La scuola che non c’è. Un racconto di Vincenzo Fiaschitello a puntate
La scuola che non c’è
L’anno scolastico era iniziato da una quindicina di giorni e, come al solito, le ore di lezioni non erano complete in alcune classi del liceo scientifico Ettore Majorana. Tra gli altri mancava il professore di filosofia del corso B, un corso tradizionalmente piuttosto “agitato” che, dopo vivaci proteste dei ragazzi e dei loro genitori, si era sbarazzato dell’anziano docente di filosofia, il quale con impressionante rigidità portava avanti il suo insegnamento badando esclusivamente al programma ministeriale, a interrogare, ad accusare gli studenti di indolenza, di mancanza di interesse e di idee. La sua era diventata una posizione talmente scomoda e insostenibile che aveva finalmente accolto l’invito del preside a chiedere il trasferimento ad altra scuola.
Quei ragazzi, dunque, soprattutto quelli dell’ultimo anno, erano ansiosi di conoscere il nuovo docente.
Una mattina, Elisabetta, entrata in classe con lieve ritardo, diffuse la voce che le sembrava di aver intravisto nel corridoio un professore sconosciuto che poteva essere il docente di filosofia.
-“Che delusione, ragazzi, è vecchio grasso e pelato. E credo che sia anche maleducato o sordo, perché non ha alzato nemmeno lo sguardo e non ha risposto al mio saluto”.
Ma quel giorno nulla di nuovo.
La mattina seguente alla prima ora apparve sull’uscio dell’aula con un sorriso accattivante un giovane, alto, magro, con gli occhi azzurri, con i capelli e la barba biondi, sui trent’anni, che salutando si avviò con passo tranquillo verso la cattedra. Portava una grossa scatola di cartone e reggendola con entrambe le mani la posò accanto a sé.
Si era fatto un gran silenzio, in attesa che il professore si presentasse. E poiché l’unico docente che mancava era quello di filosofia, per un attimo tutti gli occhi si volsero verso Elisabetta, che si era così clamorosamente sbagliata il giorno prima.
Allora la ragazza, quasi per farsi perdonare la gaffe si alzò e se ne uscì con un “Benvenuto tra noi, professore, a nome di tutta la classe!” Il professore un po’ sorpreso ringraziò e con poche parole si presentò.
Le ragazze, più dei ragazzi, si chiedevano che cosa potesse contenere quello scatolone, portato con tanta cura e sforzo sulla cattedra.
-“Provate a indovinare”, disse il professore Carmelo Vitale.
Fu un susseguirsi allegro di ipotesi. Fra le prime ovviamente ci furono quelle che contenesse libri, quaderni, appunti, registri e cose simili. Poi qualcuno abbandonò l’idea della scuola e passò agli oggetti personali: vestiario, scarpe… Altri azzardarono l’ipotesi che contenesse del cibo da donare alla Caritas. Tutte ipotesi che vennero respinte con un sorriso dal professore, il quale finalmente si decise a soddisfare la loro curiosità: “Niente! Grazie per aver provato a indovinare. Niente! Ve lo dico io, non c’è niente. E’ completamente vuota”. E così dicendo, assestò un bel pugno sulla scatola, la schiacciò e l’aprì, fino a mostrare che era vuota.
-“Ecco vedete, disse, questo per farvi sapere da subito che io sono un rompiscatole. Avrei potuto dirvelo con una sola parola, senza mettere su questa sceneggiata, che qualcuno di voi avrà trovato buffa o ridicola, ma ho preferito così, proprio per farvi constatare che possiamo esprimerci non solo ricorrendo al linguaggio, ma anche e forse più efficacemente, al nostro comportamento. A volte le cose, le emozioni, i sentimenti, se non riusciamo a rivestirli con le parole, li esprimiamo con il nostro corpo, con le nostre azioni, con i nostri gesti. E’ chiaro che si tratta di un linguaggio più immediato, senza dubbio più primitivo, perché se fossimo rimasti a questa forma di comunicazione, non avremmo avuto le opere di artisti, di letterati, di filosofi. Ma per il momento restiamo alla nostra specifica metafora: rompiscatole. Io sento di esserlo, così spero che lo siate anche voi o che lo diventerete con il mio aiuto. Diventare rompiscatole nel senso che nulla di ciò che vi si presenta quale oggetto di studio, di apprendimento, dovrà essere accolto passivamente. Tutto dovrà filtrare attraverso la mente e il cuore”.
Quando la sera il solito gruppetto di ragazzi si ritrovò in piazza, fu inevitabile lo scambio di opinioni sul professore di filosofia.
-“Non c’è dubbio che è molto simpatico”, diceva Viola.
E Edoardo aggiunse:” A me l’idea del rompiscatole non sembra malvagia”.
E Beatrice completò: “Forse conviene riparlarne per approfondire meglio il significato”.
Marco che era il più sfigato del gruppo disse:” Secondo me non ce ne sarà bisogno perché vedo che state tutti quanti sulla strada giusta per diventare rompiscatole; finisce che vi lascio al vostro triste destino!”
Il giorno dopo il professore con il suo sorriso rassicurante tornò in classe e come se avesse captato i pensieri dei suoi studenti riprese, con tono più serio e intenso di quello del giorno prima, il suo punto di vista riguardo al concetto di rompiscatole.
-“Vi premetto che per almeno il primo mese non intendo frastornarvi con una sfilza di nomi di filosofi e con la relativa esposizione delle loro teorie. Questo è un modo piuttosto infruttuoso di studio che al massimo vi dà una informazione superficiale sulla storia della filosofia. A me interessa che voi troviate una attinenza tra quello che voi siete, tra la vostra vita, la realtà, nella quale agite e ciò che il pensiero filosofico ha saputo produrre per trovare risposte ai problemi della conoscenza, dell’etica, della politica, della religione, dell’economia, ecc. E dunque per non dilungarmi troppo, cominciamo dal perché vi ho detto che vi voglio rompiscatole.
Partiamo dall’esame del come voi siete. State lasciando o avete già da poco lasciato la meravigliosa ma difficile età dell’adolescenza per accingervi a vivere un’età fondamentale durante la quale, appunto, ponete le “fondamenta” della vostra vita, grazie a quella massima potenza biologica e creativa che possiede il vostro corpo, almeno fino ai trent’anni. Tutto o quasi sarà deciso per il vostro futuro entro l’arco di vita di questo speciale periodo. Pensate ai geni dell’umanità che hanno dato il meglio di sé entro quell’età, da Einstein a Schopenhauer a Mozart, per non parlare di coloro che più recentemente hanno messo a punto teorie e tecniche informatiche di cui ci serviamo e di cui non possiamo più fare a meno.
-“Professore scusi, obiettò uno studente, come spiega allora che gli adulti in genere sono sempre pronti a metterci alla gogna, a criticare le nostre scelte, il nostro modo di vivere, di pensare, di voler provare sempre nuove esperienze?”.
-“La dissonanza, il contrasto tra genitori e figli, tra generazioni, è sempre stato presente nella società. Ma oggi è particolarmente avvertito a causa della gravissima crisi che stiamo attraversando. Gli adulti non hanno ancora preso coscienza che oggi la loro esperienza di vita risulta pressoché inservibile ai giovani. Essi giudicano le azioni, i comportamenti della vita giovanile secondo parametri invecchiati, superati, per cui dinanzi all’indolenza, alla noia, alla violenza gratuita, alla negligenza, allo spregio delle regole, al ricorso all’alcol e alla droga, rimangono scandalizzati, richiamano alla memoria il loro tempo e reclamano interventi punitivi. Domandiamoci, dunque, quali possono essere i motivi che spingono i giovani a invischiarsi in comportamenti così negativi. Vi invito a riflettere su questo punto”.
Edoardo, che si distingueva per la passione per la filosofia, prese l’invito del professore come l’occasione giusta per dare inizio a una buona abitudine fra gli amici del gruppo. Lanciò l’idea che a ogni fine settimana, dopo la pizza e una buona birra, avrebbero messo da parte i discorsi sullo sport, sui motori, sulle rivalità amorose, per dedicarsi al commento degli spunti culturali che presentava il professore e che a suo giudizio sembravano molto attinenti ai loro bisogni di conoscenza di sé e del mondo. L’idea fu presto condivisa, tranne che da Stefano e da Marco. Il primo perché dopo cena amava fare lo sbruffone con quelli che avevano i suoi stessi interessi dei motorini più o meno potenti; il secondo perché dopo la sbornia delle chiacchiere dei suoi amici, preferiva ritirarsi in luoghi appartati dei giardini appena fuori del paese.
Gli altri cominciarono a discutere. Simona, che passava per la poetessa del gruppo e per una accanita lettrice, pensò bene di comunicare ai suoi amici quale fosse la ragione dei suoi turbamenti giovanili. Non era certo la mancanza di sogni (ne aveva tanti sparsi qua e là nei cassetti della sua cameretta!), ma la brevità della vita, sulla quale ricordava che gli antichi avevano scritto con saggezza, come Cicerone e Seneca. In particolare a lei piaceva tanto l’espressione di Edoardo De Filippo, quando diceva che “la vita è una affacciata alla finestra”. Espressione questa, tipica di uno spirito napoletano arguto e melanconico, come era il grande attore. Ma nella sua memoria navigava come barca inaffondabile una potente immagine poetica di Beda il Venerabile, trascritta da Marguerite Yourcenar nel libro “Il tempo, grande scultore”. La vita è come un passero che in pieno inverno entra nel salone di un castello dove arde un buon fuoco; attraversa rapido il salone e esce dalla parte opposta tornando al freddo dell’inverno. L’immagine di quell’uccello che viene non si sa da dove e va non si sa per dove, è proprio il simbolo del passaggio dell’uomo sulla terra.
-“Come si fa, concludeva Simona, a non interrogarsi sulla nostra antevita e sul nostro postvita: da dove veniamo, dove andiamo? Tu, Edoardo, che pensi della morte? L’amore per la filosofia che cosa ti ha insegnato di più, rispetto a noi?”
-“Su questo tema, rispose Edoardo, anche io mi sono posto molti interrogativi, ma mi accorgo di essere rimasto in linea con quanto la religione cristiana insegna e cioè che occorre superare l’angoscia e accettare per fede la promessa della vita ultraterrena. Ma confesso di non essere soddisfatto. Ho bisogno per esempio di capire fino in fondo la differenza della accettazione della morte tra un Socrate che si rifiuta di fuggire dal carcere in cui è rinchiuso e beve tranquillamente la sua tazza di cicuta e un martire della cristianità, che rifiuta di abiurare la fede e si fa sbranare dai leoni nel Colosseo”.
La settimana seguente, all’inizio della lezione di filosofia, Edoardo non vide l’ora di informare il professore sulla iniziativa che aveva proposto ai suoi amici e sul contenuto dei loro discorsi.
Grissino, (così era stato soprannominato dai suoi studenti), fece un sorriso smagliante: “Miei cari rompiscatole, ora comincio a riconoscervi. E’ questo ciò che intendevo. Essere rompiscatole significa essere l’esatto contrario di conformista, fare e farsi domande, non accettare nulla che non passi attraverso il vaglio della vostra mente e del vostro cuore. Ma andiamo per ordine: la brevità della vita e quindi la morte, che tanto turba voi, quanto me e tutti gli uomini. Noi occidentali siamo discepoli del pensiero greco. Sua fondamentale caratteristica è l’accettazione incondizionata della condizione umana. E qual è questa condizione dell’uomo? E’ quella di una esistenza contrassegnata dalla temporalità della natura, che è ciclica (primavera, estate, autunno, inverno e di nuovo primavera…o nascita, crescita, morte). Noi siamo entro questo ciclo. Abbiamo il privilegio di emergere all’esistenza, restare per un tempo più o meno breve che il fato ci ha destinato e ritornare nell’inesistenza, secondo l’ordine del tempo della natura. Nessuno può sottrarsi a questo ordine che possiamo anche chiamare l’ordine della specie. Se Socrate sceglie di bere la cicuta, anziché la fuga che gli viene offerta dai suoi amici, è perché ritiene che la sua missione sia conclusa, che il ciclo è terminato e non ha più alcun futuro. Quel che più gli premeva lo ha fatto, ha “corrotto” i giovani di Atene, ha loro insegnato ad essere vigili, a conoscere se stessi e il mondo nel quale agiscono.
La conoscenza di se stessi se da un lato conduce alla constatazione della possibilità dell’uomo, mediante quella meravigliosa forza che gli ribolle nel corpo, quella luce che emana dal suo sguardo, dall’altro gli fa sentire la presenza di un terreno sconosciuto, insidioso, entro il quale affondano la sua energia e tutti i suoi sogni di futuro. E’ come una seconda soggettività che fagocita senza scampo la prima. E’ la seconda soggettività della specie che stronca ogni speranza, ogni salvezza dell’individuo.
Da qui scaturisce quel senso della drammaticità della vita che caratterizza tutta la cultura greca. Questa ha raggiunto una dimensione tragica così sublime che non se ne trova una simile fuori del mondo greco.
L’uomo vive un conflitto di enorme portata: ha bisogno di affermarsi, di crearsi degli obiettivi: lavoro, amore, libertà nel suo spazio-tempo, ma ecco la morte. Perché? Lui sente di non appartenerle, rifiuta quella crudeltà. Il disastro dal punto di vista individuale è chiaro ed evidente: l’interruzione dei sogni, dei piaceri, della contemplazione della bellezza e della creatività.
“Ma, uomo, non ti accorgi, dicono i poeti, che gli dei immortali sono invidiosi? Tu non sei niente, sei una foglia secca che il vento strappa via dai rami dell’albero, sei un fragile essere deposto dai millenni che ti hanno preceduto e destinato a nutrire i millenni del futuro. E’ la specie che ha bisogno della tua morte.”
I greci avevano il senso del limite che consentiva loro di accettare il carattere effimero dell’esistenza individuale. In fondo gli individui sono una sorta di pezzi di ricambio, di cui la specie si serve per la sua sopravvivenza. Un siffatto modo di pensare ha anche una conseguenza di notevole importanza sul piano sociale e politico: nel rapporto individuo-società, se dobbiamo dare ascolto alla natura, è la società che deve prevalere sull’individuo. E dunque è la polis che deve trionfare e salvarsi dinanzi alla insensatezza della vita individuale.
Noi italiani ne abbiamo particolarmente bisogno perché da sempre siamo abituati a far prevalere l’interesse del “particulare”, rispetto a quello della comunità. Lo aveva ben sottolineato il Guicciardini, ma anche un santo dal cuore semplice e generoso, San Bernardino da Siena, che nelle sue prediche soleva ricordare la storia dell’asino che, essendo di proprietà del Comune, veniva messo a duro lavoro senza che ciascuno si sentisse in dovere di dargli da mangiare, finché quello morì di fame”.
La campanella diede il segnale della fine della lezione, quando la solita Elisabetta si alzò per ringraziare il professore. a nome della classe e, dopo un attimo di incertezza, disse tutta d’un fiato: ”Professore, mi scusi, ma lei sabato sera potrebbe venire con noi a mangiare una pizza?”
la seconda puntata il prossimo 18 marzo venerdì
Il Racconto “La scuola che non c’è” è stato tratto dal libro di Vincenzo Fiaschitello “Ginevra Sforza, racconti storici e non” la cui recensione a cura di Serena Rossi è consultabile su questa rivista attraverso il seguente link: Ginevra Sforza, racconti storici e non. Recensione di Serena Rossi – IL PENSIERO MEDITERRANEO