La scuola che non c’è. Un racconto di Vincenzo Fiaschitello. Seconda puntata
La scuola che non c’è
Grissino sfoggiò il suo abituale sorriso girando lo sguardo verso gli studenti che attendevano la risposta. Poi, pur a malincuore, rispose di no, ringraziando comunque dell’invito.
-“Vi dico di no, perché non lo trovo opportuno, ma consideratemi sempre disponibile per continuare il nostro discorso anche fuori di scuola. Per questa volta facciamo come i napoletani: vi lascio un “sospeso” al vostro bar della sera”.
Quel sabato sera i ragazzi brindarono alla salute di Grissino, come ormai lo chiamavano familiarmente. Ma quell’idea di essere soltanto pezzi di ricambio per la specie umana, certo li rendeva inquieti. Beatrice, che aveva sempre in mente non so quali e quanti progetti per il suo futuro, restava particolarmente turbata.
-“Ma perché non proviamo ad essere più sinceri, intervenne bruscamente Marco, Grissino ci ha detto come la pensavano i greci. Se la morte ci attende a ogni passo, come facciamo a parlare ancora di progetti? Per costruire un futuro abbiamo bisogno di vincere la morte, altrimenti sono tutte chiacchiere, a meno che per progetti non intendiamo aspirazione continua al possesso di oggetti, magari sempre più potenti e più sofisticati di quelli che già abbiamo. Se proviamo a chiedere a Stefano che non si stanca mai di pavoneggiarsi con il suo motorino, certamente verificheremmo che nel suo spazio di desiderio c’è solo il progetto di possedere quanto prima una vera moto potente e veloce”.
A quel punto Edoardo che non aveva voglia di suscitare una sgradevole discussione tra i due amici, fece la proposta che quella questione sarebbe stata posta all’attenzione del professore la settimana seguente.
Grissino si compiacque che i suoi studenti fossero ormai diventati veri rompiscatole. Riprese, dunque, il tema che stava loro a cuore, facendo notare come la diffusione del cristianesimo cambiò radicalmente il concetto di morte e portò alla nascita della storia. Se per i greci la morte era la fine naturale della vita dell’uomo al pari di qualsiasi altro essere della natura (animale, pianta, ecc.) e la narrazione degli accadimenti non era altro che la loro ripetizione pressoché simile di eventi (malattie, pestilenze, guerre, catastrofi, ecc.), per la religione cristiana la morte non è più morte, ma vita eterna. L’uomo muore, ma alla fine dei tempi risorgerà con il suo corpo, così com’è stato per Cristo, morto in croce.
Quando l’apostolo Paolo, l’antico persecutore dei cristiani, si presentò nell’Areopago di Atene e annunciò questa strabiliante verità, gli ascoltatori lo interruppero e lo invitarono ad andarsene, dicendogli che quella verità l’avrebbero ascoltata un’altra volta!
Se all’uomo, dunque, si apre la strada verso l’immortalità si hanno due importanti conseguenze, tra loro collegate: la prima è che la narrazione degli eventi umani è storia, nel senso che il tempo che raccoglie i fatti e li interpreta non è un tempo ciclico, ripetitivo, ma è un tempo escatologico, una continua ascesa dell’essere umano verso l’alto, magari costellata di cadute e di vittorie, di male e di bene, ma sempre verso una meta suprema che è quella della salvezza; la seconda conseguenza è che l’individuo, ogni singolo uomo ha un futuro, ha un progetto, anzi è lui stesso un progetto di Dio, sin dall’istante della creazione.
Vi lascio a questo punto perché possiate riflettere e portarmi le vostre opinioni dalle quali partiremo per riprendere la nostra conversazione.
Negli incontri serali i ragazzi concentrarono la loro attenzione sul tema del progetto di vita, sul futuro. Concordarono sul fatto che la religione cristiana l’aveva spuntata sul naturalismo venato di pessimismo del pensiero greco e che aveva dato vita a radici profonde alla cultura occidentale. Ma non avevano dubbi che il momento storico nel quale si trovavano a vivere non presentava più quella fondamentale caratteristica, improntata a una visione ottimistica di redenzione che generava nell’uomo fiducia, impegno, desiderio di bene e di bellezza, cioè in una parola il progetto.
-“Se ci guardiamo attorno, dice Edoardo, non vedo altro che noia, indolenza, disgusto per l’esistenza, volontà di annullare qualsiasi spazio di desiderio. Perché tutto questo? Qual è stato lo sviluppo del pensiero, quale realtà storica ci ha condotto a una simile situazione esistenziale e culturale?”
Quelle domande furono oggetto di ampia considerazione da parte del professore e richiesero una trattazione che si sviluppò nel corso di più di una lezione.
-“La religione cristiana, cominciò il professore, ha il suo fondamento sulla parola della Bibbia, sulla Verità rivelata dai profeti e da Gesù. Il monoteismo cristiano si diffuse e si affermò anche grazie alla proficua utilizzazione della cultura greca, un po’ come le chiese cristiane costruite sui resti dei templi pagani. Pensate alla operazione culturale del santo filosofo di Tagaste, Sant’Agostino, che introduce il concetto di anima, prendendola in prestito da Platone. Questi ne aveva parlato in relazione al problema della conoscenza, cioè non come una entità ma soltanto come una modalità più elevata per rappresentarci la realtà, non potendoci accontentare della superficiale conoscenza fornitaci dai sensi. Con Sant’Agostino l’anima diventa il soffio vitale del corpo, quella entità che sopravvive al corpo al momento della morte, assicurando all’uomo la salvezza eterna o la dannazione. Si sviluppa così quel dualismo anima-corpo che ispirerà tutta la cultura occidentale, da Cartesio a Schopenhauer, alla fenomenologia di Husserl. Il concetto di anima consente all’individuo di immaginarsi un futuro, di costruirsi un progetto e quindi di dare un senso all’esistenza. Se siamo inseriti in un disegno, il tempo dell’uomo diventa storia, cioè cammino verso una meta migliore del presente, aspirazione ad una condizione positiva, il che rende sopportabili e accettabili anche la sofferenza, il male, ogni forma di sventura, la morte stessa.
Nella logica della religione cristiana non trova più posto il mito dell’età dell’oro. In un passato che si perde nella notte dei tempi non c’è alcuna positività, ma al contrario c’è il male, la ribellione, il peccato di Adamo; a questo segue il tempo della redenzione, della lotta e della ricerca che è quello del presente. E infine, come tempo futuro, c’è la positività e la salvezza. Questi tre momenti (un passato negativo, un presente di lavoro, di fatica, di lotta per riscattarsi, un futuro positivo), li troviamo in tutti gli aspetti della cultura occidentale: religione, filosofia, economia, politica, scienza, ecc. Si va sempre da uno stato di precarietà a uno stato di miglioramento, di progresso. Pur se sembrerà strano, questo percorso che è a fondamento del pensiero cristiano, è presente anche in autori insospettabili come Marx e Freud. Sia nel primo che nel secondo, il percorso è ottimistico: si va da una società negativa al successo della rivoluzione, dalla malattia che ci procura l’abisso dell’inconscio alla guarigione.
Seguendo questo sviluppo delle idee, verso la fine del 19° secolo, Federico Nietzsche scuote l’albero cristiano dalle sue radici, parlando di “cielo vuoto” e della “morte di Dio”. Pensate alla centralità della religione cristiana nel Medioevo: le Cattedrali, le Università, la Scolastica, le potenti raffigurazioni pittoriche da Giotto in poi, le stesse Crociate al grido di “Dio lo vuole”, ecc.
Pensate alle stesse guerre di religione, che poi erano sempre guerre terribili di potere, alla Riforma e alla Controriforma, ecc.
E’ chiaro che quando a un certo punto si sente l’annuncio di Nietzsche che Dio è morto, accade che tutto è da ripensare, che siamo obbligati a modificare la nostra visione della vita, paragonabile a quel che succede all’individuo quando raggiunge l’adolescenza: tutto il suo essere ha bisogno di riadattarsi al mondo, nel momento in cui si allontana dallo stato di bambino; si modifica il suo corpo, si modifica il suo modo di percepire la realtà, il suo essere al mondo.
Se prima l’idea di Dio era al centro di tutta l’esperienza umana garantendo stabilità di interpretazione del mondo, dagli aspetti più complessi a quelli più pratici e di comportamento della vita sociale e individuale, ora sembra crollare tutto per la perdita della chiave fondamentale. Gli adulti sono smarriti, i valori della tradizione non più accettati dalle nuove generazioni, le quali non sanno più che farsene della loro cosiddetta esperienza tanto vantata. A maggior ragione sono i giovani a trovarsi nella tempesta. Se si domandano che senso ha la loro vita, la risposta immancabilmente diventa che l’esistenza è priva di scopo, che non vale la pena di impegnarsi, che non c’è alcun valore per il quale si possa accettare il sacrificio, la sofferenza, la fatica, ecc. Dietro l’angolo li aspetta l’angoscia, la noia, l’infelicità. Ed ecco allora che la via più spicciola per uscire illesi da queste negatività non sembra nulla di meglio che rifugiarsi nell’alcol, nella droga, nel conformismo, nella moda e a tutte quelle offerte a cui, a buon mercato o ad alto costo, l’economia ci spinge a ricorrere, mediante la pubblicità.
E’ necessario per tenere alto il livello di vita di una nazione che si accetti senza discutere la legge del consumismo. L’usa e getta diventa l’esperienza quotidiana di tutti. Ogni prodotto è programmato per avere una vita limitata, ha una scadenza così come avviene per i prodotti alimentari. Per avere ricchezza, continua crescita economica, un paese ha bisogno di produrre sempre di più e quindi gli oggetti, anche se in buone condizioni e funzionanti, debbono essere considerati invecchiati, superati, annullati da altri più attraenti, nuovi e desiderabili. Ma naturalmente per rispettare tale legge occorre che il denaro circoli. Al dio denaro si inchinano tutti e per averne a sufficienza non ci si fa scrupolo di agire anche illegalmente, anche calpestando valori e principi morali.
Nella nostra società l’economia è il luogo privilegiato per prendere le decisioni politiche. Si ricorre ai tecnici, ai comitati scientifici che meglio possono dare lumi per guidare i popoli. L’unica tensione che attraversa la vita degli uomini, l’unico scopo, l’unico progetto ritenuto valido è la soddisfazione dei bisogni personali. E’ più che legittimo pensare che siamo molto lontani dall’idea di politica di Platone, come azione nobile e giusta dei sapienti, decisa in favore del bene della polis.
Credo che sia opportuno che mi fermi qui, non prima però di ricordarvi una cosa molto importante. Queste mie sommarie riflessioni, le esperienze che ciascuno di voi fa come la lettura di libri, la visita ai musei, la partecipazione ai concerti, agli spettacoli teatrali e ad altro, costituisce tutto ciò che va sotto il nome di cultura.
Come sapete il termine cultura deriva dal latino colere e ha a che fare con la terra, coltivare la terra (agricoltura). E la terra si coltiva con la fatica, con il sudore della fronte, con il sacrificio, tutte cose che fanno pensare alla cura di un seme che deve crescere, mettere foglie e fiori. Ebbene, se la cultura richiama queste idee, vuol dire che non ha nulla a che vedere con il concetto di possesso, proprio dell’economia. La cultura non è possesso di oggetti e quindi consumo di spettacoli teatrali, di libri, di mostre, di musica, ecc., ma è un campo, uno spazio in cui possiamo esercitare tutta la nostra umanità, la nostra gioia di vivere, contemplando la sapienza e la bellezza. Quello che conta è il nostro sguardo, che purtroppo non è sempre quello giusto. Quante volte vi è capitato di leggere un libro, una frase, di guardare un quadro, un panorama, di incontrare gli occhi di una persona e restare indifferenti o quasi. E invece altre volte, dinanzi allo stesso libro, alla stessa frase, allo stesso quadro, allo stesso panorama, alla stessa persona, misteriosamente avete sentito dentro un sussulto, qualcosa che vi ha preso l’anima, che vi ha colpito e scolpito dentro. Ecco è questo il miracolo della cultura. Quando credevate di aver dimenticato tutto quel che avete letto, studiato, conosciuto, vi risorge dentro come una “musica”, come una voce che vi attrae e magari vi fa spuntare negli occhi una lacrima. E allora sarà come vedere quelle cose abituali che vi circondano, come attraverso un velo che gli dei hanno steso per voi, per darvi nuovi occhi.
Se poi ritenete che dietro quegli occhi si celino certe persone speciali che vi sono state a fianco, certi maestri che vi hanno fatto da guida, tanto meglio. E’ così che continua la fioritura della vostra umanità. La cultura ha questo di infinitamente grande: apre dentro di noi uno spazio che ospita la sapienza e la bellezza. Senza questo campo interiore l’uomo non può vivere. Quando non si ha nulla da coltivare, ci attanaglia la noia, l’indifferenza, il peso della vuota quotidianità.
La terza e ultima puntata il prossimo 22 marzo
Il Racconto “La scuola che non c’è” è stato tratto dal libro di Vincenzo Fiaschitello “Ginevra Sforza, racconti storici e non” la cui recensione a cura di Serena Rossi è consultabile su questa rivista attraverso il seguente link: Ginevra Sforza, racconti storici e non. Recensione di Serena Rossi – IL PENSIERO MEDITERRANEO