Le arti manuali di un tempo
Giovanni Maria Scupola
Imparavano un mestiere i ragazzini quando dalla scuola ci si allontanava ancora bambini.
I padri mandavano a bottega i figlioletti per far quadrare i conti di casa.
Li si affidavano ai bravi maestri falegnami, ai capomastri che dirigevano le maestranze apprestando la cura necessaria alle lavorazioni di cantiere.
Negli anni lontani, quelli del mondo contadino e dell’artigianato, in città o nei vari paesi, ve ne erano a frotte di apprendisti ancora in erba.
Si alzavano presto, prestissimo, con gli occhi di sonno nel buio d’inverno, i giovinetti che andavano ad apprendere i segreti di una onesta occupazione di fatica.
Li sosteneva il senso del dovere. La loro sorte era segnata: dovevano cominciare subito, in anticipo, a capire la vita attraverso l’impiego quotidiano, di discepoli che seguivano alla lettera i gesti dei grandi, depositari dei saperi manuali.
Molti mestieri, che per molte famiglie erano vita e sostentamento, sono quasi tutti scomparsi.
Le nuove generazioni non hanno conosciuto, né possono capire quel mondo, quella gente umile ma ricca di dignità e volontà.
Chi non ricorda le voci te lu cconzalimmure, te l’ombrellaru; chi non ricorda il rumore dei carretti che transitavano per le strade o lo scampanellare delle pecore e delle mucche o il battere incessante del martello sull’incudine.
Suoni e rumori stridenti ma dolci. Suoni particolari che si mescolavano con il canto degli spaccapietre, dei calzolai, delle massaie o delle donne impegnate nell’infilare il tabacco.
Forse le giornate passavano in modo più faticoso più disagiato, ma la vita decisamente scorreva più serena.
Vi era più umiltà, più amicizia, più onestà, vi erano rapporti veri, sinceri, leali.
Per i più anziani quelle immagini, quelle voci, quei suoni, anche se ormai lontani, rimangono ancora vivi, toccanti, sono ricordi di vita vissuta e mai dimenticati.
Per il progresso, in fin dei conti, bisognava pagare un dazio e noi, senza ombra di dubbio, lo stiamo pagando sulla nostra pelle.