IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

La scuola che non c’è. Un racconto di Vincenzo Fiaschitello. Terza e ultima puntata

Dipinto-di-Apreda-Giuseppe-Gli-amici-al-bar

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Vorrei completare questo mio discorso fuori della scuola, se me lo consentite. Vi avevo promesso che ero disponibile a conversare con voi anche in orario non scolastico, per cui vi do appuntamento sabato prossimo, dopo la vostra abituale visita al bar pizzeria. Vi aspetto sulla via che porta al Belvedere”.

Nei giorni seguenti i ragazzi si domandarono più volte che cosa avrebbe detto Grissino e per di più in un luogo un po’ equivoco, regno delle coppiette. Ma avevano capito bene? Grissino parlava proprio del Belvedere, che a quell’ora, dopo cena, era sicuramente al buio.

Stefano non risparmiò qualche battuta salace, ma specialmente le ragazze gli fecero capire che il professore non meritava certe stupide illazioni e se non intendeva partecipare era libero di farlo perché nessuno lo obbligava.

Venne la sera del sabato. Grissino camminava tutto solo lungo la strada che saliva al Belvedere. Ogni tanto si voltava indietro per vedere se arrivavano i suoi ragazzi.

Era già buio quando finalmente vide il solito gruppo di ragazzi inseparabili che si avvicinavano. Grissino li ringraziò per aver accettato il suo invito e li pregò di proseguire con lui fino a raggiungere il punto più alto da dove di giorno si apriva un paesaggio meraviglioso.

-“Scusi, professore, si affrettò a dire Viola che aveva faticato non poco con le sue scarpe eleganti, ma a quest’ora non si vede nulla!”

Il professore si limitò a sorridere e subito disse: “Restate in silenzio, prendetevi per mano e alzate lo sguardo verso le stelle!”

Simona che era la più vicina al professore, vincendo la sua naturale timidezza, cercò la mano del professore e gliela strinse, mentre con l’altra teneva quella di Elisabetta.

Stettero così, in fila lungo la ringhiera, con gli occhi puntati sulla volta celeste per almeno un quarto d’ora. Non una parola, non un calpestio, non un rumore lontano, nulla. Sentivano solo il loro silenzio. Era come un sogno, una emozione mai prima provata.

Grissino non aveva il coraggio di spezzare quella specie di incantesimo; infine, lasciando la mano di Simona, disse:

“Ora è tempo di tornare!”

I ragazzi come storditi, ipnotizzati, si sciolsero dal contatto delle mani, si mossero lentamente e seguirono il maestro.

Il giorno dopo, il professore commentò in classe l’esperienza vissuta la sera precedente: “Ho voluto ricordare con voi un momento magico che vissi da bambino oltre venticinque anni fa, quando frequentavo la scuola materna. La mia maestra, a cui devo quel momento straordinario che lasciò un segno di bellezza e di amore che da allora accompagna sempre la mia vita, evidentemente era una educatrice sensibile e colta. Aveva compreso tutto l’immenso significato della famosa “lezione del silenzio” di Maria Montessori e l’aveva voluto sperimentare con noi bambini, invitandoci a restare per un intero minuto in perfetto silenzio per udire soltanto il nostro respiro. E quel minuto in cui il tempo era come sospeso, che si ripeteva all’inizio di ogni giornata, era per tutti noi come la conquista di una vittoria sulle nostre braccia, sulle nostre gambe, che non riuscivano mai a fermarsi se non nel sonno. Era un guardarsi dentro e vedere l’immagine bella di una mamma sorridente e piena di gioia.

Ho voluto, dunque, richiamarvi a un silenzio interiore e invitarvi ad alzare lo sguardo verso la volta celeste, a non farvi schermare perennemente dallo schermo del vostro smartphone, perché possiate conquistare una sempre maggiore umanità. Alzare lo sguardo, restare nel silenzio, diventare più umani, significa amare la bellezza dovunque essa abiti, nel cielo stellato, nel paesaggio, in un dipinto, nel verso di una poesia, in una narrazione, in un atto di generosità e di altruismo, nella realizzazione di un ponte, nella scoperta di una medicina che salva la vita delle persone. Insomma se guardate con gli occhi di artista o comunque con occhi ricchi di umanità, ogni pezzo di mondo, ogni realtà, mostra la sua bellezza, degna di essere ammirata al punto da farci esclamare come Faust di Goethe: “Fermati, sei così bella!”

Tuttavia non dobbiamo dimenticare che il bello, nel corso di questa nostra esistenza terrena, è come il sacro, è misterioso, è una combinazione di gioia e di dolore, di altezza e di abisso; ci seduce e ci terrorizza, ci attrae e ci respinge.

Non dimenticate di leggere le grandi opere di letteratura, i classici. Non c’è nulla di meglio per apprendere tutte quelle sfumature dell’animo umano, dalla noia alla felicità, dall’odio all’amore,  dalla vigliaccheria al coraggio, dall’indolenza al sacrificio della vita fino alla morte.

E non dimenticate neppure che la nostra cultura occidentale, pur giustamente ritenuta fondamentale e di cui siamo orgogliosi, non è da considerarsi superiore a tutte le altre, esclusiva e completa. Ha anche manchevolezze, lacune, contraddizioni, che non è possibile ignorare. Un solo esempio. In occidente siamo stati capaci di costruire un’etica solamente destinata a frenare i conflitti tra le persone. Tutte le nostre norme morali non hanno tenuto nella giusta considerazione la salvaguardia della natura, il mondo vegetale e animale. Abbiamo assolutizzato il precetto della Bibbia che assegna all’uomo il compito di assoggettare la terra, il dominio sull’aria, sull’acqua, sulle piante e sugli animali. E solo ora ci accorgiamo del gran male che abbiamo procurato al nostro pianeta e per giunta non ci mettiamo ancora d’accordo sul come porvi rimedio. Se guardiamo alla cultura orientale, invece, vediamo come essa abbia esteso la sacralità alle acque, alle piante, ai fiori, agli animali. Ritenere sacra una mucca e vederla girare tranquillamente per le vie di una città dell’India, senza che nessuno la tocchi, a noi occidentali sembra una cosa assurda. La nostra etica solo raramente si è preoccupata di farci capire che abbiamo dei doveri verso la natura. Non abbiamo avuto neanche tante figure di santi che si siano distinti per il senso profondo dell’uno nel molteplice, che abbiano avvertito la gioia che pulsa e scorre nelle piante, nel sangue degli animali, se si fa eccezione per un San Francesco, che predica agli uccelli, che ammansisce il lupo, che chiama fratello il sole e il vento, sorella l’aria e l’acqua e infine prega:”Laudato sii, o mio Signore, per nostra Madre Terra/, la quale ci sostenta e governa e/ produce diversi frutti con coloriti fiori ed erba”. Sarà ancora Francesco a mettere il bue e l’asino accanto alla mangiatoia dove era adagiato il bambino Gesù, perché con il loro fiato lo riscaldassero.

Di rado una tenerezza simile la si può ritrovare presso altri personaggi del nostro mondo occidentale. Invece questa sensibilità, senza dubbio risalente all’antico pensiero animista che conferma la consapevolezza dell’unità di tutti gli esseri, è presente nella cultura indiana sin dalla poesia di Jayadeva con la narrazione dell’avventura di Krishna nell’opera Gita-Govinda e comunque in tutta la letteratura poetica da Kalidasa a Rabindraneth Tagore, morto a Calcutta nel 1941.

E’ molto importante, dunque, che noi occidentali assumiamo modi di pensare e comportamenti più rispettosi verso la natura e verso gli animali, liberandoci da quell’arido egoismo e dogmatismo che ha caratterizzato una gran parte del cristianesimo a partire dalla presunta autorizzazione a sfruttare la terra e l’infinita varietà delle specie animali concessa da Dio ad Adamo. Quella autorizzazione andava piuttosto interpretata come protezione, come intelligenza arbitrale e moderatrice e non certo come tirannia e indifferenza verso il resto degli esseri e del creato tutto. Probabilmente se gli uomini avessero riconosciuto una dignità, sia pur minima, al popolo degli animali, che spesso vediamo maltrattati e fatti oggetto di orrende stragi, non avremmo avuto quella infinita crudeltà e indifferenza verso le sorti di tanti innocenti esseri umani, come nella tragedia della Shoah”.

I ragazzi commentarono a lungo i temi trattati con tanta passione dal professore, al quale ormai si sentivano profondamente legati, confermando che la passione genere passione. Avevano ragione i greci quando dicevano che la cultura, l’insegnamento ha a che fare con l’amore, con l’eros. Se tra il docente e il discente non corre l’affettività, la simpatia, la stima, non può esserci alcun vero apprendimento.

Una di quelle sere giunse la notizia che non avrebbero mai voluto ricevere, una notizia temuta. Da qualche tempo sapevano che Stefano li evitava di proposito, si rifiutava di ascoltare i loro vuoti discorsi come diceva e preferiva stare con alcuni giovani più grandi di lui, che avevano la sua stessa passione per lo scooter e per la droga. Fu appunto in uno di quegli incontri per una stupida sfida che Stefano, impegnato a guadagnare terreno in curva, si rifiutò di rallentare e volò con la moto contro il muretto di recinzione di una casa.

La disperazione dei genitori, il dolore sincero dei suoi compagni di scuola, lo accompagnarono per tutto il tempo che rimase in coma. I ragazzi con il permesso dei medici si alternavano ogni giorno al suo capezzale per parlargli e fargli sentire suoni e voci familiari, finché diede un primo segno di risveglio un pomeriggio quando il professore (anche lui aveva voluto partecipare a quel benefico “bombardamento”) gli sussurrò all’orecchio: “Stefano, ascoltami, è Grissino che ti parla!” Si vide chiaramente che il ragazzo mosse leggermente le labbra come per accennare un sorriso e alzò le palpebre per un attimo. Aveva certamente percepito la voce del professore e l’ironia della accettazione del soprannome che gli avevano affibbiato.

Finalmente dopo un mese di coma, i medici poterono dichiararlo salvo. Fu necessario ancora un altro mese di cure intense prima

che una mattina Stefano potesse ritornare a scuola, accolto con gioia dai suoi compagni. E ora per lui ricominciava una vita nuova.

Grissino, dopo il grave incidente occorso a Stefano, osservando attentamente i suoi studenti, aveva la sensazione che qualcosa

fosse cambiato. Li vedeva più controllati nei gesti, nel modo di muoversi, di parlare. Li trovava d’improvviso cresciuti. Quella esperienza aveva lasciato una traccia importante nella loro vita. Era come se ciascuno di loro fosse passato da una condizione di instabilità, di inquietudine, di perenne insoddisfazione e ansia, a uno stato di interiore stabilità per essere giunti ormai a un passo dal comprendere il senso della vita, intimamente connesso al senso del limite, di cui i greci erano stati maestri.

L’anno scolastico si avviava alla fine. Il preside del liceo aveva più volte percepito che tra i colleghi professori non c’era quella auspicabile intesa per un piano didattico coerente e ben raccordato in tutti i suoi aspetti disciplinari. Avvertiva soprattutto una solidale posizione di avversione nei confronti del professore Vitale. L’ultimo consiglio di classe, in effetti, si era svolto in un clima tempestoso. Tutti i colleghi rimproveravano al professore Vitale di non tenere conto del programma ministeriale e di perdere troppo tempo nel cercare di scoprire gli interessi dei ragazzi e nell’ascoltare i loro problemi.

Invano il professore Vitale aveva sollecitato i colleghi a fare altrettanto per  conoscerli uno per uno e  aiutarli a superare certi atteggiamenti tipici della loro età, quali l’indolenza, la violenza, la demotivazione, l’angoscia per l’imprevedibilità del futuro.

-“E questo, diceva, si può ottenere non certo misurando freddamente le prestazioni dei ragazzi, così come fa la nostra società dominata dal consumismo che ci vuole sempre in gara, sempre ai primi posti, sempre perfetti per sperare di non essere scartati. Purtroppo questo atteggiamento si ritrova con lo stesso spirito nella scuola, quando pretendiamo di valutare oggettivamente mediante i test e non invece ascoltandoli parlare, aiutandoli a comunicarci mediante la narrazione il loro modo di percepire il mondo e la natura dei problemi della vita contemporanea, quando ci disinteressiamo dei loro sentimenti, rinunciando a educarli. Non c’è educazione e nemmeno cultura se non si ricorre anche all’affettività, al cuore. Finché guardiamo i loro occhi soltanto con l’unica intenzione di osservare se per caso le pupille sono dilatate a causa del probabile uso di droga e non con la speranza della presenza della meraviglia per aver tentato di trasmettere loro la bellezza, mediante la letteratura, l’arte, la filosofia, esiste il rischio concreto che la loro vita si spenga.”

Quelle parole erano seguite con attenzione dal preside, ma con vivo disagio e indignazione da parte degli altri presenti, finché uno di loro sbottò: “Caro collega, quanto tu dici potrebbe essere anche giusto, ma ricordati che noi abbiamo il compito di fornire quella quantità di conoscenze stabilite dai programmi ministeriali, che giudici ben più severi di noi misureranno con rigore e che comunque noi dobbiamo insegnare agli studenti un metodo di studio”.

-“Ringrazio il collega, intervenne ancora il professore Vitale, mi sembra che le sue parole in un certo senso si avvicinano alla mia tesi, ma nel contempo non posso che rammaricarmi per il fatto che vi sentite soggiogati dal programma. Approfondire la conoscenza degli studenti non credo possa essere in contrasto con la comunicazione di un sapere, a condizione che non si riduca a nozionismo. Quanto al metodo, anche io posso dire che esso ha una grande importanza, ma vorrei portare la vostra riflessione sul fatto che esso non può insegnarsi in astratto, nel senso che possa essere oggetto di studio di regole e di approccio alla disciplina. Esso si apprende in cammino, se non vogliamo ripetere l’errore che si fa con lo studio della grammatica scissa dalla lingua”.

Il Consiglio di classe fu dichiarato chiuso. Tutti si alzarono e ciascuno restò fermo sulle sue convinzioni.

Il giorno dopo la giornata scolastica iniziò e continuò con lo stesso ritmo di sempre. Durante la pausa, come al solito, i professori si ritrovavano nella sala a loro riservata, chiacchieravano, ridevano o si lamentavano secondo i fatti del giorno. Gli studenti si affollavano nei corridoi, schiamazzando.

L’unico a non entrare nella sala dei professori era Grissino, il quale preferiva osservare i ragazzi e intervenire nelle loro discussioni. Gli studenti gli volevano bene.

Spesso, quando si allontanava da scuola al termine del suo orario di lezioni, era solito dire tra sé: “Com’è difficile raggiungere il cuore degli uomini!”

Il racconto che con questa terza parte si conclude oggi.

Il Racconto “La scuola che non c’è” è stato tratto dal libro di Vincenzo Fiaschitello “Ginevra Sforza, racconti storici e non” la cui recensione a cura di Serena Rossi è consultabile su questa rivista attraverso il seguente link: Ginevra Sforza, racconti storici e non. Recensione di Serena Rossi – IL PENSIERO MEDITERRANEO

GINEVRA Sforza un libro di Giovanni Fiaschitello
GINEVRA Sforza un libro di Vincenzo Fiaschitello
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