“Un ragazzo degli anni settanta” Una storia in dieci puntate di Tiziana Leopizzi Capitolo (4-5/10)
Capitolo 4°
La prima lezione in Accademia ebbe il fascino e l’intensità pari al primo “incontro” con i marmorei prigioni michelangioleschi del Museo dell’Accademia di via Ricasoli.
Noi studenti del primo anno venimmo convogliati nel giardino, molto francese, all’interno della corte dell’Accademia. Tra le piante si scorgevano tracce di lavoro scultoreo in grande dimensione. Armature metalliche dismesse, trespoli sporchi di gesso, e spesso posti a terra, forme negative e sculture in cemento ancora da ultimare.
Ci si guardava attorno in quel mondo tutto da scoprire e da vivere. Eravamo ragazzi e ragazze provenienti da ogni parte del mondo e fu proprio questo che mi fece comprendere che il valore di una Scuola, specie se di alta formazione, non sta solamente nelle nozioni che si apprendono ma nel come vengano ad “entrare” in ognuno di noi, di come vengano comunicate e quanti linguaggi vengano adoperati. L’eterogeneità e le differenti provenienze degli studenti è in assoluto la credenziale imprescindibile per costruire una rete di conoscenze ed esperienze fondamentali per una effettiva e aperta crescita culturale.
Noi neoiscritti in totale eravamo circa una ventina. Io non conoscevo nessuno di loro e silenzioso, osservavo coloro che invece scambiavano battute in toscano, ovviamente compagni del Liceo Artistico della città.
D’improvviso, a passo lesto, arrivò un ometto elegante, vestito completo grigio chiaro con gilè e cravatta intonata, corposa barba grigia ed accentuata stempiatura.
Si fermò in mezzo a noi e ruotando su se stesso: “Buongiorno, sono Oscar Gallo, venite, entrate in aula”. Aprì una porticina di una costruzione attigua e si spalancò un romantico aulone di Scultura. Percepii subito il secco odore di creta mescolato alla dolce puzza di plastilina. Il magico paradiso da anni immaginato era li, in qualche modo anche a mia disposizione. Un tuffo nella mitica storia della Scultura tradizionale.
Spiccava un’unica grande vetrata a tutto sesto rivolta a nord, per avere luce costante e mai raggi di sole. Un giaciglio rotante al centro del salone con al fianco la grande stufa a legna per riscaldare le pose della modella vivente. Tutto attorno disseminato di grossi trespoli professionali. Gessi storici alle pareti. Bancone da lavoro con annessi vasconi per acqua corrente ed enormi contenitori di creta. Due servizi igienici dietro ad una porticina da gnomi. Cattedra in legno con seggiole attorno. Una misteriosa scaletta in legno grezzo che portava ad un piccolo studiolo sopraelevato riservato al Maestro. Il tutto sovrastato da un alto soffitto ligneo a capriata.
“Entrate, entrate tutti, coraggio, venite avanti e guardatevi attorno, per qualche minuto”. Silenzio, poi: ”Ascoltate con i vostri sensi! Sappiate che questa è stata l’aula dove insegnò Giovanni Fattori, poi passata alla Scultura con Giuseppe Graziosi, Venanzo Crocetti, Antonio Berti ed ora io, Gallo… da Venezia. (omino gentile e cortese ma con sguardo fermo e carattere “fumino”). Sappiate onorare non me ma tutti i miei predecessori”.
Indubbiamente, in quegli anni di contestazione verso tutto ciò che era il passato, questo fu un battesimo molto coraggioso ed inaspettato, ma dopo quelle parole ci sentimmo tutti come privilegiati “cavalieri” della tavola rotonda.
Questa magia fu interrotta dall’ingresso nell’aula di una trentina di persone festanti e affabili. Erano il 2°, 3°e 4° anno. Tutti assieme e pieni di desiderio di ricominciare a far qualcosa. Qua ebbero inizio le prime fasi di conoscenze transitorie ma importanti, anche se i veterani si ponevano principalmente verso le matricole femmine che, giusto puntualizzare, erano realmente il meglio sul mercato.
Capitolo 5°
L’entusiasmo era molto e le difficoltà venivano affrontate con strana baldanza. Mi sentivo immortale! Nulla mi spaventava e mi abbatteva.
Fu un primo anno pieno di esperienze costruttive. Copiavo tutti gli accorgimenti messi in campo da chiunque incontrassi.
Il maggior problema, o perlomeno quello alla base dei principali disagi, era l’indigenza economica. Risparmiavo su tutto sino al limite del paradosso.
La spesa settimanale non poteva superare categoricamente le 1.500 lire, per cui un filone di pane toscano, un fiasco di vinaccio, due chili di pasta ed un mattoncino di margarina. Al mattino né colazione né caffè, a pranzo pasta e margarina, sera cena minimale convenzionata per gli studenti dell’Accademia alla trattoria “Da Fosco” in via dei Servi. Con 200 lire di integrazione a pasto si mangiava sempre il medesimo menù che pareva oramai come un rito da terapia. Piatto di pasta al pomodoro con bustina di formaggio grana, un secondo consistente in polpettine e patate bollite da condire o, in luculliana alternativa, spezzatino con sporadici pezzetti di carne sommersi di patate bollite pure loro, un panino, una mela e acqua del rubinetto in brocca a volontà.
Il sesto capitolo sarà pubblicato il 25 dicembre.