di essere ripudiata dal giovane che un giorno l’aveva strappata alla chiesa.
Quel giorno si abbracciarono e insieme piansero.
Venne il momento dell’addio. Fausta chiese ad Agostino il permesso di restare sola con Adeodato. Seduti in un angolo della stanza, Fausta godeva della vista del suo ragazzo di quattordici anni, che un po’ vergognoso alzava la testa ricolma di capelli corvini che gli scendevano fin sulle orecchie. La madre lo elogiava compiaciuta perché nell’ultimo trattato De beata vita, Agostino faceva riferimento alla grandezza della mente del giovinetto e lo aveva inserito tra gli interlocutori: puer ille minimus omnium (quel ragazzo, il più giovane di tutti loro). Lo incoraggiava a proseguire sulla strada della sapienza e della Verità. Poi lo tenne stretto tra le braccia. L’adolescente, timido e imbarazzato, si sciole dall’abbraccio e corse via dalla casa.
In strada attendeva già il carro sul quale era stato portato il modesto bagaglio di Fausta. Agostino l’accompagnò lungo le scale, sussurrandole parole che nessuno poteva udire; l’aiutò a salire sul carro e dette le ultime raccomandazioni al suo amico mercante che viaggiava con lei fino a Tagaste. Tornando nella sua terra, Fausta aveva accettato di consacrarsi a Dio, entrando in monastero.
Solo Agostino comprende il sacrificio di Fausta, la ritiene più forte e coraggiosa di lui e prova un grandissimo dolore per la separazione, come più tardi scriverà: E quando mi fu strappata dal fianco la donna con la quale ero solito andare a letto, dovettero togliermi via il pezzo di cuore che le era attaccato, e la ferita sanguinò molto.
Ora egli può ritirarsi a Cassiciaco, realizzando il sogno a lungo inseguito, sogno di solitudine, di vita in comune con pochi altri che come lui cercano la Verità. E’ lì, a Cassiciaco, che raggiunge la serenità ideale con letture in comune, con conferenze filosofiche, alle quali partecipano attivamente Adeodato, il fratello Navigio e gli amici Alipio, Evodio e altri. I temi favoriti sono la felicità, l’ordine e la perfezione del mondo, il problema del male, Dio e l’anima.
Nell’aprile del 387 Agostino riceve il battesimo insieme agli altri della piccola comunità.
Ora tutto è compiuto per Monica. Ritiene, in accordo con Agostino, che sia giunto il tempo di ritornare in Africa, ma si ammala e a Ostia, prima dell’imbarco, muore serenamente fra le braccia di Agostino, di Navigio e di Adeodato.
Adeodato, che ora Agostino chiamava figlio della grazia, brillava per la sua intelligenza. Sedicenne, aveva contribuito notevolmente alla stesura del trattato De magistro , dove è il personaggio che interloquisce con Agostino. A Tagaste già era conosciuto e tutti erano convinti che un altro formidabile personaggio presto sarebbe sceso in difesa della ortodossia.
Un giorno di fine estate del 390, Agostino con infinita tristezza sul volto annunciò agli amici che Adeodato era sparito. Da alcune settimane non tornava più a casa. Un frate che conosceva Agostino, passando da Tagaste, portò la ferale notizia della sua morte: diceva di averlo conosciuto e di aver visto il suo corpo martoriato e abbandonato in un campo, vittima della violenza dei donatisti che così volevano vendicarsi delle sconfitte patite ad opera di Agostino. Erano chiamati circumcellioni, scorrazzavano in quasi tutte le regioni d’Africa, armati di spade e bastoni arrecavano danni gravissimi e violenza con spargimento di sangue.
Tuttavia per amore della verità debbo confessare che non tutti credettero a questa storia. Io fui tra costoro. E ora posso tranquillamente ammettere di avere avuto ragione, come dimostra questa pergamena a me pervenuta da un lontano monastero, scritta da Adeodato. Insieme a questa, unisco le pergamene di tre lettere che Fausta indirizzò a Agostino e mai da lui ricevute.
Ora che si fa sera nella mia vita, ora che il mio corpo altro non è che un guscio tarlato, ho avuto lacrime per gli amici che non ci sono più, per il tempo che così in fretta è fuggito, ma sono sereno. Credo di avere assolto il mio compito con fedeltà; ho mantenuto nel silenzio fino alla sua morte e oltre, quel che Agostino non voleva rivelare o che ha rivelato con estrema parsimonia e discrezione. Non finirò mai di venerare la sua memoria. Fu il suo insegnamento a guidarmi alla Verità, ad acquistare la fede, rivestito di umiltà. Me felice che fra non molto chiuderò gli occhi, avendo nel cuore le sue parole, nella memoria la sua effigie!
Scritto a Cartagine da Prudenzio nell’anno XVI dalla morte di Agostino, vescovo di Ippona.
Confessione di Adeodato
Signore Gesù, questa sera illuminata dalle saette che aprono i tuoi cieli, fammi ricordare il volto della tua serva, mia madre Fausta, che scelse la cella del monastero per far brillare meglio il genio di mio padre, che con la spada della parola ha distrutto chi voleva immergerTi in fiumi di errori. Tu sai, o Signore, che non fu per superbia o peggio per invidia che io rifiutai di porre al tuo servizio quel dono della intelligenza che qualcuno già gridava che presto avrebbe oscurato quel che Agostino aveva innalzato attorno al tuo altare. Tu lo sai, o Signore, fu per eccesso di umiltà, non di orgoglio. Ritenevo giusto e sicuro tutto ciò che aveva scritto contro i tuoi nemici. Non potevo aggiungere altro se non il mio silenzio, se non l’offerta di una vita sconosciuta e umile, lontana dal clamore della folla, dalle interminabili dispute pubbliche.
Così mi mandasti nel cuore il desiderio di nascondermi, piuttosto che mandarmi la morte. Lasciai che tutti pensassero che all’improvviso qualche nemico avesse stroncato la mia vita dopo essere fuggito dalla città. Oh, come fu penoso per me pensare al dolore del padre che in maniera eccelsa mi aveva guidato sulla via della sapienza fino a quel momento. Oh, come l’angoscia divorò per giorni la mia vita al pensiero della madre dolorante che mai si stancava di intercedere per me. Rammento quel suo ultimo abbraccio che quasi mi soffocò; scesi giù a precipizio le scale e nascosto in un angolo diedi corso al mio pianto. Fu allora che cominciai a pensare di lasciare la casa.
Ricevuto il battesimo, rapidamente mi si aprì la strada della Verità, quella Verità che mio padre Agostino aveva lungamente cercato. Nei giorni di Cassiciaco, ascoltando mio padre e gli amici, io, il più giovane di tutti loro, interloquivo abilmente nei dibattiti e nelle decisioni, ricevendo molte lodi.
Rammento un giorno in cui si discuteva se fosse legittimo, in caso di pericolo, che i vescovi e i chierici abbandonassero le loro chiese per mettersi in salvo. Vi era chi sosteneva che era giusto andarsi a rifugiare in qualche luogo fortificato. Così facendo, osservavano altri, le chiese non avrebbero assicurato il servizio sacerdotale a coloro che fossero rimasti tra i pericoli. Altri ancora sostenevano che una metà potesse allontanarsi e salvarsi, l’altra metà avrebbe dovuto restare. Non c’era accordo. C’era il rischio che, passato il pericolo e una volta rientrati vescovi e chierici fuggitivi, avrebbero potuto essere considerati non più autorevoli ma riprovevoli, paurosi come pecore. Il dibattito durò a lungo, finché io mi spinsi a dire che la soluzione era molto semplice: sarebbe stata la sorte a decidere chi doveva restare e chi doveva tentare la fuga. In tal modo, nessuno avrebbe considerato pusillanimi quei vicari di Cristo al loro rientro, poiché il sorteggio non faceva venire meno la purezza della loro fede.
Mi accorsi ben presto che questa e altre simili circostanze mi inorgoglivano smisuratamente. Maturò in me l’idea che per servire con umiltà il Signore, non c’era affatto bisogno che imitassi mio padre, mettendo in campo le migliori qualità oratorie per i pubblici dibattiti e per i trattati di elevata sapienza teologica. Ritenevo che per me il Signore voleva un ritiro in una comunità di preghiera e di meditazione. Fui felice, pertanto, quando si cominciò a parlare di un ritorno nella nostra terra d’Africa, dove avrei potuto realizzare il mio desiderio.
Fuggii di notte da Tagaste, senza dire nulla né a mio padre, né ad altri. Con me c’era Graziano, il mio migliore amico, il quale aveva condiviso il segreto. Camminammo per giorni interi, allontanandoci sempre più dal mare e addentrandoci verso un territorio sempre più deserto e sconosciuto. E lì, in una grotta, ai piedi di una piccola collina, trovammo un rifugio adatto al nostro scopo di preghiera e di solitudine. Ogni due o tre giorni, per una pista vicina, passava una carovana di mercanti, sempre gli stessi, i quali impararono a conoscere la nostra scelta di vita e, sebbene non cristiani, furono con noi molto generosi, offrendoci acqua e un po’ di viveri.
La nostra vita solitaria intessuta di preghiera, di meditazione e di lettura della Bibbia, divenne nota ad altri fratelli cristiani che vollero unirsi a noi. Uno di loro possedeva a qualche miglio di distanza una casa che volle mettere a disposizione di tutti. E lì, in comunità, condividevamo tutto: cibo, preghiere e sofferenze.
Si avvicinavano tempi durissimi, molto dolorosi. Un carovaniere, un giorno, ci portò la notizia che Roma era caduta in mano ai barbari che la devastavano. Ma altre sventure terribili erano all’orizzonte. E già molti di noi pregavano Dio che ci risparmiasse la vecchiaia.
Presto giunsero i barbari anche nel nostro territorio, dilagarono per tutta la Mauritania con crudelissime violenze e devastazioni; non risparmiavano nessuno, né sesso, né età, né ministri di Dio, né monache. Il mio pensiero corse a mio padre Agostino, alla madre Fausta, ma non sapevo nulla se non che Ippona subiva un assedio da oltre dieci mesi. Tutto all’intorno erano saccheggi, incendi, torture, stragi. Nessun canto, nessun inno o lode a Dio si elevava nelle chiese. Quasi tutti i miei compagni, il mio caro amico Graziano, resero l’anima a Dio in mezzo alle torture. Solo io con pochi altri, per volere di Dio, scampai alla tristissima sorte.
Al mio fedele e giovane confratello che a lungo mi ha assistito durante la mia malattia, ora sul letto di morte, affido questo mio scritto, perché non si perda la memoria di così terribili avvenimenti, dai quali la misericordia del Signore presentemente ha voluto liberarci, provvedendo alla rinascita delle chiese.
Adeodato
Anno del Signore 435
Lettera prima: Fausta a Agostino
Mio Agostino, Milano era ancora immersa nel sonno quando mi lasciasti andare quella mattina scura e nebbiosa, affidandomi al tuo amico mercante per il lungo viaggio verso la nostra terra. Avevi gli occhi pieni di lacrime, sentivo la tua mano tremare mentre mi aiutavi a salire sul carro. Lo stesso calore, lo stesso fremito di allora, quando mi cingesti i fianchi la prima volta a Cartagine, quella sera di primavera nel giardino fiorito della mia casa. Mi avevi strappato alla schiera delle Vergini consacrate e non potevo accettare la tua promessa di matrimonio. Ma la passione vinse ogni ostacolo. Il mio Dio, la fedeltà reciproca, la mia devozione e fiducia nel tuo genio che si impegnava a ricercare la Verità e a combattere l’errore, mi confortavano, accrescevano le mie forze giovanili per dare ogni sostegno e serenità al frutto del nostro amore. E se anche tutti mi additavano per le vie della città come la concubina del maestro Agostino, non me ne curavo. Nulla mi importava se non il tuo amore. Così assecondavo il tuo straripante desiderio di emergere, di ottenere riconoscimenti per la tua sapienza, per la tua parola affascinante e convincente.
Quando tornavi a casa la sera e baciavi il piccolo Adeodato che festante ti correva incontro, tu gli parlavi dei tuoi successi, come se lui potesse comprendere già i tuoi stringenti ragionamenti filosofici. Forse non avevi torto, se penso come Adeodato oggi, ancora adolescente, dimostri le stesse tue capacità intellettive e anche maggiori, al punto che mi confidasti che avevi quasi soggezione perché la sua intelligenza ti faceva paura.
Ora, mio Agostino, siamo in vista della costa africana, dopo un viaggio durissimo e pericoloso, non c’è più spazio su questa pergamena concessami dal tuo amico mercante che mi accompagna.
Affido a lui questa lettera, affinché al suo ritorno possa consegnartela.
Non dimenticarmi, ricordati che io ti appartengo. Sta’ bene
Fausta
Lettera seconda: Fausta a Agostino
Mio Agostino, mi parlavi con dolcezza e per confortarmi mi dicevi che fra due o tre anni, ci saremmo ritrovati: io nel mio monastero e tu a disputare e a insegnare accompagnato ormai da una fama alle stelle.
Due o tre anni senza vedere i tuoi occhi, senza sentire la tua voce e il forte abbraccio tuo. Oh, dovevano essere brevi, come dovevano volare e invece come sono diventati eterni. Pur sotto lo stesso cielo ormai da tempo, pur aggirandoti tra gli stessi luoghi dove sai che trascino la mia vita, non osi venirmi a dare il tuo saluto. Perché?
Io non credo che il mio Dio, che ora è anche il tuo, desideri questo per la salvaguardia della tua castità.
Perché non dici a Adeodato di venirmi a trovare, almeno lui, il mio adorato figliuolo? Sono passati tanti anni. Come sono i suoi occhi e i capelli sono tutti neri e corvini come allora? Oh, quali grandi progressi avrà fatto la sua cultura!
Lo ricordo ancora quando sul ponte della nave, ti assaliva con tutte quelle domande! E tu ti impegnavi a rispondergli con dolcezza e pazienza. Era la nostra delizia, il nostro futuro!
A volte leggo nel volto duro di Perpetua, tua sorella, che dirige con autorità forse eccessiva questo monastero, la stessa freddezza e riluttanza che tua madre aveva verso di me. Altre volte il suo sguardo mi appare di pietà, come se volesse comunicarmi qualcosa di triste, una notizia dolorosa e non trova il coraggio di farlo. Una madre intuisce. E’ forse accaduta qualcosa di brutto al nostro Adeodato? Ti prego, per amore di Dio, non lasciarmi nel tormento.
Qualsiasi cosa la accetterò come volontà del Signore, ma non lasciarmi nel dubbio. Sta’ bene
Fausta
Lettera terza: Fausta a Agostino
Mio Agostino, ormai so che questa lettera come le altre non ti giungerà, ma io voglio illudermi che queste mie parole l’angelo del Signore le porterà ugualmente al tuo orecchio. Queste mura che pure mi escludono dal mondo, non mi hanno fatto dimenticare il nostro amore.
Ora so che la promessa che mi sussurrasti, prima di partire da Milano, di rivederci non potrà più avverarsi.
Mi è giunta voce che sei tornato a Tagaste, che vivi in comunità leggendo e insegnando, che il volere del popolo di Ippona ti ha chiamato al sacerdozio, che per tua iniziativa sorgono monasteri, ai quali hai dato regole di santità e che infine hai acconsentito a ricevere l’ordinazione a vescovo. Mio Agostino, il mio cuore trabocca di gioia a udire che hai definitivamente sconfitto i manichei e che lo stesso Fortunato, loro capo, se ne è fuggito dalla città pieno di vergogna senza più farvi ritorno. Ora continui la tua lotta contro i perversi e violenti donatisti, che perseguitano coloro che accettano l’unità della Chiesa. Temo per te, Agostino.
Tremo per il nostro Adeodato. Che cosa fa? Dov’è?
Mi giunge voce che non è con te, che nessuno da tempo lo ha più visto. E’ forse tornato a Roma? Anche là…quanti pericoli!
E’ morto? Sai almeno dov’è la sua tomba?
Da umile cristiana, nel nome del nostro amore, consentimi di dirti che il tuo atteggiamento nei confronti della donna è molto severo. Imponi una separazione tanto rigorosa, in ossequio alla quale, ti obblighi a non mettere piede in un monastero femminile e di conseguenza anche a nostro figlio. Questo è doloroso, non credo che il Signore possa accettare così gravi limitazioni. Forse è il tuo passato che ti ha indotto a proibizioni che nulla hanno a che fare con il dovere di castità. Hai escluso dalla tua vista non solo me, ma la stessa tua sorella che ora dirige questo monastero, le stesse figlie di tuo fratello consacrate a Dio.
Come può uno sposo non rivedere più la sua donna, anche se ormai anziana e chiusa in monastero? Come può un figlio, ormai uomo, non abbracciare una madre dedita alla preghiera e alla contemplazione in una comunità cristiana femminile?
Mio Agostino, non è affatto un rimprovero, il mio è soltanto un piccolo sfogo di una debole donna che alla luce fioca di una candela nelle notti solitarie di questa cella del monastero, spesso richiama alla memoria i luoghi e le ore felici trascorse accanto a te e al frutto del nostro amore.
Anche se la nostra unione non poté essere benedetta dalla chiesa, io non credo che siamo vissuti nel peccato, perché il nostro fu un vero amore e non soltanto desiderio sensuale. Dopo avermi ripudiata, io non ho più avuto da te alcun conforto né aiuto, ma non mi pento di nulla, mi basta ricordare la gioia di quel tempo, anche se priva dell’odore e del sapore di allora.
Sempre ti fui fedele e non ti contrariai, fino alla tua richiesta ultima che mi ha allontanato da te e dal mondo. Sta’ bene
Fausta