IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Il conte Carlo Camillo Di Rudio

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di Vincenzo Fiaschitello

Carlo Camillo Di Rudio

Le lunghe discussioni in casa del Maestro, con il quale condivideva la tristezza dell’esilio a Londra insieme a un nutrito numero di altri esuli, avevano convinto il conte Carlo Camillo Di Rudio a far propria quell’antica massima di Montaigne, secondo cui la vita è bella e apprezzabile quanto si vuole, in fondo quella che è, ma bisogna sempre essere pronti a rinunciarvi per un sogno. “Ora, ripeteva appunto Mazzini in quelle sere fredde e piovose con la sua voce calda e convincente, questo sogno per noi patrioti è quello della libertà del nostro popolo. Sognare di essere liberi dallo straniero che dilaga sulla nostra terra o comunque da un potere che non riconosce i diritti dell’uomo e del cittadino, è il più bello e il più ambizioso dei sogni che ciascuno di noi possa fare”.

Usciva da quella casa, ogni volta, rincuorato, forte di idee virtuose, di sentimenti di amore per la patria e di dolorosa invidia verso quei numerosi ignoti passanti londinesi che lo sfioravano camminando lungo i marciapiedi mentre tornava verso casa. A loro era risparmiata quella pena che porta in cuore l’esule. “Costoro, pensava, hanno la libertà, la pace, la sicurezza, un governo democratico scelto dai cittadini e non imposto da stranieri”.

Molto presto, da quando ragazzo girava per le vie di Belluno e lo chiamavano il “moretto” per i suoi occhi e capelli neri, si era sempre vantato di essere italiano, di appartenere a una famiglia di antica nobiltà di stirpe italiana e soffriva se qualcuno gli ricordava che, come tutti in quel territorio, era suddito dell’imperatore d’Austria. Ricordava con commozione che proprio per questa ragione a quindici anni quando iniziò a frequentare il collegio militare di San Luca a Milano, assieme al fratello Achille, fu protagonista di una rissa scoppiata a causa di certe espressioni offensive da parte di giovani favorevoli al dominio austriaco. In quella occasione i due fratelli sfiorarono l’espulsione dalla scuola. Ma l’anno successivo, nel 1848, quando tutta l’Europa fu scossa da moti rivoluzionari, di fatto lasciarono volontariamente il collegio per correre tra le barricate e il fuoco degli odiati soldati austriaci, che finalmente si ritiravano da Milano.

Purtroppo fu una gioia di breve durata, perché di lì a pochi giorni il generale Radetzky li riportò in città. E qui accadde un evento terribile che segnò per sempre la sua coscienza.

Avevano preferito restare a Milano in attesa di nuovi eventi che si annunciavano clamorosi sia a nord che a sud della penisola. Vivevano entrambi come clandestini. Avevano trovato alloggio presso una locanda poco fuori Porta Romana, una locanda modesta poco più che un capanno, ma molto ampio e circondato da siepi odorose e da due o tre pini che d’estate con la loro ombra invitavano i passanti a fermarsi per bere un bicchiere di buon vino o consumare un pasto. In cucina si affaccendava una vedova dall’aspetto giovanile e piuttosto robusta; ai tavoli serviva una ragazza di una quindicina di anni, graziosa, con lunghe trecce bionde che le scendevano sulle spalle, gentile e sorridente con tutti i clienti.

Per prudenza Carlo e il fratello Achille si erano accordati solo per avere un letto dove riposare la notte e comunque con l’obbligo di non presentarsi prima delle dieci di sera, perché prima di quell’ora non era raro che qualche soldato passando di lì per rientrare nella vicina caserma, si fermasse a bere un ultimo bicchiere. Per una ventina di giorni tutto andò liscio. I due giovani provarono anche un certo sollievo alla loro solitudine per la presenza di una certa aria familiare che vi si respirava. La ragazza non mancava mai di offrire qualche buon boccone, augurando la buona notte. E questo fu oggetto di un divertente dibattito fra i due, prima di addormentarsi, perché ciascuno sosteneva che Elvira (questo era il suo nome), si stava innamorando di lui, per cui si mostrava così benevola e generosa.

Una sera, tornando un po’ in anticipo sull’ora concordata, sentirono levarsi alte grida, rumori di sedie e tavoli rovesciati e infine due colpi secchi di moschetto. Un istante dopo videro allontanarsi in fretta quel soldato austriaco che tutte le sere si fermava alla locanda fino al momento della chiusura. Correndo e ansanti, appena entrati videro riversi sul pavimento in un fiume di sangue il corpo ormai senza vita di Elvira e accanto quello della madre. La donna respirava ancora e, chinandosi sul suo volto, Carlo sentì le ultime terribili parole che accusavano senza ombra di dubbio il soldato austriaco che avevano visto uscire. Sui corpi di quelle due sfortunate donne giurarono vendetta prima di lasciare Milano.

Ricostruendo la scena del doppio delitto non fu difficile capire che Elvira, che presentava le vesti stracciate, fosse stata uccisa per aver resistito alla violenza del soldato e che la madre avesse subito la stessa sorte per difenderla.

Per alcune sere percorsero in lungo e in largo il quartiere che di solito quel militare frequentava e finalmente una sera lo sorpresero solo, mentre si avviava verso la caserma, un po’ barcollante quasi sicuramente per aver bevuto abbondantemente. Con gesti e occhiate si intesero: l’uno gli restò alle spalle, l’altro aggirò una casa lungo il percorso e gli si parò dinanzi. Seguì una breve colluttazione e i tre rotolando, scalciando e gridando, si trovarono addosso a un muretto che frenò il loro impeto. A quel punto il militare riuscì a svincolarsi, a estrarre dalla tasca della giubba un lungo pugnale e minacciandoli e tenendoli a bada per un attimo, cercò di fuggire. Carlo prontamente con uno sgambetto e una spinta lo fece cadere. I due fratelli si aspettavano una nuova reazione, ma quello non si mosse. Quando provarono a metterlo supino, si accorsero che il suo pugnale gli aveva trafitto il cuore.

La notte stessa, prima ancora che iniziassero le indagini per appurare la verità intorno a quei tre cadaveri, Carlo e Achille si allontanarono da Milano e dopo un viaggio avventuroso si rifugiarono a Belluno nella casa paterna.

Ma per poco. Carlo era fatto per l’azione, non poteva restare quieto. Aveva avuto notizia che Pier Fortunato Calvi, figlio di un commissario di polizia, fedele funzionario alle dipendenze dell’Austria, dopo una brillante carriera militare nell’esercito austriaco, si era dimesso e, abbracciando le idee mazziniane, aveva partecipato ai moti rivoluzionari in Cadore. Carlo lo aveva raggiunto e subito dopo seguito per difendere Venezia.

Furono tutte azioni, esemplari per coraggio e per manifestazione concreta di affetto per la patria, ma decisamente sfortunate, durante le quali il fratello Achille fu ucciso dal colera. Il suo amico Pier Fortunato Calvi, mentre organizzava un secondo tentativo rivoluzionario in Cadore, fu scoperto e condannato a morte.

Fu un momento molto triste nella vita di Carlo. La sua famiglia, suo padre e sua sorella, furono incarcerati e portati a Mantova. La polizia austriaca dava una caccia spietata al pericoloso e giovane ribelle, il conte Carlo Camillo Di Rudio. Ma nonostante le ricerche incessanti, Carlo riuscì a sfuggire e a tentare di raggiungere Roma, dove Mazzini era intervenuto a sostegno della Repubblica Romana, dopo la fuga del papa a Gaeta sotto la protezione dei Borbone.

Carlo non aveva ancora neanche venti anni, ma sentiva ormai di aver fatto la sua scelta di vita: essere pronto al sacrificio estremo pur di avere la patria unita e libera. Questo scopo era sempre presente nei momenti più difficili della sua fuga verso il sud. Nulla poteva ostacolare il suo progetto, aveva visto morire tanti coraggiosi sulle barricate di Milano e di Venezia sotto il piombo degli austriaci, aveva visto il fratello spegnersi a causa degli stenti e del colera che decimava i combattenti e la popolazione: tutto ciò, anziché scoraggiarlo, gli dava forza per vincere la stanchezza e la fame.

Aveva scelto per prudenza le strade più impervie, i sentieri di montagna, per i quali sperava di non incontrare pattuglie di soldati. Ogni tanto, quando incontrava un gruppo di case, qualche fattoria, osava fermarsi e con il poco denaro che ancora gli restava, acquistava quel po’ di pane, quel po’ di formaggio, un uovo, che lo aiutavano a ristorare il corpo. Spesso era costretto a chiedere a qualche pastore la direzione giusta per raggiungere Roma e per non insospettirlo, diceva che andava a trovare un suo vecchio zio canonico in San Pietro, perché anch’egli aveva deciso di farsi prete.

Dall’alto di una collinetta, un mattino finalmente vide uno spettacolo meraviglioso: la città di Roma illuminata magicamente dai primi raggi di sole. La sera precedente, con le gambe e i piedi doloranti, nella oscurità non si era accorto di nulla, si era buttato su un mucchio di foglie secche sotto un albero di castagno e aveva dormito profondamente tutta la notte.

In pochi minuti raggiunse una strada diritta e polverosa e riprese a camminare. Quando dopo un po’ si girò per vedere quanta strada aveva percorso, si accorse che si avvicinava il carro di un contadino. Decise di sedersi su un muretto ad aspettare. Man mano che il carro si avvicinava, sentiva sempre più distintamente la voce di quell’uomo che cantava una canzone. L’aspetto tranquillo e bonario del contadino lo rassicurò.

-“Ehi, ragazzo, aspetti qualcuno? Da dove vieni?”

-“Cammino da parecchi giorni e vorrei raggiungere Roma”.

-“La strada è ancora lunga, anche se la città si vede da lontano. Su, salta qui accanto. La mula è forte e certamente non si lamenterà per il nuovo peso”.

-“Grazie, fratello italiano!”

-“Italiano? Ma io so de Roma ! Ho sempre saputo che appartengo al papa. A proposito, hai sentito che quel povero vecchio, dopo che gliene hanno fatto tante, alla fine è dovuto andarsene. E’ scappato a Gaeta. E ora i napoletani non solo hanno il Vesuvio, ma pure il papa! Ma che stupido, parlo di cose che certo non ti interessano. Facciamo così, siccome mi è venuta fame, fermiamoci e mangiamo qualcosa. Ti vedo così pallido e stanco!”

Così dicendo, senza aspettare risposta, tirò le redini e si fermò al lato della strada all’ombra di una quercia e da un cesto di vimini estrasse una pagnotta di pane. Tagliò due fette e in mezzo sistemò due grosse salsicce arrostite. Le offrì al giovane che quasi sveniva per il profumo che saliva alle sue narici. E lo stesso fece per sé.

Poi riprese la conversazione.

-“Vedi, amico, non  c’è niente di meglio nella vita che rispondere subito ai richiami dello stomaco. Io ho un padrone che mi fa lavorare le sue terre, sto alle sue dipendenze, eseguo senza discutere i suoi ordini, mi ricompensa in modo tale che posso mantenere la mia famiglia. Che altro posso sperare di più? Tu mi hai chiamato fratello italiano, ma se come papalino sto bene, perché debbo rischiare di finire nelle mani di Mastro Titta o di prendermi in testa una palla di fucile? Sono d’accordo con quel che diceva mio nonno: Francia o Spagna, basta che si magna!

A quel punto, Carlo che aveva seguito parola per parola il discorso del contadino con crescente disgusto, posò il pane imbottito di salsiccia sulle ginocchia dell’uomo, divenuto d’un tratto un’ombra fastidiosa, e disse: “Non ho più fame, vado a piedi!”

Rimuginando ancora le parole del contadino riprese il cammino e dopo un paio di ore cominciò a vedere le prime rovine antiche della città, i campanili e le cupole delle numerose chiese, tra le quali riconobbe subito quella di San Pietro. Si fermò alla prima osteria, dove per pochi soldi si fece servire una minestra e ascoltò quel che raccontavano due vecchietti alla padrona dell’osteria. Avevano sentito dire da un giovane che abitava lì vicino che il comandante Garibaldi e i suoi volontari si erano portati nei pressi di Porta Cavalleggeri e che la città era assediata dalle truppe francesi. La resistenza era accanita, ma l’imponente artiglieria francese piazzata attorno alla villa poco fuori delle Mura Gianicolensi, mieteva numerose vittime.

Carlo domandò quale fosse la direzione giusta per raggiungere la legione dei garibaldini e dei volontari che erano accorsi per la difesa della città.

Il giovane fu accolto tra i volontari romani con l’incarico di aiutare alcuni feriti.

In quei giorni assistette a continue avanzate e ritirate, a lotte feroci corpo a corpo, ad atti di eroismo che lo confermarono nella sua volontà di partecipare alla lotta e a non avere paura di sacrificare la propria vita. Nei due successivi giorni, impadronitosi di un fucile che era in mano a un giovane combattente colpito a morte da una scheggia, lottò con grande coraggio e abilità, tanto che a sera ricevette un elogio dallo stesso Garibaldi.

In un momento di tregua, subito dopo il tramonto, dall’una e dall’altra parte degli eserciti si procedeva alla raccolta dei cadaveri e a curare presso le infermerie improvvisate i feriti.

Durante quelle operazioni, una sera qualcuno disse che era arrivata dopo un terribile viaggio da Nizza, Anita, la moglie del generale. Questi, sorpreso e visibilmente preoccupato, la presentò ai suoi ufficiali, dicendo un po’ scherzando e un po’ seriamente: “Ecco, abbiamo un’altra combattente in più nelle nostre file!”

Ma in realtà Anita, che vestiva come un uomo, appariva incinta e febbricitante, forse a causa della malaria contratta lungo il viaggio.

Girava fra i garibaldini la voce di forti contrasti tra il generale e Mazzini, il più autorevole componente del triunvirato che aveva dato vita alla costituzione della Repubblica Romana. Garibaldi era conosciuto oltre che come uomo generoso, anche come uomo dal carattere impetuoso e irruente. In più di una occasione era riuscito a fronteggiare bene le truppe francesi e avrebbe voluto anche continuare l’azione respingendole e inseguendole. Mazzini, da parte sua, sperava invece soprattutto su un possibile accordo diplomatico con Napoleone III, per cui doveva evitare eventuali umiliazioni ai francesi. Queste diversità di vedute, certamente influirono negativamente sulla difesa della città. Quando Porta San Pancrazio divenne indifendibile, si capì che ormai i francesi avrebbero avuto via libera. Tra i volontari garibaldini si contavano già più di ottocento caduti. Carlo aveva visto morire il colonnello dei bersaglieri Luciano Manara, poco più che ventenne, e tanti altri valorosi, fra cui anche Andre Aguyar, un nero fedelissimo che aveva voluto seguire in Italia Garibaldi e Anita. Molti feriti erano stati portati in un vicino convento di cappuccini. Lì Carlo, anch’egli lievemente ferito ed esausto, aveva conosciuto un frate che aveva per tutti una parola di conforto e di incoraggiamento.

Fra’ Michele proveniva dal Trentino ed era arrivato a Roma una ventina di anni prima. Carlo entrò in confidenza col buon frate, ritenendolo quasi un suo compaesano e la sera nei rari momenti di riposo gli faceva molte domande sulla religione, sul papa, sul governo della Chiesa, sui cardinali, e dalle risposte che ascoltava si era fatta l’idea di un frate colto, piuttosto liberale, premuroso nei confronti dei poveri e dei bisognosi, fortemente critico dei comportamenti degli appartenenti all’alto clero. Diceva che in fondo la Chiesa, i prelati e i cardinali avevano l’interesse a tenere il popolo nell’ignoranza per poterlo continuare a sfruttare. Analfabetismo, povertà, malattie, dilagavano e si accompagnavano a delitti, a tradimenti, a superstizioni. La religione era semplicemente degradata a strumento per tenere a freno le passioni. In questa ottica erano rare le figure di religiosi che si impegnavano con tutte le loro forze per elevare il popolo. Cosa questa avversata con tenacia da nobili e clero. E fra’ Michele ricordava un esempio di appena alcuni anni prima, quando il padre gesuita Curci, con il quale concordava lo stesso padre di Giacomo Leopardi, il conte Monaldo, criticava un giovane prete Ferrante Aporti che, preoccupandosi dell’educazione dei figli dei poveri, aveva ideato gli asili infantili. “Ma dove si arriverà, dicevano i cosiddetti benpensanti, se anche i figli dei contadini, dei braccianti, impareranno a leggere e a scrivere?”

E’ probabile che fu in quelle circostanze che si diffuse il famoso detto: “Non far sapere al contadino quanto è buono il formaggio con le pere!”

Carlo ascoltava con vero interesse quei ragionamenti del frate e approvava senza riserva alcuna.

Infine venne il giorno della partenza da Roma. Garibaldi, radunati i pochi volontari nella piazza di San Giovanni, iniziò la fuga verso Venezia. Perduta la moglie e braccato dagli Austriaci, con pochi fedelissimi, riuscì a imbarcarsi per l’America.

Simile sorte toccò anche a Carlo, il quale scelse Parigi come luogo del suo esilio. Qui si accese ancora di più il suo furore contro Napoleone, furore che condivise con buona parte degli intellettuali, fra i quali Victor Hugo e il partito dei giacobini. I francesi lo odiavano perché Napoleone ambiva a governare più che da presidente di una repubblica, da imperatore (così avvenne infatti dopo quattro anni di presidenza mediante un colpo di stato). Carlo di Rudio lo disprezzava perché aveva rinnegato il suo passato di carbonaro, di cittadino amante della libertà e della costituzione, cui hanno diritto tutti i popoli e perché lo riteneva responsabile della caduta della Repubblica Romana.

Furono anni difficili quelli fra il 1851 e il 1857. Era in contatto con tanti esuli come lui fuggiti dall’Italia, frequentava i circoli giacobini e spesso la polizia lo aveva fermato per le vie di Parigi, tenendolo sempre sotto pressione. Aveva conosciuto un personaggio, un certo Simone François Bernard, di professione chirurgo, che si dichiarava acerrimo nemico dell’imperatore, per cui viveva con il terrore di essere arrestato da un momento all’altro. Progettò, pertanto, di lasciare Parigi e di imbarcarsi per gli Stati Uniti d’America. Purtroppo la nave sulla quale si era imbarcato fece naufragio vicino alla costa spagnola. Si vide quindi costretto a cambiare il suo progetto e a raggiungere Londra, dopo un lungo peregrinare per l’Europa.

A Londra, appunto, Carlo ebbe l’opportunità di frequentare la casa di Giuseppe Mazzini, che per vivere impartiva lezioni di lingua italiana a giovani inglesi, desiderosi di conoscere la nostra lingua. Fu proprio a casa di Mazzini che conobbe una bella ragazza inglese di quindici anni, Eliza Booth, con la quale al termine delle lezioni usciva volentieri. Durante le lunghe passeggiate, Carlo parlava della sua famiglia, delle sue origini nobili, della sfortunata condizione in cui si trovava la sua terra sotto il dominio austriaco, della volontà di riscatto che lo aveva spinto alla lotta armata a Milano, a Venezia e infine a Roma. La ragazza lo ascoltava ammirata e commossa, e quasi lo venerava come un eroe. Presso la sua gente i nomi di Mazzini, di Garibaldi, erano ben conosciuti tanto che la monarchia e l’opinione pubblica si dimostravano favorevoli alla causa della nascita di uno stato unitario italiano, proteggendo gli esuli e aiutandoli spesso con elargizioni e collette.

Nacque l’amore fra i due e nonostante la forte differenza di età, Carlo riuscì ad avere il consenso dei genitori di Eliza e la sposò.

Per qualche anno domò il suo animo inquieto, dedicandosi alla famiglia e svolgendo piccoli lavori manuali procuratigli da filantropi amici di Mazzini.

Un giorno ricevette la visita di Felice Orsini, il famoso patriota italiano che come avvocato aveva dato un notevole contributo all’abbozzo di una carta costituzionale della Repubblica Romana. Carlo lo aveva conosciuto in casa di Mazzini, durante i frequenti incontri che si tenevano tra gli esuli italiani.

Quella mattina Felice Orsini, scuro in volto, gli confidò che da qualche tempo non si intendeva più come prima con il Maestro. Si era creato tra loro due una vera frattura, una diversità di vedute circa le azioni da intraprendere per raggiungere l’obiettivo tanto agognato dell’Unità d’Italia.

-“Io so, disse Orsini, che tu hai vissuto a Parigi dopo l’esperienza della difesa di Roma e hai conosciuto molti amici giacobini. Mi ha parlato di te un mio carissimo compagno, il chirurgo Simon François  Bernard, molto amico di Victor Hugo. In attesa di poterlo incontrare, mi piacerebbe condividere con te alcune mie idee”.

-“Certo per me è una vera gioia. Questa vita ritirata mi è venuta a noia, per non parlare dei problemi economici che mi angustiano continuamente. Perciò vieni quando vuoi. La mia modestissima casa è sempre aperta per te”.

Si salutarono, dunque, con il proposito di continuare presto la loro conversazione.

Nel corso di quegli incontri, Orsini si informò sulla vita e sulle azioni patriottiche del conte Carlo. Di tanto in tanto, mentre lo ascoltava approvando e ammirando il suo coraggio, non mancava di sorridere.

Un po’ turbato, Carlo si interrompeva non sapendo come interpretare quel sorriso. “Ma su continua, diceva Orsini, mi interessa molto quello di cui parli. Quando comincerò a parlare di me, capirai la ragione del mio sorriso”.

Infatti nei giorni seguenti, Carlo man mano che Felice Orsini gli apriva il cuore, si rendeva conto che c’erano molte affinità nella loro vita, pur nella notevole differenza di età.

Anche nella vita del giovane Orsini c’era un omicidio. Si diceva che avesse ucciso un cuoco della sua famiglia, perché quello lo controllava nelle sue avventure amorose, per incarico del padre. Felice si difese, sostenendo che era stata una disgrazia. In realtà si salvò dal carcere grazie all’intervento del ricco e influente zio Orso Orsini, il quale riuscì a convincere il vescovo di Imola Mastai Ferretti (il futuro papa Pio IX), suo intimo amico.

-“Vedi, Eccellenza, Felice è, sì, un giovane scapestrato, amante della vita allegra, ma sincero e spontaneo. Se mi ha detto che il colpo di quella disgraziata rivoltella è partito accidentalmente, mentre con vivacità e vanteria mostrava di essere abile nel servirsene, bisogna credergli. Sono certo che mi ha detto la verità, per cui ti prego di intervenire presso i giudici perché siano clementi e disposti ad accettare la sua buona intenzione di chiudere con questo suo passato e di voler entrare in seminario. Ti ricordo inoltre che il padre Giacomo Andrea, mio fratello, già ufficiale al seguito di Napoleone Bonaparte nella campagna di Russia, svolge ora segretamente un compito molto importante a favore della Chiesa, come collaboratore e confidente della polizia pontificia”.

Orsini, dopo essersi liberato anche dall’incubo del seminario, ebbe la possibilità di concludere i suoi studi, di laurearsi e di dedicarsi alla professione di avvocato.

-“Ma come sai, gli eventi della nostra patria non consentivano né a me, né a tanti altri di restare inattivi. Ho partecipato ai moti di Romagna del 1843, sono stato promotore di una società segreta, ho combattuto nella guerra del 1848 e poi i miei amici di Forlì mi hanno voluto deputato della assemblea costituente della Repubblica Romana”.

Carlo seguiva con attenzione quegli episodi di vita intensa e generosa che raccontava Orsini. Ogni tanto lo interrompeva per domandargli qualcosa: ora il nome di un personaggio, ora un luogo. E, entusiasta, lo incoraggiava a continuare. Seppe così degli ultimi avvenimenti che lo avevano portato a Londra e degli screzi con Mazzini. Diceva che l’amicizia con Mazzini durava da tanto tempo. In lui aveva sempre riposto una grande fiducia. Voleva che con azioni esemplari, non isolate, ma coinvolgenti il popolo, si riuscisse a spingerlo alla insurrezione.

-“Nel 1853 risposi al suo invito a organizzare un movimento insurrezionale in Lunigiana. Io partii da Nizza, dove mi ero stabilito con la mia famiglia, e seguii le direttive che mi erano state trasmesse. Avrai forse saputo del fallimento dell’impresa, ancor prima di cominciare. Fui, quindi, costretto a lasciare la famiglia a Nizza e a trasferirmi qui, a Londra. Purtroppo anche l’anno seguente due altri tentativi di insurrezione, preparati da Mazzini e da me accettati con il solito entusiasmo, fallirono miseramente. Quella volta fui catturato dalla polizia austriaca e rinchiuso nel castello di San Giorgio a Mantova”.

Orsini si fermò pensieroso e triste. Mi indicò una panchina lì vicino e mi invitò a sedermi. Dopo un po’ riprese a parlare:

“Ora capisci perché non ho più fiducia nelle iniziative di Mazzini. Sono invece convinto che bisogna intraprendere una strada diversa”. E tutto a un tratto scoppiò in una risata. Non riusciva a capire come potesse da un momento all’altro cambiare umore. Poiché lo guardava con aria interrogativa, aggiunse: “Stai tranquillo, non sono ancora del tutto pazzo. E’ che all’improvviso mi è venuto in mente il brutto scherzo che io e la mia amica Emma Siegmund abbiamo giocato al generale Radetzky”.

Nemmeno Carlo poté trattenere una risata liberatoria non appena l’amico terminò di raccontare la sua avventura. Il compiacimento nasceva soprattutto dal fatto che Mantova era ritenuta un luogo di massima sicurezza, dal momento che faceva parte del famoso quadrilatero. Quindi si trattò veramente di uno scacco formidabile inflitto alla superbia e alla  alterigia austriaca.

Carlo sentiva crescere dentro di sé la stima e la simpatia nei confronti di Orsini. Tra la famiglia Orsini e quella degli Herwegh c’erano stati sempre rapporti di amicizia, che si consolidarono ancora di più quando la bella e intelligente Emma Siegmund, appartenente a una famiglia molto ricca legata al re di Prussia, sposò il poeta Georg Herwegh, di sentimenti democratici e rivoluzionari.

Orsini, per mezzo di alcune lettere dal carcere, dava apertamente notizie banali sulla sua situazione e in altra parte del foglio, scrivendo con inchiostro simpatico, chiedeva il loro aiuto perché lo facessero fuggire dal castello di Mantova. Nel giro di pochi mesi, l’intesa fu così perfetta che Emma Siegmund gli fece pervenire un po’ alla volta: lime nascoste tra i libri, narcotico chiuso dentro i bottoni di un cappotto, denaro sufficiente per corrompere i carcerieri. Infine si accordarono sul giorno della fuga.

Una notte Emma con una carrozza, guidata da un uomo fidato, attendeva sotto le mura del castello. Orsini si calò con una lunga corda di lenzuoli intrecciati, ma a un paio di metri dal suolo, scivolò e cadde a terra. Il postiglione, subito accorso, se lo caricò sulle spalle e lo infilò dentro la carrozza e partì immediatamente. Ma non era finita. Dopo una decina di ore di corsa nella notte, ecco l’imprevisto. Nei pressi di Cremona si ruppe il timone della carrozza, proprio accanto a un posto di polizia austriaca. Con incredibile sangue freddo, la bella Emma scese dalla carrozza e presentandosi con un falso passaporto chiese ai gendarmi di aiutarla. Non sospettando nulla e ammaliati dalla bellezza della donna, i gendarmi sostituirono il timone rotto con uno nuovo prelevato dal loro magazzino. La donna li ricompensò con una forte somma di denaro e finalmente poté portare al sicuro il suo amico fino a Genova, dove si imbarcò per l’Inghilterra.

Da quando Carlo si era legato di amicizia con Felice Orsini, frequentava sempre meno il Maestro. Un giorno Orsini si presentò a casa di Carlo insieme al vecchio amico conosciuto a Parigi: Simon François Bernard. Costui si era rifugiato a Londra per sfuggire alla polizia francese, perché era riconosciuto ormai come un pericoloso cospiratore. In breve, Bernard espose ai due il suo progetto, senza alcuna precauzione, né timore.

-“A Parigi vive, come sapete, un personaggio che ha ucciso la democrazia, si è impossessato del potere senza farsi scrupolo della legalità, elargendo incarichi e onori a tutti gli amici che lo sostengono. E’ per questa ragione che la maggior parte degli intellettuali francesi lo avversa e non lo tollera. A Parigi vive un personaggio che, come voi italiani sapete, ha tradito gli ideali della carboneria che prima condivideva, ha fatto fallire i vostri moti rivoluzionari, ha affossato nel sangue una Repubblica democratica in favore di un governo conservatore e illiberale qual è quello del papa. Questo personaggio lo conosciamo tutti, si chiama Napoleone III. Tanti, dunque, sono i motivi che ci uniscono per odiarlo. Io dico: Uniamo i nostri sforzi senza indugiare ancora. Non c’è altra strada se non quella di eliminarlo”.

Carlo si azzardò ad aggiungere: “Pensate dunque a un attentato? “

-“Sì, certo, fu la pronta risposta di Orsini, ne abbiamo già parlato da qualche giorno. Ma come tu ricorderai nel maggio di tre anni fa, Giovanni Pianori provò a ucciderlo con la sua pistola, ma lo mancò. Dobbiamo perciò evitare l’improvvisazione. Occorre studiare bene un piano e soprattutto munirsi di armi adeguate. Il povero Pianori lasciò la testa inutilmente sotto la ghigliottina; noi dobbiamo arrivare allo scopo”.

-“Avete già qualche idea? domandò Carlo.

-“Sì, abbiamo pensato di agire durante uno dei suoi spostamenti in carrozza, possibilmente di sera, magari anche con la sua consorte”, aggiunse Orsini.

-“Ma questo comporta un rischio maggiore, osservò Carlo; bisogna necessariamente avvicinarsi alla carrozza, aprire lo sportello e provare a colpirlo!”

-“Con le armi che propongo io, non è indispensabile. Ascoltatemi bene: preparerò delle bombe, almeno cinque. Quindi escludendo Bernard che a Parigi non può tornare perché è troppo conosciuto, ci sarà bisogno di almeno altri due uomini”.

-“Ma funzioneranno queste bombe?” fece Carlo.

-“Fidatevi. Si tratta di ordigni rudimentali con chiodi e pezzi di ferro che appena esplodono feriscono mortalmente. Sono stato a scuola di un sacerdote di idee mazziniane, che si è a lungo esercitato in attesa di partecipare a una insurrezione, il canonico Carlo Chiocca di Sarzana. Con queste bombe sono sicuro che potremo vincere la probabile resistenza della carrozza dell’imperatore. Il nostro compagno Bernard mi ha riferito che i suoi amici di Parigi lo hanno informato che il commissario di polizia incaricato del servizio di protezione di Napoleone ha proposto e ottenuto di far blindare con lastre metalliche le pareti della carrozza. Gli amici gli hanno confermato che effettivamente un fabbro ha completato il lavoro con perizia alcuni giorni fa. Per gli altri due uomini che ci serviranno per l’impresa, li recluteremo tra i nostri numerosi patrioti che si trovano già in Francia. Bernard farà da collegamento tra noi e gli amici giacobini, i quali mi procureranno un alloggio tranquillo in periferia dove potrò con sicurezza preparare gli ordigni e poi quattro diverse locande, nelle vicinanze del luogo dell’attentato.”

Carlo approvò il piano di Felice Orsini e si accordò con lui per raggiungere Parigi durante le feste di natale.

I due patrioti italiani scelti da Orsini erano Giovanni Andrea Pieri e Antonio Gomez. Il primo era di Lucca, un cinquantenne che Orsini aveva già conosciuto a Londra. Era un tipo chiuso, molto riservato; aveva militato nella Legione straniera francese e in seguito aveva partecipato alla prima guerra di indipendenza del 1848. Fuggito in Francia era stato coinvolto in una truffa, condannato e espulso, per cui si era rifugiato a Londra, ma clandestinamente dimorava spesso in Francia.

L’altro patriota, Antonio Gomez, era un napoletano, poco più che ventenne, ma con esperienza militare perché si era arruolato nella Legione straniera francese. In seguito aveva lavorato come cameriere su un piroscafo, ma accusato di furto, era stato costretto a emigrare in Inghilterra.

Per il 14 gennaio 1858 il teatro dell’Opéra national de Paris, Salle Le Peletier, annunciava la prima della stagione, il Guglielmo Tell di Rossini, alla presenza dell’imperatore Napoleone III e dell’imperatrice. Orsini e Carlo Di Rudio si sentirono pronti ad agire.

L’appuntamento, dunque, era in rue Le Peletier alle otto e trenta di sera, a pochi metri dall’ingresso.

Il giorno precedente, gli amici di Bernard indicarono le quattro locande nei pressi del teatro, dove i quattro attentatori avrebbero dovuto alloggiare. A ciascuno Orsini diede le ultime istruzioni e consegnò un piccolo pacco dall’apparenza innocua.

La locanda che ospitava Giovanni Andrea Pieri era gestita da una giovane vedova, Corinne, madre di un bambino di circa sette anni, biondo e riccioluto, vivacissimo e di una bambina di circa tre anni. Pieri era l’unico cliente della locanda; i piccoli, sebbene fosse arrivato da appena un giorno, gli stavano continuamente appresso. Inutilmente la madre li sgridava, dicendo di lasciare in pace monsieur Pieri, l’italien. All’ora di cena vollero sedere al tavolo accanto a lui: “Puoi raccontarci una fiaba? A me e alla mia sorellina piacciono tanto le fiabe. Raccontaci una fiaba, sì, raccontaci una fiaba!”

Pieri era veramente confuso. Il pensiero della sera successiva gli toglieva ogni barlume di serenità. Si figurava l’arrivo della carrozza, gli applausi della gente e subito dopo udiva i terribili frastuoni delle bombe, le grida dei feriti, vedeva il fumo, la gente impazzita che si allontanava correndo, calpestando i feriti, il sangue dappertutto. Pieri, tuttavia dinanzi alla spontaneità e affettività dei bambini, si lasciò trasportare, frugò nella sua mente per trovare una storia. Si ricordò che prima di fuggire dall’Italia, aveva letto su un giornalino per ragazzi una storia dello scrittore danese Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore”. Così cominciò a raccontarla: “C’era una volta un imperatore che amava così tanto la moda da spendere tutto il suo denaro soltanto per comprare vestiti nuovi…”

Il giorno dopo, Pieri dopo il riposo notturno scese al piano terra un po’ più tranquillo della sera precedente. Rispose con un sorriso al saluto festoso dei bambini, consumò una piccola colazione e ritorno in camera sua a leggere e a fumare un sigaro, aspirando lentamente il fumo come se succhiasse i suoi sogni perduti nel tempo lontano della giovinezza. Controllò ancora una volta il pacchetto che gli aveva consegnato Orsini e, constatato che tutto stava come prima, lo ripose con delicatezza nello stesso nascondiglio del vecchio armadio, scelto il giorno precedente. Poi si distese sul letto. A un tratto sentì provenire dalla via sottostante alte grida di gente, il rumore di ruote di un carro e di zoccoli di un cavallo che correva furiosamente. Scese giù in fretta e una scena terribile gli si presentò. Il bimbo, biondo e riccioluto, della padrona della locanda giaceva immobile in mezzo alla strada in una pozza di sangue. La donna, attorniata da numerosi passanti che cercavano di allontanarla, china sul suo bambino, gridava e si strappava i capelli. La bambina più piccola guardava terrorizzata ferma sull’uscio della locanda. Due gendarmi che si trovavano a passare nelle vicinanze avevano bloccato il cavallo imbizzarrito; si avvicinarono sul luogo della tragedia e visto che per il bambino non c’era più nulla da fare, ordinarono alla folla di allontanarsi. Poi diedero soccorso alla donna.

Poco dopo intervenne una squadra di poliziotti che interrogarono i presenti, tra i quali anche Pieri, che prudentemente stava ritirandosi dentro la locanda.

Faceva notte quando Carlo lasciò la locanda dove si era sistemato sin dal giorno precedente. Non doveva percorrere tanta strada, perché l’alberghetto si trovava ad appena quattro o cinque isolati da rue Le Peletier. Agli angoli delle vie i lampionai avevano già acceso gli alti lampioni a gas. Faceva notte a Parigi e anche freddo. D’un tratto, mentre camminava portando con disinvoltura una borsa di pelle nera un po’ sgualcita dove aveva riposto l’ordigno di Orsini, gli vennero in mente i monti innevati della sua terra, le vie deserte e buie della sua città a quell’ora. Brandelli di realtà gli risalivano al cervello come dal fondo di un pozzo oscuro. Ebbe la sensazione che qualcuno lo seguisse. Si girò di scatto spaventato:-“Ehi Carlo, che porti dentro quella tua borsa? Hai forse rubato tu la zucca nell’orto della vecchia Giulia?”

Era proprio la voce ironica di un suo vecchio compagno burlone del collegio militare di Milano. Ma non c’era nessuno attorno. Se l’era immaginata: un sogno, un sogno caduto là in mezzo a una realtà che si annunciava fortemente tragica. Ma lui non era un codardo. E per rinsaldare il suo animo, si obbligò a pensare alla giusta vendetta delle tante colpe di cui quell’uomo si era macchiato. Come dimenticare le spoliazioni e i furti napoleonici? i danni incalcolabili al patrimonio culturale di Venezia, delle chiese, dei monasteri di piccole e grandi città degli stati italiani? la razzia di codici, di incunaboli, di manoscritti? gli arredi, le statue, i reliquiari d’oro e d’argento fusi per pagare le truppe? Quel suo zio, infame ladro d’arte venuto in Italia su precisa volontà del Direttorio, aveva trafugato innumerevoli opere d’arte per incrementare i vuoti spazi dei musei parigini. “Dove dormiranno a quest’ora, si chiedeva Carlo, la Venere Capitolina, il Laocoonte, i marmi del Canova? Dove saranno i quadri del Mantegna, di Tiziano, di Guido Reni, del Guercino e di mille altri artisti?”

Fece due o tre lunghi respiri. Ora si sentiva ricaricato, motivato all’azione che si apprestava a portare a compimento. Guardò l’orologio: segnava le otto e un quarto. Era quasi arrivato. Percorse tra la folla assiepata sui marciapiedi rue Le Peletier, facendosi largo con infinita precauzione fino all’ingresso del teatro, perfettamente illuminato. Evitò di portarsi in prima fila, preferì restare coperto dalla gente, perché si era accorto di un nugolo di poliziotti che si aggiravano e scrutavano attentamente.

A qualche decina di metri, un tafferuglio attirò l’attenzione di alcuni spettatori, ma dopo un attimo tutto tornò come prima. Nessuno si accorse che due poliziotti avevano riconosciuto il volto di Pieri, ricercato come clandestino, e prontamente lo avevano bloccato.

Erano passati da poco le otto e trenta, quando la folla cominciò ad agitarsi. In fondo alla strada si vedeva avanzare la carrozza dell’imperatore trainata da due cavalli. Carlo aveva già in mano il suo pacchetto e si era fatto largo tra la folla intenta ad applaudire e a cercare di intravedere i reali.

Non appena la vettura si fermò di fronte all’ingresso si udì lo scoppio di una bomba. Era Gomez che, appostato dall’altro lato della strada, aveva lanciato la sua bomba. Un attimo dopo Carlo lanciò la sua e quasi contemporaneamente esplose anche la bomba scagliata da Orsini:

fuga della gente, urla di disperazione e di dolore tra i feriti; l’imperatore, illeso, leggermente ferito al volto; Eugenia, l’imperatrice, sbalzata fuori dalla carrozza, anche lei illesa, ma ricoperta del sangue delle vittime e dei feriti. Una vera carneficina tra la folla.

In caserma, dove Pieri era stato condotto poco prima dell’attentato, appena arrivata la notizia della strage, non lo lasciarono respirare un attimo, lo sottoposero a un duro interrogatorio. Subito dopo fu portato in caserma anche Gomez, che si era rifugiato in una trattoria vicina e che nel corso delle immediate indagini dei gendarmi era stato fermato. Il giovane non resistette alle incalzanti domande dei gendarmi e confessò nomi e indirizzi degli altri attentatori. Fu la fine. In poche ore furono catturati anche Orsini e Di Rudio.

L’opinione pubblica francese si schierò dalla parte di Napoleone e, indignata, fece pressione perché si procedesse ad arrestare gli esponenti più in vista tra i repubblicani francesi di opposizione e per confermare le condanne a morte degli attentatori, nonostante l’abile difesa degli avvocati che dichiaravano apertamente che il grave gesto non era attribuibile a volgari delinquenti, ma a patrioti che lottavano per la libertà del loro Paese.

Orsini e Pieri furono ghigliottinati, mentre Gomez e Di Rudio furono condannati all’ergastolo: il primo perché aveva confessato e contribuito alla cattura degli altri attentatori; il secondo perché l’influente suocero inglese gli procurò un abile avvocato con l’incarico di sottolineare l’appartenenza dell’imputato a una famiglia nobile.

Nel 1854 Napoleone III aveva inaugurato quello che sarebbe diventato uno dei più terribili penitenziari della storia carceraria, dove dovevano essere deportati gli ergastolani e tutti i condannati per pene superiori a otto anni. Era la prigione della Caienna nell’isola del Diavolo, al largo della costa della Guyana francese, un’isola dall’infernale clima tropicale, rocciosa e coperta di palme e di boscaglia, con il punto più alto a non più di quaranta metri.

Dunque Carlo Di Rudio a ventisei anni e Antonio Gomez a ventinove anni, subito dopo il brevissimo processo, vennero trasferiti nel carcere della Caienna per scontare la condanna ai lavori forzati a vita.

Mentre Gomez si rassegnò e vi rimase fin quasi ai sessanta anni quando finalmente fu graziato e andò a vivere a Napoli dove morì in miseria, Carlo già dal momento dello sbarco invece non fece altro che pensare alla fuga.

A Londra era rimasta la giovane moglie. Le sue preghiere insistenti avevano convinto il padre a intervenire, prima a salvarlo dalla ghigliottina e ora a tirarlo fuori da una prigione che era già tristemente famosa per la violenza con la quale trattava i reclusi e per le condizioni disumane in cui erano tenuti.

Eliza, da subito capì che la situazione del marito poteva essere alleviata facendogli pervenire piccole ma frequenti somme di denaro che dovevano servire a tenere a freno qualche ergastolano troppo violento e ad ammorbidire il comportamento dei guardiani nei confronti di Carlo.

Altre risorse importanti giunsero a Eliza un po’ inaspettatamente. Alcuni amici compatrioti promossero collette; la famiglia di Carlo si mise in contatto con Eliza inviando del denaro e la stessa Emma Siegmund un giorno venne a trovarla, presentandosi con un piccolo involucro.

-“Eliza, ti prego di accettare questo denaro che purtroppo non ho potuto utilizzare per la causa del mio carissimo amico Felice Orsini. Ora te lo consegno perché possa servire allo scopo di ridare la libertà al tuo Carlo. So che farai tutto ciò che è possibile per riabbracciarlo”.

Al mattino presto con il sole o con la pioggia, i prigionieri, radunati nell’ampio cortile tutto circondato dagli edifici carcerari, dovevano ascoltare la voce del direttore che immancabilmente iniziava con il ricordare che non era possibile alcuna fuga dall’isola del Diavolo, sia per la fitta e pericolosa boscaglia, sia per la presenza di squali nel mare. Ma questo discorso ripetuto tutti i giorni finì soprattutto per Carlo con il rafforzare la volontà di provare, sperando nel successo.

Il suo primo tentativo di fuga naufragò sul nascere. Qualcuno lo aveva informato che un vecchio ergastolano aveva più volte organizzato la fuga insieme a un paio di compagni e che era riuscito ad attraversare la boscaglia e a raggiungere il mare, grazie a una mappa dell’isola, consegnatagli da un compagno in punto di morte. Ma tutto era stato invano.

Ora si diceva che fosse in attesa di ricevere la grazia e che perciò era disponibile a cedere la mappa in cambio di un adeguato compenso. Carlo non volle farsi sfuggire l’occasione. Diede quel po’ di denaro che gli restava e si fece consegnare la mappa. Studiandola attentamente nei giorni seguenti, si rese conto che l’impresa non era facile. Pur ammettendo di potersi orientare bene, seguendo i punti tracciati sulla carta, restava una serie di problemi pressoché insuperabili.

Sua moglie Eliza, intanto, era decisa a salvare il suo uomo. Il padre le aveva dato il nome e l’indirizzo di un uomo influente di Parigi che l’avrebbe aiutata.

Partì da Londra, fiduciosa, portando con sé una notevole somma di denaro. Senza molti preamboli, quell’uomo, ricevuto il denaro, garantì alla donna che l’operazione sarebbe stata possibile entro poche settimane. Le espose il suo piano. Una buona parte del denaro doveva servire per corrompere tre guardie della prigione, il capitano della nave che ogni due mesi portava i detenuti dalla Francia a Sain-Laurent-du-Maroni, centro amministrativo del sistema di deportazione della Caienna, e il capitano del traghetto che da quel porto, dopo lo smistamento dei condannati destinati ai campi di lavori forzati, partiva verso l’isola del Diavolo.

Il piano funzionò alla perfezione e, superando mille difficoltà, Carlo raggiunse per via di terra la vicina colonia inglese della Guyana.

Era la salvezza!

Gli inglesi, infatti, non mollavano mai i prigionieri politici fuggiti dall’isola del Diavolo, perché non amavano la monarchia francese. Carlo poté perciò imbarcarsi per l’Inghilterra e riunirsi alla sua famiglia.

Era il 1860, Carlo avrebbe voluto partecipare alle azioni straordinarie che si preparavano un po’ ovunque in Italia, ma gli amici lo dissuasero, compreso lo stesso Mazzini. Il conte Carlo Di Rudio era troppo noto e braccato dai francesi e dagli austriaci, per cui accettò il consiglio di emigrare con tutta la famiglia negli Stati Uniti d’America.

Come tutti gli emigranti la vita nella nuova terra non era facile. Presto prese la sua decisione. A ventinove anni si arruolò nell’esercito federale americano e combatté nella guerra civile, meritandosi il grado di sottotenente. Al termine della guerra, grazie al sostegno degli amici repubblicani entrò nell’esercito statunitense e fu assegnato al settimo Reggimento di Cavalleria, comandato dal famoso colonnello Armstrong Custer.

In quegli anni gli americani erano impegnati in una lotta spietata contro i nativi. Costoro combattevano per la loro stessa sopravvivenza. Giorno dopo giorno venivano loro sottratte le terre migliori dove da sempre erano vissuti di caccia ai bufali. C’erano stati diversi tentativi di accordo tra i capi delle varie tribù indiane e il governo, ma le “riserve” di territorio non sempre potevano soddisfare i giovani, per cui spesso dall’una e dall’altra parte, gli accordi venivano violati: gruppi di indiani, ignorando i limiti imposti, scorrazzavano in terre non consentite, magari dove il governo aveva fatto le concessioni necessarie per la costruzione della ferrovia. Non mancavano perciò scontri fra le truppe di soldati e gli indiani delle tribù.

La famosa battaglia di Little Bighorn del 25 giugno 1876 si inquadra, appunto, in questo clima di lotta, nel corso della quale si dispiegò la campagna di vera e propria guerra, detta delle Colline nere.

Questa volta gli accordi erano stati violati dagli americani. Molti coloni si erano spinti in quelle terre già assegnate ai Sioux, perché i cercatori d’oro avevano scoperto il prezioso metallo. Il governo tentò di risolvere pacificamente la questione con un nuovo accordo offrendo una ingente somma per comprare o affittare quell’area, ma Toro Seduto rifiutò con sdegno.

Il conte Carlo Di Rudio partecipò a questa celebre battaglia combattuta tra la cavalleria di Custer e gli indiani Sioux al comando di Toro Seduto e i Cheyenne capeggiati da Cavallo Pazzo.

Tra Carlo Di Rudio e il suo comandante colonnello Custer non c’era un buon rapporto.

Custer era un uomo coraggioso, ma impulsivo e indisciplinato. Aveva faticato molto a ottenere il comando di cinque delle dodici compagnie che costituivano il settimo Reggimento di Cavalleria e, fermo nel suo punto di vista, aveva deciso di avanzare su quel territorio contravvenendo agli ordini dei suoi superiori. La sua idea era di attaccare a sorpresa il campo dei Sioux che si trovava in pianura sulle sponde del fiume Little Bighorn. Diede l’ordine di dirigersi verso il campo da tre direzioni diverse in modo da impedire ogni via di fuga agli indiani. Nelle retrovie lasciò una compagnia di riserva e quella addetta alle salmerie. Carlo fu lasciato con un piccolo gruppo di soldati alle spalle della compagnia di Custer che doveva iniziare l’attacco al campo, con l’incarico di recuperare i cavalli e custodirli nel boschetto nelle vicinanze del fiume.

Fu proprio l’antipatia che Custer dimostrava nei confronti di Carlo Di Rudio a salvargli la vita. Sin da quando era stato assegnato al suo reggimento, il colonnello non aveva perso occasione per lamentarsi di lui, dicendo che era il peggiore dei suoi tenenti o chiamandolo con disprezzo il “Conte che non conta niente”. A quarantatré anni Carlo era il più vecchio ufficiale a cavallo del settimo Cavalleggeri, ma non certo il meno intelligente e coraggioso. Si era conquistata una certa notorietà perché un giorno aveva difeso una giovane squaw, catturata dopo l’incendio del campo e la fuga della sua gente, da due soldati ubriachi che volevano violentarla. Per ultimo, nel corso dell’azione appena intrapresa, si era permesso di esprimere un suo parere circa le modalità dell’attacco al campo indiano che riteneva azzardato, perché non si avevano informazioni sicure sul numero degli indiani presenti. In cambio aveva ricevuto quell’ordine umiliante di restare nel boschetto per custodire i cavalli.

In realtà fu proprio quella errata valutazione sulla consistenza numerica del campo indiano che portò Custer al massacro della sua compagnia. Nessuno sfuggì alla morte, perché anche quei pochi rimasti in vita per non cadere nelle mani degli indiani si uccisero con le proprie armi.

Tutta la stampa americana riferì della battaglia del Little Bighorn.

Si accesero infinite polemiche; si volle un processo affinché i giudici accertassero le responsabilità di un simile disastro. Furono interrogati a lungo i pochissimi superstiti che per un caso fortuito erano sfuggiti alla morte. Primo, fra tutti, Carlo Di Rudio chiarì la sua posizione. Fu creduto e per giunta fu promosso capitano e assegnato ad altri incarichi.

Tra i sopravvissuti alla storica battaglia ci furono anche altri italiani, come Giovanni Martini e Agostino Devoto.

Martini era un trovatello originario di Sala Consilina. A quattordici anni, nel 1866, si era arruolato come tamburino nel corpo dei volontari di Garibaldi; emigrato in America, per ottenere la cittadinanza americana si arruolò nell’esercito e fu assegnato al settimo Reggimento Cavalleggeri di Custer. Si salvò perché Custer gli ordinò di portare un messaggio alle salmerie che procedevano lentamente nelle retrovie.

Lo stesso accadde ad Agostino Devoto, il quale ebbe l’ordine di far parte della scorta per la protezione della colonna dei muli che portavano i pacchi delle munizioni.

Nel 1896, a sessantaquattro anni, il conte Carlo Di Rudio andò in pensione con il grado di maggiore e visse fino al 1910 a San Francisco, assistito dalle tre figlie, alle quali aveva dato il nome di Italia, Roma e America.

Qualche anno prima della morte, ricevette la visita dell’ex soldato Agostino Devoto che, finito il periodo di leva, aveva lasciato l’esercito e fondato una ditta ben avviata nel commercio di frutta e dolciumi. Dopo aver ricordato gli eventi della famosa battaglia nella quale entrambi erano stati coinvolti, Carlo si lasciò andare ad alcune confidenze sulla sua vita prima di sbarcare negli Stati Uniti. E naturalmente non poté fare a meno di rispondere alle domande riguardanti l’attentato a Napoleone III. Fu in quella occasione che Carlo Di Rudio confessò all’amico che le indagini della polizia francese non avevano individuato un quinto attentatore, oltre ai quattro che erano stati catturati quasi subito.

La rivelazione era destinata a creare scandalo e sconcerto, non solo perché faceva conoscere un particolare così rilevante, ma anche per la personalità del personaggio, fino a quel momento ignorato. Si trattava nientemeno che di Francesco Crispi, il quale da lì a qualche anno avrebbe ricoperto un posto di primissimo piano nella politica italiana della seconda metà dell’Ottocento.

Carlo Di Ruvo, infatti, descrisse i fatti ai quali assistette: negli ultimi minuti, poco prima di entrare in azione, egli vide Orsini consegnare una delle due bombe che aveva con sé proprio a Crispi. Siccome le bombe esplose furono tre e si accertò che Orsini abbandonò la sua bomba, è evidente che fu Crispi a lanciare la terza bomba.

Quando la stampa venne a conoscenza di quella scabrosa rivelazione, ci fu un momento di smarrimento nella opinione pubblica. La notizia fu riportata e commentata per più giorni dal Corriere della Sera. Furono intervistate personalità politiche, parenti del Crispi, i quali si affrettarono a bollare quelle affermazioni del conte Di Rudio, come fantasie senili.

Forse qualcuno aveva interesse a nascondere la verità anche per non incrinare l’amicizia con la Francia! In quegli anni, tra il 1908 e il 1910, l’Italia era ancora in dubbio se propendere per l’Intesa con Francia e Inghilterra o per la Triplice Alleanza con Germania e Austria, in vista di una possibile guerra.


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