2/3 – Il Profumiere Ebreo. Un racconto in tre puntate di Vincenzo Fiaschitello
Con infinita pazienza e precisione, Isaia rispondeva a tutte le domande dei ragazzi e a tutte le loro curiosità, fino a voler vedere il funzionamento dell’alambicco. Da un cesto prese una manciata di rosmarino, che aveva raccolto la sera prima, lo pesò e versò una quantità di acqua due volte superiore a quel peso. Introdusse una piccola ghiara che aveva il compito di separare l’acqua dal rosmarino e poi coprì l’alambicco con il coperchio. -“Ora, disse Isaia, accendo il fuoco. Quando l’acqua bollirà, il vapore attraverserà la piccola massa di rosmarino e verrà convogliato all’interno del collo di cigno della serpentina immessa nel contenitore dell’acqua fredda. Il vapore si condenserà e goccia dopo goccia colerà in questo vaso di vetro come olio essenziale. E’ il
processo di distillazione conosciuto sin dalla antichità”.
Isaia accennò anche a qualche curiosità storica come quella di Caterina dei Medici che, divenuta regina di Francia, portò con sé il profumiere Renato il fiorentino con i suoi muschinari e diffuse l’uso dei profumi in tutta la Francia secondo le sue famose ricette a base di canfora, noce moscata e zibetto. Richiamò alla loro attenzione l’interesse grandissimo degli antichi Egizi per unguenti e profumi, soprattutto in occasione di riti religiosi e per il trattamento del corpo dei defunti. Naturalmente non fece alcun accenno al segreto che gli aveva trasmesso il padre. Ma come in questa e in altre circostanze il suo pensiero non poteva fare a meno di concentrarsi sul fiore ignoto, di cui era instancabilmente alla ricerca.
Quando infine la comitiva, dopo aver ringraziato il profumiere, lasciò la casa, Luca sembrava il più emozionato. Sin da bambino amava leggere le fiabe e ora, uscendo da quel laboratorio, si portava viva la sensazione di essere stato nell’antro di un mago, nella dimora di chi ha il potere di trasformare, di cambiare la materia in sostanza arcana, vincendo ogni vincolo di legge naturale per mezzo di bilance, di formule, di numeri, di spinte forzate entro un cammino gorgogliante di bolle cariche di luce e di odore. I suoi occhi, sollecitati a seguire quel percorso, vedevano come in un sogno, bolla tra bolle, anche se stesso mutato in un piccolo essere stralunato, disperso e stupefatto, travolto da un inspiegabile sommovimento e rotolio dei sensi.
La giornata era stata abbastanza faticosa, la mattina l’insegnamento a scuola, il pomeriggio con quel gruppo di giovani amici che avevano dimostrato tanto interesse. Era una di quelle sere che la prima oscurità del cielo gli infondeva una certa malinconia per il trascorrere del tempo, un’ansia per il futuro, un rammarico per non avere ancora trovato il settimo misterioso fiore, nonostante tante prove.
Pensava: “Quando sarò vecchio, potrò dire che per tutta la vita ho coltivato fiori, ho accarezzato petali, ho rigirato tra le mie mani foglie e prima di pressarle, macerarle, ucciderle, le ho contemplate, pesate, odorate. E la mia anima ha avvertito la loro ansia di cambiare, di servire, di addormentarsi, strette le une alle altre, di tornare ad essere essenza volatile, incorporea, nuvola invisibile, emanazione di un fluido misterioso che avvolge il Tutto”.
Tutto meravigliosamente mescolato! Spezie, resina, mirra, incenso, canfora, sandalo, tutto per implorare la discesa dell’Eterno verso l’uomo, tutto per trasmettere messaggi ai morti, per purificare i loro corpi e accompagnarli nel viaggio di salita all’Eterno.
Quella sera i pensieri di Isaia si accordavano alla sua vista: il paese, con le sue
vie scarsamente illuminate, gli sembrava galleggiare in nuvole di fumo; il paese era vento, lontananza, impotenza e stanchezza. Le sue dita tremavano, gli sembrava di scorgere dappertutto macchie di fiori, ghirlande di erbe e, intorno intorno, odori gentili e profumi rustici e antichi di frutta e di fresche verdure. Pensava di restare là tutta la notte per riflettere e comprendere meglio ciò che lo turbava da quando il rabbino gli aveva imposto di stare lontano dalla comunità. Un pensiero gli recò improvvisamente un po’ di sollievo: andrò dal rabbino e gli aprirò il mio cuore.
Al mattino si svegliò molto presto. Era da poco spuntata l’alba. Sul vaso di fiori del davanzale della finestra cresceva una rosa bianca. Da vari giorni l’aveva curata con attenzione e passione. Ora inspiegabilmente sentì il bisogno irresistibile di coglierla. La tagliò a metà del gambo e cominciò delicatamente a sfogliarla, come si sfogliano i sogni o le pagine di un libro amato. In quel momento si udì il fischio di un treno che forava la prima luce del giorno. Ebbe uno strano presentimento. Raccolse i petali di quella rosa e li infilò in tasca, pensando che il loro profumo potesse infondergli coraggio in caso di pericolo.
La sinagoga era la casa del rabbino. Questi aveva ricevuto l’eredità del padre e del nonno, anch’essi rabbini, i quali avevano tenuto acceso il menorah, il candelabro a olio dai sette bracci, e le parole della Bibbia. Il rabbino, un uomo calvo, magro, di bassa statura, l’ultima volta lo aveva ricevuto con cordialità, nonostante la diversità di vedute sulla interpretazione delle Sacre Scritture. Nel tempio con il kippah in testa avevano pregato insieme, cantato e innalzato lodi a Dio e si erano lasciati con la promessa di rivedersi al più presto. Ma erano trascorsi ormai alcuni mesi da quell’incontro.
Che cosa era cambiato in tutto quel tempo? La posizione di Isaia restava sempre la stessa, anzi si era fatta ancora più pericolosa, per cui il rabbino gli aveva annunciato la sua volontà di tenerlo lontano dalla comunità. Isaia aveva approfondito la sua avversione riguardo alla ferma convinzione degli ebrei secondo la quale i libri della Bibbia furono scritti dai profeti, ispirati direttamente da Dio. Isaia, nonostante portasse il nome del grande profeta, riteneva che anche per i libri sacri fosse indispensabile adoperare il normale metodo storico per stabilirne l’autenticità, senza alcun riguardo particolare. Pensava all’assurda tesi dell’ispirazione. Nelle visioni più o meno fantasiose dei profeti non si può ammettere che essi abbiano scoperto una verità oggettiva o un principio di valore universale sotto il dettato di Dio. In realtà, mentre essi parlano di Dio, fanno riferimento a loro stessi, al loro temperamento, alla loro natura. Così per il profeta irascibile e vendicativo, Dio è iracondo e non dimentica la vendetta; per il profeta sereno e buono, Dio lo è altrettanto; per il profeta saggio e clemente, Dio si dimostra disposto a perdonare.
Immerso in queste riflessioni, Isaia percorreva la stradina in discesa verso la
casa del rabbino, quando a un tratto fu richiamato alla dura realtà dal latrato rabbioso di un cane randagio che gli si avventò contro. Istintivamente Isaia cominciò a correre, guardando a destra e a sinistra se c’era un luogo dove potersi rifugiare. Preso dal panico per l’avvicinarsi del cane, non si accorse di una piccola buca, inciampò e rotolò rovinosamente a terra. Il cane, come soddisfatto di quella vittoria sull’uomo, si limitò ad annusarlo e poi si allontanò. Isaia si rialzò dolorante e, zoppicando, tornò a casa, deciso ormai a rimandare l’incontro con il rabbino.
Era stato o no un evento miracoloso? Prendendo lo spunto da quell’episodio, in sé banale, a Isaia venne spontaneo continuare le sue riflessioni. Nella Bibbia ci sono molti esempi di miracoli come interventi di Dio nell’ordine naturale. Ma come è possibile ammettere che Dio possa infrangere le sue stesse leggi universali, in cui consiste la sua stessa essenza? Il miracolo, dunque, appariva a Isaia come una bestemmia, significava negare Dio.
Tra sé diceva Isaia:-“ La mamma di un bambino, azzannato ferocemente e ucciso da un grosso cane, si lamenta dolorosamente e piangendo dice a Dio perché ha permesso ciò. Perché? Perché’? Io invece sono rimasto indenne, ho soltanto sentito il caldo fiato del cane sul mio volto. Perché? Perché?”
Sdraiato sul divano con la gamba dolorante poggiata su un cuscino, Isaia cercava appena di dissimulare la sua malinconia, quando nel pomeriggio ricevette la visita di un collega del liceo, venuto a informarsi sull’incidente subito dall’amico.
– “ Caro Federico, disse Isaia, ti ringrazio per la tua premura. Temo che ne avrò ancora per qualche giorno; sarò costretto a restare a casa fino a quando non riuscirò a camminare dignitosamente”.
– “Ti vedo, oltre che sofferente per l’incidente, anche un po’ turbato. Hai forse avuto notizie di quel che si agita nella nostra politica? Ci sono inquietanti segnali di condivisione di idee da parte del nostro Duce con Hitler, che vuole estromettere gli ebrei dalla Germania. Si annunciano tempi tristi: radio e giornali sospingono all’odio razziale. In alcune città, gruppi di fanatici hanno picchiato gli ebrei e distrutto i loro negozi.”
-“Sì, Federico, tutto ciò mi preoccupa moltissimo, ma se a questo aggiungi il tormento interiore che mi nasce da una serie di dubbi, di incertezze spirituali legate alla mia religione, per cui sono stato allontanato dalla mia comunità, puoi ben capire il mio stato d’animo. Ma, poiché sei qui, mi farebbe piacere scambiare con te alcune idee. Tu sei cattolico, vero? Ebbene, questa mattina,
dopo lo strano comportamento del cane che non mi ha azzannato, stavo meditando sulla possibilità che Dio possa trasgredire le leggi naturali da Lui stesso stabilite con la creazione, accordando agli uomini il miracolo. La nostra esistenza è regolata dalla necessità di queste leggi, il nostro merito, la nostra più alta virtù consiste proprio nella accettazione di tali vincoli e non nel desiderio che vengano infranti, quando è in vista un nostro vantaggio: lo sfuggire a un pericolo, a una malattia, alla morte o anche più semplicemente per ottenere un favore. Se così fosse, noi avremmo Dio al nostro servizio: ecco perché nei momenti tragici, nella sofferenza, siamo pronti a dire che Dio ci ha abbandonati, che Dio è assente, che Dio si è chiuso nel suo terribile e misterioso silenzio. E gridiamo: perché, perché, perché? Perché Dio non interviene dinanzi a una catastrofe, dinanzi a una guerra atroce nella quale sono coinvolti migliaia di bambini innocenti, di uomini e di donne? Cosa diciamo alle madri che urlano di dolore al vedere un edificio scolastico crollato sulle tenere carni dei loro bambini? Non poteva Dio con la sua onnipotenza fermare il terremoto e salvarli?”
-“ Scusami, Isaia, ma io come cattolico credo che Dio sia Provvidenza, che la volontà di Dio sia imperscrutabile e che dunque non possiamo far altro che accettare questo mistero.”
-“ Ecco, Federico, il punto nodale è proprio questo. Secondo me possiamo accettare la concezione che Dio sia Provvidenza solo se la riteniamo impersonale. Ricordati che l’evangelista Matteo ha scritto che Dio fa splendere il sole sui cattivi e sui buoni e fa cadere la pioggia sui giusti e sugli ingiusti. Dio non può mettere in atto un intervento personale, particolare, in contrasto con l’ordine del mondo. Con la creazione è come se Dio stesso si fosse sottomesso alle sue leggi, per cui il creato è del tutto indifferente a ciò che accade: c’è una spietata regolarità, necessità, per cui dobbiamo pensare che tutto ciò che avviene è perfettamente conforme alla volontà del Creatore, il quale nell’atto del creare ha come posto una “distanza” tra sé e il mondo.
Qual è allora la vera fede? Che cosa deve fare l’uomo? Noi dobbiamo accogliere qualsiasi cosa, afflizioni e gioie, che il mondo ci dà con pari disposizione d’animo di ubbidienza e di amore. Lo stesso male che potremmo ricevere dagli altri non può che essere considerato come un male che ci viene inflitto dalla necessità della materia, priva di discernimento. La vera fede è, dunque, questa accoglienza, questa ubbidienza al Tutto, a Dio. Tutto è parola di Dio, la quale vibra anche nel più umile dei fiori, nel più miserabile filo d’erba che cresce tra gli interstizi di un muro. La nostra libertà consiste nel desiderare o non desiderare questa ubbidienza. Nel cammino di orientamento terreno la bellezza dell’universo gioca un ruolo fondamentale, in quanto aiuta l’anima a inclinarsi verso il sé e a restare nell’attesa umile di Dio, perché in realtà è Dio
che cerca l’uomo e non viceversa.”
Il colloquio si protrasse ancora per qualche minuto, poi si sentì bussare alla porta. –“Vado io ad aprire, disse Federico, non ti alzare”.
Ritornò subito dopo. –“C’è una vecchietta che chiede il permesso di andare in giardino per cogliere il solito mazzetto di ruta”, disse Federico.
-“Ah, sì, accompagnala per favore e farà in un attimo; grazie!”.
-“Sono curioso di sapere, disse Federico, a che cosa le serve la ruta”.
-“ E’ una vecchietta gentile e simpatica. Viene spesso a raccoglierla, perché dice che l’aiuta a calmare i suoi dolori di stomaco. Ma io non le credo. Sono sicuro che le serve per evitare il malocchio. Più di una volta l’ho incontrata per strada e ho visto che dalla tasca del grembiule spuntava un rametto di ruta! Mah! Se questo le dà sicurezza, va bene così. Non ti pare?”
I due amici si salutarono con l’augurio di rivedersi presto a scuola.
Dalla Germania giungevano terribili notizie. Dopo l’uccisione di un alto funzionario dell’ambasciata tedesca a Parigi da parte di un ebreo, in Germania si scatenò la vendetta: centinaia di negozi ebrei furono dati alle fiamme, numerosi furono uccisi per strada o scovati nelle loro abitazioni. Da quel momento iniziò il terrore per gli ebrei in tutta la Germania. Allo scoppio della guerra, intere comunità di ebrei furono sistematicamente sterminate.
Hitler, come tutti i dittatori che si affidano alla organizzazione totalitaria dello Stato, forse sognava un genio capace di produrre un profumo così straordinario da avere il potere di paralizzare la volontà dei servi cittadini, o addirittura immaginava un intero popolo con un’unica testa da mozzare con un colpo solo di spada. Ma poiché si accorse che con le armi tradizionali, un colpo di pistola alla nuca, non avrebbe risolto il problema dello sterminio totale, ordinò l’istituzione di una commissione apposita per studiare il problema e per procedere alla scelta della migliore proposta. Nacquero, dunque, i ben noti campi di concentramento con camere a gas e forni crematori.
Con la promulgazione delle leggi razziali, gli ebrei italiani subirono umiliazioni e restrizioni gravissime, come la perdita della cittadinanza e il divieto di matrimoni misti. Isaia non poté più insegnare, fu licenziato come gli altri ebrei dai rispettivi posti di lavoro. Gli stessi ragazzi ebrei non poterono più frequentare le scuole pubbliche. Ma la sventura doveva ancora crescere. Dopo l’8 settembre 1943, le truppe tedesche presenti in Italia iniziarono la caccia agli ebrei e li deportarono in Germania. Anche a Isaia toccò lo stesso destino.
La guerra aveva sconvolto le abitudini, le relazioni umane, la miseria e la fame avevano indurito i cuori. Già sin dai giorni precedenti lo scoppio della guerra,
squadracce di giovani fascisti avevano alzato il livello dell’odio contro gli ebrei, distruggendo la sinagoga del paese, cancellando i simboli dell’ebraismo, bruciando perfino antichi libri e pergamene che avevano trovato nascosti in uno scantinato della casa del rabbino. Isaia aveva più volte subito il vandalismo di questi giovani e in uno degli ultimi attacchi, era stato appiccato il fuoco al laboratorio rendendo completamente inutilizzabile la grande caldaia dell’alambicco. Tutte le serpentine e ogni ampolla di vetro erano state frantumate. Da tutto quel disastro, era riuscito a mettere in salvo la famosa ampolla di profumo dei sette fiori e le due o tre boccette che contenevano le essenze più simili, ottenute dopo mille prove.
Un mattino all’alba, un drappello di fascisti, seguiti dalle SS tedesche, lo prelevarono da casa dandogli appena il tempo di portare con sé una piccola valigia di cartone. Insieme a un consistente gruppo di ebrei fu costretto a salire sul treno, diretto in Germania.
Fu un viaggio terribile. Ammassati in un carro bestiame soffrirono disagi di ogni genere, soprattutto la sete e la fame per cinque o sei giorni. Isaia, pur nell’immensa angoscia che lo attanagliava, imponeva a se stesso uno sforzo sovrumano per restare il più possibile lucido. Da una minuscola fessura tra un’asse e l’altra della parete del vagone, vedeva il mondo che lentamente scorreva: le case isolate della campagna, i piccoli borghi dove la vita continuava come sempre, i colori accesi dell’autunno, le prime foglie arrossate degli alberi, una mucca che ruminava tranquillamente e in lontananza un gregge di pecore. Poi, volgendo lo sguardo verso l’interno del vagone, scrutava quei volti impauriti, frastornati, stanchi, disfatti. Gli sembrò di conoscerne uno, quello di una giovane donna.
Gli occhi, la capigliatura, uno strano sorriso agli angoli della bocca, coincidevano perfettamente con l’immagine che conservava nella memoria. Sì, era proprio lei che, lungo la strada della sua abitazione, spesso incontrava e con la quale aveva scambiato sempre un cortese saluto, come si fa con tutti nei piccoli paesi. Ma com’era diversa ora! Una ragazzetta di circa sedici anni, forse sua parente, le stava quasi attaccata, impaurita, dimessa, con gli occhi smarriti. Sembrò che lo riconoscesse quando i loro sguardi si incrociarono; la donna lo salutò con un piccolo cenno del capo. Ora i loro destini si svelavano uniti verso la stessa direzione.
La terza ed ultima puntata sarà pubblicata domenica 17 aprile