Viaggio nel Quartiere latino tra ricordi e poesia
Ricordi di Bianca Apollonio e poesie di Graziano Mazza
I primi passi nel quartiere latino sono quelli che si custodiscono in un cassetto insieme a lavanda e gelsomino, legati a un fiocco profumano in eterno.
Ho poco più di vent’anni quando cammino al tramonto lungo il ponte che da Hotel de Ville, nel Marais, 4e, mi condurrà in una delle essenziali arterie di Parigi, il quartiere latino, 5e. I miei occhi attraversati dall’arancio del cielo si riempiono di linfa come torace e addome al passaggio dall’aorta, poi, scoperto il granito dei tetti si mirano allo specchio con il latente imbarazzo e nostalgia di un’anziana donna che indossa un abito da ragazzina. Emozioni diverse si incontrano su una linea appena visibile, la stessa che in una foto analogica separa i soggetti del ritratto dal luogo sfocato che li circonda. Monumenti all’insolente bellezza sul marciapiede destro e sogni non ancora infranti su quello sinistro, si rincorrono come tanti leoni che pregustano tra i denti il sapore della lepre, sfiorandosi appena prima di tornare a essere inconciliabile solitudine.
La brezza estiva si poggia sulle gonne svolazzanti delle turiste trasformandole in bandiere aliene, reclamano libertà, persino dall’aria. Siamo a fine agosto 2016 e io mi ritrovo davanti la cattedrale di Notre-Dame, ancora intatta, ancora salva.
E noi puri eravamo
ingenui turisti del caso.
Non c’era effetto sul muto oggi,
solo pigri e melensi istanti.
Un inconsistente mattino svela
che il rito è quello degli Oro
Saiwa, sbriciolati tra le dita.
Ma noi blasfemi siamo
tristi orfani di padri.
Poiché la gioia non l’abbiamo avuta,
la noia volevamo ascoltarla.
L’alternativa che avevamo trovato,
era il calcio, sedotto dai falli:
non avremmo voluto guardarlo.
Ma noi santi saremo
felici orfani di figli.
Perché il futuro non lo abbiamo scelto,
il passato sappiamo dimenticarlo.
L’alternativa che abbiamo trovato
è il presente, fatto di luci al neon:
quello vorremmo viverlo leggeri.
Osservo da lontano uno degli edifici più visitati di Parigi, del mondo, e ripenso a tutti coloro che hanno guardato le stesse arcate e dettagli anneriti dal tempo. Mi domando dove si nasconda la traccia degli individui che ne hanno subito il fascino per un breve istante o per l’intero corso della loro vita. Magari in un angolo della navata o nel coro di Notre-Dame, tra quelle che erano le strutture più antiche di Parigi (fine XI-inizio XIII secolo), o tra le travi provenienti da alberi di diverso tipo, l’esatto equivalente di un bosco di querce di 21 ettari.
Chiudo gli occhi e immagino di essere nel Medioevo, è il 26 dicembre, il giorno della festa dell’asino, e come da tradizione un uomo del popolo entra all’interno dell’edificio su un cavallo, tutti cantano, ballano e indossano eleganti costumi, anche io con loro mi allungo come se cercassi una posizione di yoga, mi blocco leggermente in avanti e sistemo il corpetto lungo il busto, mi guardo intorno chiedendomi dove si nasconda il cimitero delle feste dimenticate.
Poi penso all’incoronazione di Napoleone, Victor Hugo stregato dal medesimo portale, mi avvicino, lentamente, per godermi ogni dettaglio delle 28 statue.
I Re di Giuda, antenati di Maria, mi si presentano timidamente: sono copie delle statue decapitate dagli insorti che durante la rivoluzione francese li scambiarono per re di Francia, privati del corpo e col viso rivolto verso la terra mi sembra di vedere la paura passare da una pupilla all’altra. Perdono un poco della loro serietà, annegano senza avere il coraggio di urlare, mi guardano senza parlare.
La realtà è fragile e caduca,
bisogna tenerla con mani di cristallo.
È emotiva la realtà, non si scompone
per gli eventi, si scompone per il senso
di ogni cosa che produce.
Posso rimanere sveglio accanto
degli sconosciuti che non si amano più,
su un velivolo che mi riporta al nido,
lamentandomi perché non ho il sacchetto per il vomito.
Vorrei che nella realtà racchiusa in questo
aeroplano, ci fossero meno bambini
meno costume da tenere,
meno braccia incrociate e sguardi annoiati,
meno morale da bracciolo invaso dai
gomiti, meno sesso sublimato tra gli sguardi
aridi, siciliani tra i seduti. Meno
messaggi da inviare all’atterraggio, prima
che prenda il taxi fino al tuo appartamento.
Questa realtà è, se non mia
esiste, non accumula impurità,
non agisce nell’imperfezione,
non ripudia l’altro,
non si sottrae all’azione.
Occorre saperla leggere.
Entro in chiesa e un brivido di freddo corre lungo la mia schiena immaginando il rumore della pallottola che annienta il cuore infelice di Antonieta Rivas Mercado, pioniera della cultura nel Messico degli anni 20[1]. Stringo le spalle, esco dalla cattedrale e mi ritrovo esattamente al centro della piazza, su una targa concentrica vi è scritto “punto zero”, è da questo punto che si calcolano tutte le distanze in Francia, è questo punto che talvolta si dimentica di guardare, proprio qui dove tutto si azzera e si può ricominciare.
[1] Si narra di Antonieta Rivas Mercado assieme ad altri ribelli talvolta dimenticati nel libro Nessuno può portarti un fiore di Pino Carducci.
Noi abitavamo a Parigi quando
Notre-Dame prese fuoco, e comunque
rimanemmo intatti.
Quel fuoco che arse, bruciò le
fondamenta che ci tenevano
ancorati alla vita.
In quella caldara che illuminava
la notte, scoprimmo che il legame
non è seta ma rovere.
Il gotico senso dello slancio, dolce,
ci spinse in alto, strappati alle
tegole in ardesia.
Mulinammo, spinti dal vento,
sempre meno pressati dall’atmosfera,
verso la Via Lattea:
che ancora non so se si è
ascesi, perché più leggeri delle
fiamme. Se integri e uniti
non si abbandona che questa
terra, o se tutto sommato
se n’è andato via solo il passato.
Scelgo di attraversare un altro ponte attirata da una chiazza umana che attende di entrare in un misterioso edificio, la libreria Shakespeare & Co, immancabile rendez-vous per gli appassionati di letteratura anglofona e coloro che cercano rifugio tra libri e legno curato.
Una volta dentro, lascio scivolare le mie dita lungo le copertine di qualche libro e mi stupisco nel guardare scaffali a perdita d’occhio e altrettanti manoscritti perfettamente ordinati su di essi, la macchia umana ora ha volti ben precisi, taluni paonazzi agitano bicchieri e mappe della città, altri non sbattono neppure le palpebre mentre fanno il conto del tempo di attesa che rimane loro, tutti reclamano una passeggiata da Shakespeare & Co, un breve passaggio nel paradiso di un tempo lontano, è tempo di andare e lasciare entrare almeno uno di loro.
Proseguo per Rue de la Huchette mi ritrovo accanto alla fontana Saint-Michel, dove turisti e abitanti di Parigi s’incontrano per il tempo di un respiro, così l’arcangelo San Michele armato dalle virtù cardinali (Forza, Prudenza, Giustizia e Temperanza) incontra due chimere alate. Colonne immobili di granito rosa guardano le stagioni passare, i volti e mercatini artigianali cambiare e l’eterno combattimento tra male e bene ripetersi, dualità da cui nessun uomo o donna può scappare.
Con l’immagine del drago ancora impressa nella memoria risalgo verso Shakespeare & Co, e mi ritrovo quasi per caso davanti alla Chiesa di San Severino, luogo scelto per conservare la campana più antica di Parigi, XV secolo, quasi mi accecano i colori delle gocce dalle quali scorgo il Martirio di San Giovanni Battista.
Proseguo per la stessa via, sapendo che di lì a poco incontrerò una delle tante meridiane che la città possiede, una per ogni arrondissement, tranne il 17e.
Ed eccomi in Rue Saint-Jacques, al numero 27 osservo il viso di una donna a forma di Saint-Jacques, le capesante, in basso la firma dell’autore, Salvador Dalì, 1966.
Immagino l’artista istallare con le mani ancora sporche di nero l’incisione, sorridere soddisfatto pensando che è lì che si trova la linea retta dell’antico asse nord-sud creato dai Romani all’epoca di Lutezia, gira i tacchi e scende giù per la strada guidato dai raggi di sole nelle sopracciglia della donna che lo guarda allontanarsi, ricorda la via ai passanti.
L’esistenza schiuma d’imbarazzo,
latita di significato,
prorompe come tempesta d’agosto.
Viene per riscaldarti gli occhi,
non scolora dal nero,
articola balbetti di neonato.
Arriva per dissipare le paure,
poiché il passato è la nostra
guida, non più nostra rovina.
Eccomi arrivare al Pantheon, i miei occhi si fermano all’altezza del frontone, dove grandi lettere indicano da subito la destinazione del monumento «Aux grands hommes, la Patrie reconnaissante», ai grandi uomini, la patria riconoscente.
Con passi da formica mi muovo verso ogni lettera, come se la mia andatura volesse essere un tacito ringraziamento a tutti coloro che riposano per l’eternità all’interno di quel mausoleo. Ripenso a Victor Hugo, Émile Zola, Alexandre Dumas, Jean-Jacques Rousseau, Jean-Paul Marat, tra gli 81 prescelti solo 5 donne tra cui Marie Curie, Simone Veil e in ultimo nel 2021 la cantante e attrice Joséphine Baker.
Penso alla Sorbonne, chissà se nel cortile, tra un corso e l’altro, che se ci si concentra abbastanza, si possono sentire ancora le voci dei giovani che occupavano l’università nel ‘68 in nome della libertà, o se accanto alla cappella del XVII secolo, il Cardinale di Richelieu conversa coi suoi dirimpettai quando fuori piove.
La verità è ch’io di grandi temi
non so interessarmi. Formo e disfo opinioni
mentre ascolto canzoni in radio,
rimango interdetto dalle notizie pigre
che passano e non vivo nei dialoghi. Mi perplime
il commosso, l’austero, il giudice e il giudicato,
di lingue parlo molto nei sogni, ma restano
nelle pieghe delle braccia di chi mi dorme accanto.
Rimane il fatto compiuto di un passo lento
giù dalla montagna di cotone che ci avvolge.
Scendere le scale due a due per l’ultima
copia gratuita, mette al riparo la mia confessione.
Di quel grande sferracchiare gracco dei
bitumieri per la strada, ne prendo il suono
muto, lo stesso che riconosco nelle cene svogliate.
Il tuo ricordo per me è un dolcissimo freddo.
Ridiscendo verso la Senna mi perdo nelle piccole stradine che fiancheggiano la libreria, tra jam session e sacro silenzio degli spettatori nei club sotterranei e ticchettio di grandi bicchieri di birra tra le mani della gente in superficie, come le catacombe che attraversano tutta Parigi creano nuove pagine di storia nella notte.
Tu mi guardi.
Ed io non muoio.
Mi parli ed assapori.
E io non gelo.
È la fine?
Hai aspettato che,
su di noi,
franassero i palazzi,
che ci maledicesse la Terra.
Sopravvivo, ma non respiro già più.
****
Vorrei che tu comparissi sempre;
Ogni volta col vestito a righe a tendermi la mani.
Ricordarmi di sentire il tuo respiro.
Vorrei che tu fossi qui da ieri.
Vorrei che non dovessi andar via.
Vieni domani allora:
ti seguirò in ogni città che cambieremo in primavera.
Il sole è sparito, uno spicchio di luna segna il capolinea del mio tour, ma non il vostro, d’altronde il “Punto Zero” esiste per tutti coloro che lo immaginano.
Ora tocca a voi, con in mano le poesie che vi hanno accompagnato nel corso di questa lettura, scegliere la strada da prendere.
Due parole sul poeta che avete appena letto, Graziano Mazza:
Graziano Mazza è un poeta con base a Parigi, l’unica città che non gli ricorda il marmo di Roma. Ammaliato dai versi, tentato dall’arte, sedotto dalla finanza ma da sempre interessato al mistero del reale. Lo strumento della parola è usato per discendere e ascendere questa esistenza, attraverso l’unico di una quotidianità che porta in sé più segreti di quelli che riusciamo a comprendere. Ed è giusto così.