“L’Incesto” un racconto di Vincenzo Fiaschitello
Don Vito Vacirca aveva passato già da qualche anno la cinquantina. Era proprietario di un esteso vigneto, appena fuori città, che produceva ogni anno un gran numero di bottiglie di vino pregiato. La gran parte di queste bottiglie veniva esportata in Germania, dove molti amici ristoratori avevano contribuito a farlo conoscere.
In città era ritenuto un uomo moralmente ineccepibile, orgoglioso della sua famiglia, un uomo all’antica, rispettoso della religione e dei valori tradizionali.
Vantava anche una buona cultura. Quando il padre gesuita del vicino convento organizzava dei pubblici dibattiti su questioni di attualità, non mancava mai di partecipare, intervenendo con autorevolezza.
Don Vito aveva perso la sua serenità e sicurezza dal giorno in cui il suo amico Raffaele, passeggiando per il corso, gli aveva detto:
– “Don Vito, voglio essere sincero con voi. Vostro figlio appare troppo raffinato, è un bravo giovane, parla con tutti, è gentile, non è superbo. Ma, don Vito, da raffinato a effeminato il passo è breve! Così vanno dicendo alcuni giovinastri”.
A don Vito, Raffaele aveva messo, come si dice, la pulce nell’orecchio. Da quel giorno don Vito cominciò a osservare meglio il figlio e effettivamente gli sembrava proprio vero, quanto si andava dicendo. Lo guardava mentre camminava, mentre gesticolava, mentre parlava e sorrideva. Sì, davvero qualcosa di sospetto c’era!
La notte seguente e le successive non dormì bene. Si svegliava continuamente.
Una notte non poté riprendere sonno, svegliò la moglie e le manifestò i suoi dubbi.
-”In che cosa ho sbagliato con questo mio figlio?, si domandava tristemente don Vito.
Per lui si era tanto sacrificato e non aveva badato a spese. Lo aveva mandato a studiare a Messina per frequentare il liceo dei gesuiti, il più antico d’Europa, dove per la prima volta nel cinquecento era stata sperimentata con successo la Ratio Studiorum, il metodo scolastico destinato a restare alla base dell’insegnamento in tutti i paesi occidentali.
Una volta al mese saliva al convento, dove il padre gesuita, suo amico e consigliere, lo accoglieva per ascoltare la sua confessione, i suoi dubbi religiosi e, dopo l’immancabile assoluzione, anche i problemi spiccioli della vita quotidiana.
Doveva percorrere in salita un lungo tratto di stradine del paese per raggiungere il convento, che sorgeva in cima a una collinetta.
Lasciate le ultime case, orti e piccoli vigneti si alternavano lungo il sentiero. Con i contadini che lavoravano la terra, scambiava un saluto, faceva qualche commento sulla stagione e approfittava per riprendere fiato.
Quel giorno don Vito uscì di casa di buon mattino. Il vento capriccioso di marzo sbatacchiava imposte, spalancava portoni, faceva volare mulinelli di cartacce e di polvere. L’angoscia, il dubbio, rodevano il suo animo. I suoi occhi tremavano, le foglie e i fiori di primavera si abbandonavano, remissivi, ai soffi violenti del vento, interrotti da brevi momenti di quiete. Attorno, la tristezza dimorava sulle siepi di biancospino, sui pali sbilenchi del telegrafo, sui tetti delle capanne che custodivano gli attrezzi dei contadini.
Saliva trascinandosi le gambe, sembrava invecchiato di parecchi anni, chiuso nei suoi pensieri, non si curava dei contadini, che come al solito lo salutavano, né si fermava. Pensarono che fosse malato o che avesse qualche grosso peccato da confessare.
Ah, come li invidiava! Avrebbe voluto essere ora come uno di loro, senza pensieri molesti che gli turbavano il cuore e stancarsi e sudare per vangare la terra e liberarla dalle erbacce.
Si vedeva già dinanzi al gesuita e non sapeva come iniziare a confessare un peccato che ancora non aveva commesso.
Alla fine confessò!
Si aspettava che il gesuita lo rimproverasse con asprezza e severità. Invece il confessore, per un istante, dimenticò l’amicizia che lo legava a don Vito e lo trattò come un qualunque penitente:
– “Ma, figliolo mio, ti rendi conto che non si tratta di una tua mucca ingravidata? Tu mi parli della tua giovane nuora che appena due mesi fa è andata sposa al tuo unico figlio maschio. E ora aspetta un figlio da te! E’ un peccato gravissimo per le conseguenze che ne possono derivare e soprattutto per aver infranto la legge divina. Non posso assolverti se prima non ti adoperi in modo tale che non scoppi uno scandalo e che la povera ragazza non venga risollevata da questo macigno che le è caduto sulle spalle!”
-”Padre, prometto che farò tutto il possibile. Chinò la testa, si fece il segno della croce e lasciò la canonica con gli occhi umidi di pianto”.
Lucia, dopo la partenza del marito, si era confidata tra le lacrime con Michela, la figlia minore di don Vito, e le aveva detto che era ancora vergine.
Michela riferì alla madre la confidenza della giovane cognata e subito un allarme generale si diffuse in casa di don Vito.
Questi aveva a lungo meditato, si era accusato di un peccato non commesso, aveva infine comunicato alla moglie la sua ferma decisione.
Da vari giorni Lucia veniva quasi tenuta segregata nella sua stanza ad ascoltare le preghiere insistenti della suocera e di Nela, la figlia maggiore.
-”Non c’è più tempo da perdere, diceva la suocera, tu sai come qui la gente chiacchiera ed è brava a fare i conti dei giorni dal matrimonio. Non c’è nessun altro all’infuori di tuo suocero, se non vogliamo far scoppiare uno scandalo. Io non voglio dire che la colpa sia tua, ma se dopo due mesi sei ancora vergine, ammetto che Girolamo abbia qualche problema. Questo conferma quanto già da tempo la gente a mezza bocca va dicendo sul conto di mio figlio. Le chiacchiere hanno prostrato il mio povero Vito, non vorrei che lo portassero alla tomba. Pur se mi costa moltissimo, ti chiedo con fermezza di sacrificarti”.
La cognata Nela rafforzava il progetto, la confortava e le asciugava le lacrime.
Accadde così che quella stessa sera, a tarda ora, Lucia subì la violenza del suocero.
L’incesto era consumato! Ora bisognava mantenere una grande calma, continuare in modo regolare i rapporti con i vicini, con gli amici e cominciare ad annunciare la possibilità di una gravidanza per la nuora, perché Girolamo, prima di partire, aveva compiuto il suo dovere coniugale.
In effetti le confidenze tra le donne amiche di famiglia, dopo alcune settimane, si andavano facendo sempre più ottimistiche finché fu data conferma della felice attesa.
Don Vito, passeggiando con gli amici o durante gli incontri settimanali nei locali della confraternita che si occupava soprattutto della organizzazione della festa del Santo Patrono, si mostrava soddisfatto, allegro: “Le maldicenze su mio figlio, vi assicuro che mi hanno fatto tanto soffrire, ma ora sono veramente rinato. Non avevo mai creduto alla mancanza di virilità di Girolamo, ora ne abbiamo le prove. Ma basta, andiamo a brindare, vi offro da bere!”
E li portava al bar per festeggiare e fugare ogni sospetto.
In casa di don Vito, per la verità, non c’era affatto serenità. L’unica che dimostrava con sincerità affetto e simpatia verso la cognata era Michela.
Nei giorni successivi allo “stupro”, la poveretta le era rimasta sempre vicino, la abbracciava, la consolava. E quando Lucia cominciò a manifestare segni di autolesionismo e peggio idee di suicidio, non la lasciò un solo momento.
Don Vito non si faceva vedere, dava i suoi ordini tramite Venera, la moglie e Nela.
La famiglia di Lucia non si accontentava più delle solite scuse:
-”Abbiamo bisogno anche noi di starle vicino!”
Non credevano alle giustificazioni di una gravidanza difficile e che la ragazza, come aveva prescritto il medico, dovesse restare in assoluto riposo.
Poi, per tacitare i genitori di Lucia, dopo infinite raccomandazioni, indussero Michela a convincerla a uscire di casa e a andare a trovare i genitori.
La gente per la strada la salutava rispettosamente e le donne la fermavano, lodando la sua bella pancia gonfia:
-”Sarà un maschio”, diceva una.
-” No, no, sarà proprio una femmina, diceva un’altra, non vedete la forma della pancia?”
I genitori la accolsero con gioia e la trattennero a cena insieme con la cognata.
Don Vito aveva dato al figlio, sin dai primi giorni, notizie sulla gravidanza della moglie. Ora gli scriveva che era indispensabile prendersi una breve vacanza e tornare a casa per qualche giorno.
Ma lui tergiversava, si scusava per il troppo lavoro, diceva che non poteva chiudere lo studio di avvocato, finché non trovava un collega fidato.
-”Trovalo!” gli telegrafò il padre laconicamente.
Il telegramma fece effetto. Dopo alcuni giorni, Girolamo giunse verso sera alla casa paterna. Ma non era solo!
Lo accompagnava un giovane atletico, alto e pieno di vitalità, che egli presentò come suo segretario. Abbracciò i genitori e le sorelle, poi diede un bacio distratto alla moglie, senza fare alcun cenno alla sua pancia già prominente.
La madre e Nela, dopo cena, dissero a Girolamo che avevano urgente bisogno di parlargli. Si ritirarono in un salottino:
-“Come sicuramente ti sarai accorto, cominciò la madre con voce tremante, tua moglie è incinta”.
-“Sì, me ne sono accorto. Ma io non voglio sapere chi è il padre!”
– “E noi non te lo diremo, ma sappi che ufficialmente il padre sei tu. La gente del paese, questo sa. Così ha voluto il povero padre tuo per salvare l’onore della famiglia. Ora, però, che hai portato con te quello che tu chiami segretario, non giova affatto al nostro progetto. Sappi, inoltre, che tua moglie si è sottoposta a questo terribile inganno con immensa ripugnanza”.
-“Se le cose stanno così, dal momento che avete chiara la mia condizione, non vedo perché io debba rimanere un minuto di più in questa casa”.
E con voce alterata continuò: “Questa è gente troppo arretrata che bada alle apparenze e non intende rispettare la libertà delle altre persone. Nella città in cui lavoro, c’è più comprensione, più sincerità nei rapporti umani. Questa è tuttora una comunità chiusa, che ormai da tempo ho imparato a detestare, una comunità che per secoli ha sopportato soprusi e ha abusato dei deboli, di coloro che davano l’impressione di essere diversi dal resto della gente comune, ma non ha mai alzato un dito per difendere le donne di famiglia, vittime dell’incesto. Io mi sono ribellato a tutto questo, perciò preferisco non mettere più piede in questa casa e in questo paese”.
E così dicendo, lasciò quelle donne senza parole, chiamò il compagno e andarono via insieme.
Lucia si era fermata nel corridoio e aveva udito tutto. Si ritirò in lacrime nella sua stanza, seguita dalla cognata Michela.
In paese qualcuno disse che l’avvocato era tornato, ma che si era trattenuto appena un giorno perché era dovuto ripartire il mattino seguente, dopo aver ricevuto un telegramma che lo obbligava a essere presente in tribunale.
Una mattina, Lucia si svegliò con le doglie. Venne subito chiamata la levatrice che diede le disposizioni consuete per il parto.
Dopo poche ore venne alla luce un esserino già morto, una femmina.
Furono giorni difficili in casa di don Vito. La tensione era altissima. Lucia piangeva e a poco serviva il conforto di Michela, che ora più di prima le si dimostrava amica.
I genitori di lei erano smarriti, andavano e venivano, parlottavano con la moglie di don Vito. Questi sembrava scomparso, nessuno sapeva dove si fosse ritirato.
L’unica che manteneva la lucidità era Nela. Era venuto finalmente il tempo di pensare a se stessa, di sistemare le sue cose e prepararsi a lasciare quella casa. Di lì a poco, infatti, se ne andò segretamente con l’uomo che diceva di amare.
Non passò molto tempo che anche Michela e Lucia si convinsero che non potevano più vivere in paese e presero la decisione di partire.
Don Vito e la moglie rimasero soli nella loro grande casa.
Una domenica pomeriggio, la lunga processione del Santo Patrono passava lungo la strada dove abitava don Vito. Gli amici della confraternita, quelli che portavano in spalla il Santo e gli altri che seguivano dietro, alzarono lo sguardo verso la casa. La moglie era al balcone adornato di una bella coperta ricamata, don Vito non c’era.
A qualcuno parve di vedere un’ombra, dietro il vetro di una finestra.