Ginevra Sforza, racconti storici e non. Recensione di Serena Rossi
Il racconto Ginevra Sforza di Vincenzo Fiaschitello, fa parte di una trilogia (Ipazia di Alessandria e altre storie; Artemisia e altri cinque racconti, pubblicati dalla stessa Libreria editrice Urso). Un filo rosso unisce tragicamente i destini di queste tre donne straordinarie, al di là delle epoche storiche, a testimonianza di come oggi la personalità femminile sia ancora lontana dal potersi esprimere liberamente. Dinanzi a situazioni antifemministe del nostro tempo non è più possibile la semplice indignazione, se non vogliamo cadere nella retorica e magari commuoverci un po’ per quel che un tempo accadeva alle centinaia di donne, che la gente chiamava “streghe”, finite bruciate sul rogo, acceso dalla fantasia malata di una religio, che legava amore e odio, tenerezza e violenza, pace e lotta, gioia e il suo contrario. Quelle donne si alzavano come fumo e cenere verso un cielo che avevano invano cercato con la loro intelligenza e con il loro cuore.
Dalla prefazione di Erminia Camarra
Accantonata, ma solo temporaneamente l’amata poesia, Fiaschitello ci regala una nuova e originalissima raccolta di racconti, un misto di erudizione storica e filosofica, cardini attorno ai quali ruotano le vicende che indagano da prospettive diverse le passioni dell’animo umano. Personaggi storici minori, travolti dall’oblio del tempo, rivivono sulla carta e nella mente del lettore, accanto a nomi altisonanti e si avvincendano a personaggi frutto della fantasia dell’A., che si fanno portavoce delle sue idee e dei suoi sentimenti. Evidente la contrapposizione tra il passato, i personaggi storici, e il presente, i personaggi ideali, portatori di valori positivi e universali che il progresso e il consumismo hanno sistematicamente e inesorabilmente “corrotto”.
Ginevra Sforza, personaggio ignoto ai più, figlia illegittima di Alessandro Sforza, signore di Pesaro, appena dodicenne viene promessa sposa a Sante Bentivoglio, signore di Bologna, innocente pedina nella logica di alleanze politiche delle ricche famiglie dell’epoca. Attorno a Ginevra si dipanano le vicende di altri personaggi, ma centrale è il ruolo di Gentile Budrioli, sua amica, confidente e dama di compagnia. Due donne moderne ed emancipate, che sfidano le convenzioni sociali che relegano le donne ad una posizione di subalternità agli uomini condannandole all’ignoranza e all’obbedienza, rimanendo travolte dagli eventi.
La scuola che non c’è, una critica costruttiva alla pedagogia tradizionale del nozionismo e della valutazione intesa come misurazione delle conoscenze. Grissino rappresenta il prof. ideale (per usare l’ipocorismo familiare alle giovani generazioni) di una scuola che supera l’angusto limite delle mura dell’aula ed entra nella vita dei giovani, facendosi stimolo alla formazione del pensiero critico. I ragazzi si legano al professore perché “avevano ragione i greci quando dicevano che la cultura, l’insegnamento ha a che fare con l’amore, con l’eros. Se tra il docente e il discente non corre l’affettività, la simpatia, la stima, non può esserci alcun vero insegnamento” (p. 78). Solo con l’empatia si crea quel rapporto positivo che consente al docente di accendere la scintilla della curiosità, dell’amore per il sapere.
Gioacchino Murat ripercorre la vita di questo personaggio controverso che gravita attorno a Napoleone Bonaparte, diventando suo fidato collaboratore e cognato. Ma oltre alle vicende storiche, dagli umili esordi alla campagna di Russia fino al regno di Napoli, Fiaschitello indaga l’animo dell’uomo, la sua intransigenza nel rincorrere il sogno della monarchia illuminata per offrire il miglior governo ai suoi sudditi, l’ardore in battaglia, la fragilità nel momento supremo del trapasso. E proprio in questa vena di riflessione si coglie un evidente richiamo al filone più squisitamente intimista di Fiaschitello poeta.
Il conte Carlo Camillo Di Rudio offre ai lettori il ricordo di un patriota poco conosciuto. Un mazziniano, poi garibaldino, esule e poi complice di Felice Orsini nell’attentato a Napoleone III. Al di là della ricostruzione storica attenta e scrupolosa della temperie culturale del Risorgimento ritengo un valore essenziale l’aver consegnato alla fantasia del lettore l’immagine di un uomo integerrimo nella sua lotta per la libertà dallo straniero (vedi episodio delle salsicce ad esempio), che fin dalla giovinezza ha perseguito i propri ideali. Monito ai giovani della nostra generazione, annichiliti nel mondo globale, ignari del concetto di appartenenza.
La silloge si conclude in una sorta di climax ascendente con una riflessione sull’origine della dicotomia bene/male. Una conversazione interiore, quasi un dialogo platonico, sui dogmi di fede. In primo piano la vexata quaestio che Dio, sommo bene, non può aver creato il male e destinato l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, alle fiamme dell’Inferno. Platone, San Tommaso, Sant’Agostino, per citarne solo alcuni, emergono dalle pagine e ispirano le parole di don Mario, Il prete buono. Sulla scia di un revisionismo critico dei testi sacri di grande attualità, che mette in discussione perfino il testo della Vulgata, don Mario, novello San Francesco, predica una reductio ad unum, il ritorno all’unico vero ma nuovo comandamento: “Amatevi come io vi ho amato”, che si traduce, nei tempi moderni, nell’apertura verso i disadattati, i divorziati, gli omosessuali. Un bisogno di ascetismo che colpisce l’uomo, a volte solo in punto di morte, come Murat, o permea l’intera esistenza, ma accomuna ogni uomo nell’affannosa ricerca di risposte sulla vita ultraterrenza. “Signore, non lasciarmi nelle tenebre, ma apri la tua porta perché possa entrare nella tua luce infinita, perché possa cambiare in vita duratura questa morte che mi trascino sin dalla nascita” (p. 176).
La ricercata cura formale, quasi una rarità nella letteratura contemporanea, è sostenuta da una minuziosa ricostruzione storica, frutto di ricerche appassionate e letture di una vita. La precisa collocazione spazio-temporale dei racconti più strettamente storici sfuma nell’indeterminatezza dei due racconti filosofici che non hanno collocazione alcuna perché hanno carattere di universalità.
Una scrittura che propone, vox clamantis in deserto, un ritorno ai valori della tradizione classica, come mezzo per riscoprire la bellezza e l’armonia del mondo, perché un classico “è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” (I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano 1995, definizione 6).
Recensione di Serena Rossi del libro di Vincenzo Fiaschitello: Ginevra Sforza, racconti storici e non – Avola Libreria Editrice Urso, 2021