IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Il Tarantismo oggi di Maurizio Nocera

MARANGIO Tarantate

MARANGIO Tarantate

Credevo di avere chiuso col tarantismo, cioè chiuso con lo studio e le riflessioni sul fenomeno della sofferenza salentina e sull’altro fenomeno (quello più contemporaneo) ad esso collegato, cioè quello della pizzica di corteggiamento. Sì, avevo chiuso, almeno credevo, quando un incontro con una mia vecchia conoscenza, una donna di circa 90 anni di Morciano di Leuca [nell’occasione mi ha regalato un arazzo (70 x 100) con una scena settecentesca di pizzica di corteggiamento], che avevo intervistato un paio di decenni fa, perché anche lei attarantata come me. Nell’incontro in una casa contadina, mi dice:

            «tu e tutti gli altri professoroni, che vi siete interessati del tarantismo, credete di avere scoperto tutto del fenomeno. Secondo me, di esso, avete tralasciato una parte importante, cioè non vi siete mai chiesti come accadeva che le persone coinvolte, soprattutto donne (il fenomeno è prevalentemente di genere), si trasmettevano l’una con le altre le tecniche fenomeniche delle loro movenze. Mi riferisco alla danza che esse facevano ascoltando il ritmo della pizzica. Quali erano le loro posture, gli svenimenti momentanei a causa della trance sopravvenuta». Le rispondo:

«Mi stai dicendo che nel fenomeno è esistito un codice di trasmissione?»

«No so se si dice così, ma ti sei mai chiesto come accadeva che una donna, magari analfabeta, che non conosceva tutte quelle diavolerie che avete scritto, ad un certo punto della sua vita diventava tarantata?».

«Confesso che non ci siamo posti il problema. Però tu ora mi stai mettendo una pulce nell’orecchio e francamente resto perplesso. Soprattutto perché è questa una nostra grave manchevolezza. Infatti come mai una tarantata di Cerfignano soffriva allo stesso modo di una di Soleto o come Maria di Nardò? E come mai faceva gli stessi movimenti e contorsioni?».

«Tu mi hai regalato il libro Morso d’amore (Capone editore, Cavallino, 2004) di Luigi Chiriatti; poi mi hai regalato pure il tuo libro, Il morso del ragno (Capone editore, Cavallino, 2005), più alcuni volumi sullo stesso fenomeno del giovane Federico Capone. Come sai, sia pure lentamente, li ho letti per come potevo leggerli io ovviamente, però c’è un punto, quando analizzate il Canto di Cristina di Uggiano La Chiesa. In quel passo descrivete una situazione in cui la povera donna, non riuscendo a stare al passo con i tempi imposti dal fattore (controllore dei tempi della raccolta del tabacco), la bracciante che le stava accanto, le consigliò di “farsi tarantata”. Ecco. Questo è il punto fondamentale, che tu chiami codice di trasmissione del fenomeno. La povera Cristina, tornata dalla Svizzera più o meno ‘acculturata’ non sapeva nulla del tarantismo. Però doveva lavorare per portare un po’ di soldi a casa. Così, quando la vicina le consigliò di farsi tarantata, lei ha chiesto cosa significava questa cosa. E di qui che è partita la storia di Cristina di Uggiano, splendidamente filmata da Annabella Miscuglio in quel magico film intitolato Morso d’amore (1981)».

Finito l’incontro con la vecchia signora di Morciano di Leuca, mi sono messo sotto il braccio l’arazzo e sono volato via. Da quel momento però ho cominciato a riflettere. Non riuscivo a capire come mai, sia a me sia a Luigi Chiriatti (entrambi dentro al fenomeno e non spettatori di esso o lettori e commentatori di libri sul tarantismo), ci era sfuggito questo particolare fondamentale. Tutti, da Ernesto de Martino e Diego Carpitella, Edoardo Winspeare, Piero Fumarola, Georges Lapassade, Sergio Torsello, Pierpaolo De Giorgi, Giorgio Di Lecce, Eugenio Imbriani, altri ancora, ripeto tutti, anche gli studiosi esterni al nostro territorio (che sono tanti) non ci siamo posti la domanda. Perché? Perché, almeno a mio parere, abbiamo approfondito altri aspetti ritenuti importanti dentro il fenomeno. Abbiamo rivolto il nostro sguardo soprattutto al ritmo della pizzica (iatromusica) e poi alla danza terapeutica, ai colori, ai canti, a san Paolo, alla tarantola (Ischnocolus, Tarantula lycosa, Latrotectus tredecim guttatus), ecc.

Oggi, a distanza di più d qualche decennio da quegli studi, la situazione è del tutto mutata. Il rito terapeutico domiciliare non c’è più o, quanto meno, si è sotterrato; non ci sono più le tarantate che si recavano nella cappella sconsacrata di san Paolo a Galatina per chiedere la “grazia” al santo o, se ci sono, vanno nella cappelletta solo per farsi il segno della croce; non ci sono più i traini che le trasportavano da un centro qualsiasi del Salento verso la città (Galatina) protetta da san Paolo e dalla civetta. E non ci sono più tante e tante altre situazioni che rendevano visibile il fenomeno. Tutto ciò è stato sostituito da La notte della Taranta a Melpignano, che ogni anno, nel mese di agosto, raccoglie qualche centinaio di migliaia di giovani di tutto il mondo e, del fenomeno, spettacolarizza solo il ritmo della danza di corteggiamento.

Certo questo è meglio che niente. Poi c’è l’Unesco (club di Galatina), il cui presidente (il medico Salvatore Coluccia) e il vicepresidente (dr. Giuseppe Serra), da alcuni anni, durante la settimana delle festività dei santi patroni della citta (san Pietro e san Paolo) allestiscono una sorta di performance che riprende il rito del tarantismo e lo ripropone in forma spettacolare. Anche questo è meglio che niente. Per il resto le forme del tarantismo quale fenomeno della sofferenza sembrano essere state sepolte. Tuttavia va ricordato che è tipico di questo fenomeno sommergersi, anche per secoli, per poi riapparire in una certa data insospettata e in forme del tutto differenti se pur comunque sempre rifacendosi all’archè.

Sappiamo quanto è antico il fenomeno. Lo studioso di tradizioni popolari Federico Capone, in uno dei suoi libri (…..) scrive che:

            «I sintomi del tarantismo sono tanti e generici, e simili a quelli provocati dal veleno dello scorpione; molto spesso il primo caso di contatto col ragno si ha all’inizio dell’estate e poi, ciclicamente, il male ritorna; solo con la morte della tarantola, che ha iniettato il veleno, si guarisce definitivamente./ Goffredo di Malaterra [monaco cronachista normanno nell’XI secolo, nella sua Historia sicula, parlò del fenomeno come tipico della regione Puglia, descrivendolo come un’epidemia da ballo, di cui si lamentarono dei soldati “salentini” dell’esercito normanno, probabilmente provenienti dall’hinterland di Taranto e della Terra d’Otranto che, nei dintorni di Palermo (Monte Tarantino o Pellegrino) si rifiutarono di scendere in battaglia] scrive di rigonfiamento del corpo, così come pure fa Alberto d’Aquisgrana./ Francesco Berni (1497-1535) nel suo Orlando Innamorato, illustra in rima segnali e cura: “Come in Puglia si fa contro al veleno / Di quelle bestie, che mordon coloro,/ Che fanno poi pazzie da spiritati;/ E chiamansi in vulgar tarantolati;/ E bisogna trovar un che sonando/ Un pezzo, trovi un suon che al morso piaccia;/ Sul qual ballando, e nel ballar sudando/ Colui, da sé la fiera peste caccia”» (citare pagina….).

Oggi, dopo la pandemia di Covid 2019 e la velocizzazione dello sviluppo tecnologico, il mondo ci appare irriconoscibile, soprattutto è saltato il modus vivendi dei rapporti umani e sociali, di fatto divenuti per lo più virtuali (immateriali e fisicamente distanziati), un modo di essere e di fare che non ha più nulla a che vedere con quanto l’umanità era stata abituata fino al dicembre 2019. Evidente è lo stravolgimento (almeno per una buona parte di chi ha avuto e ha a che fare col virus) delle categorie mentali di ognuno di noi, quali le filosofiche, le religiose, le temporali. È ovvio che in queste categorie è compreso il fenomeno del tarantismo.

Molti comportamenti sono stati stravolti e una buona parte della popolazione mondiale, come una sorta di autodifesa dall’attacco della pandemia, ha costretto le persone a trincerarsi in casa. Tale auto reclusione ha cambiato la vita di ognuno di noi e, con essa, il modo di rapportarci agli altri, con chi vive accanto a noi, con gli amici lontani o vicini, le persone care, che non abbiamo incontrato per mesi e che tuttora stentiamo a incontrare. Non uscire di casa (auto isolarsi) è significato e significa modi di essere psichici differenziati, ricerca del proprio Sé diverso da quello precedente all’aggressione del virus e, soprattutto, precipizio della soglia psicologica equilibratrice dello stato normale di vita. Si tratta cioè di essere – chi più chi meno – entrati in uno stato alterato di coscienza non indotto da agenti patogeni esterni ma da un agente interno a noi stessi: la paura.

Tuttavia, in questa situazione di grande difficoltà di movimento, per fortuna non siamo rimasti del tutto isolati dal mondo. La tecnologia ci è venuta incontro. In un certo senso, il web ci ha permesso di rapportarci gli uni agli altri. Attraverso, internet, mass media, social network, video telefonate, video conferenze e quant’altro, pur nel totale auto isolamento, abbiamo continuato a vivere in una sorta di corrispondenza di sensi reciproca, che ci ha permesso di ordinare la spesa per via telematica, più molti altri servizi (acquisti vari, operazioni bancarie, ecc.) garantiti dalla connessione digitale. 

Dobbiamo convincerci che per un prossimo avvenire (lontano o vicino che sia) le cose del mondo non cambieranno tanto facilmente perché nulla sarà più come prima. E intanto, pensavamo che fosse scomparso dal nostro orizzonte di vita la paura della guerra. È incredibile pensarlo: purtroppo oggi la paura di una terza guerra mondiale con l’uso dell’arma atomica non ci fa più dormire sonni tranquilli. Tuttavia, in un modo o nell’altro, le nostre vite dovranno continuare. Dovremo continuare a esercitare le nostre menti su quanto ci ha insegnato la storia umana e, soprattutto, pur stando in un isolamento fisico, dovremo riflettere su non pochi eventi fenomenici che ci hanno interessato e che continuano a interessarci. Fra questi, cercare di capire e dare nuove risposte interpretative al fenomeno del tarantismo, quesiti posti dall’attarantata di Morciano di Leuca, che ci ha parlato di codici di trasmissione.

Credo che ormai sia acquisizione universale per i salentini la condizione storico-socio-culturale del nostro territorio, come pure la fenomenologia legata al mito della taranta, il percorso umano e culturale che ognuno di noi compie come tentativo di riappropriazione delle proprie origini, in un certo senso come tentativo virtuale di ritornare alla casa del padre e della madre, che altro non è se non la Casa (Grotta) della Grande Madre Mediterranea (la Dea-Protettrice che vediamo nelle minuscole Veneri paleolitiche, quelle di osso della Grotta delle Veneri di Parabita. Per noi salentini è importante l’archè della Grande Madre, perché, una volta scoperta o ri-scoperta, ci induce ad una sorta di trance, uno stato modificato di coscienza (Lapassade) che ci fa vivere o ri-vivere un qualsiasi stato morboso. Una sorta di un ri-morso (per dirla con de Martino) che ci porta inevitabilmente alla Grande Madre preistorica, amata e temuta, che dava la vita e poi la toglieva, recidendo con forbici cosmiche il filo “a spirale” del destino. Appunto come fa la tarantola con la sua tela: la ri-kama, la distende, la tira a trappola mortale. E chi ri-kama quel filo della vita è sempre la Grande Madre Terra (il Grande Ragno Divino), tessitrice immortale. Attraverso il grembo materno, fecondato dall’anpholos apollineo e dionisiaco di ognuno di noi, ci tocca nascere senza che noi stessi vogliamo o decidiamo tale incredibile evento ma, una volta nati, sappiamo della certezza dell’esistenza della Signora in nero (la morte e, per certi versi, la taranta) che ad un certo momento (anche questo da noi non deciso o voluto) ci presenterà le sue credenziale e ci rapirà come meglio lei crederà. I nostri vecchi dicevano «il nostro è un destino atroce».   

È per me sorprendente constatare come dei salentini, che vivono soprattutto la condizione dell’emigrazione intellettuale moderna, ad un certo punto della loro vita, sentano forte il bisogno dell’identità, il bisogno di ri-ancorarsi a qualcosa di certo, di definitivo e di determinato. Ed in ognuno di noi, che cosa c’è di più certo e di più concreto se non il luogo e la data della propria venuta al mondo?

Ho conosciuto il grande etnologo ed etnografo Georges Lapassade. Grande è stato il suo contributo alla ri-scoperta della fenomenologia insita in terra del Salento, soprattutto quella relativa alla comprensione dei fenomeni che ruotano intorno alla trance e al tarantismo. Lo cito qui perché è stato proprio lui a farmi prendere coscienza della forza del mito della taranta, tanto da indurmi a scrivere, in un testo che riprende un capitolo del libro di Luigi Chiriatti, Morso d’amore, che s’intitola Il ‘canto’ di Cristina è la chiave moderna del fenomeno del tarantismo”, le seguente affermazione: 

«In Salento […] è codificato un motivo ancestrale della storia degli umani che vivono in questi luoghi […], è codificato cioè l’humus organico di una terra antica e mitica, che ancora oggi, nell’epoca della computerizzazione e informatizzazione generalizzata, riesce a nascondere gli intimi segreti dell’anima di un popolo […] Il morso ed il ri-morso della taranta salentina sono come una chiave, quella appunto della vita e della morte della gente che vive il Salento, una sub-regione che resta mitica…», una terra ancorata e determinata, come sempre è la terra dei padri e delle madri, che noi salentini sentiamo soprattutto come la terra/pietra della Grande Madre Mediterranea, della Grande Grotta, del Grande Utero, dentro al quale l’Uovo della vita è protetto e si sviluppa in armonia con le forze della Natura.

Questa considerazione vale per il Salento pugliese e per uno dei suoi fenomeni più appariscenti, il tarantismo ma, con le dovute specificità, vale anche per tutte le altre regioni del pianeta Terra. Si tratta spesso del rapporto origini-terra e del momento e del modo e dell’espressione attraverso cui ogni singolo umano prende coscienza, una presa di coscienza che avviene attraverso il percorso che si muove su una traiettoria che vede la sua origine-terra nei luoghi pre-diletti. Chiara e visibile è la forza del Mito attraverso il ritmo della taranta. Si tratta della forza dell’ancestrale che si muove e si modifica attraverso i movimenti sociali e le metamorfosi che il fenomeno della sofferenza salentina assume in funzione delle modificazioni della società. Oggi, a Melpignano, durante la Notte della Taranta, è percepibile  nei giovani, uomini e donne, vecchi e bambini, che danzano in evidente stato di trance. Trance terapeutica. Un’umanità questa che appare sospesa dentro uno spazio senza tempo, in una sorta di plasma amniotico universale – si tratta dell’Utero del cielo? – proveniente dalle “viscere” del Tempo. Questa umanità, proveniente da differenti luoghi del pianeta, attraverso il ritmo della pizzica e la conseguente danza, cerca di scaricare tensioni e nevrosi accumulate in differenti esperienze vissute precedentemente. Il ritmo della pizzica è iatro-musicale, cioè, secondo gli antichi medici (Ippocrate e Galeno), in grado di guarire un umano “disturbato” da preoccupazioni e squilibri mentali. Strumenti fondamentali di tale ritmo sono: tamburello (simbolo di grembo materno gravido), violino (anticamente la lira), organetto, armonica a bocca. Oggi, ad essi si sono aggiunti altri strumenti, tra cui la chitarra, le ocarine, ecc. La guarigione avverrebbe attraverso il sudore che la tarantata espelle (morte della tarantola) attraverso il ballo sfrenato.

Ovviamente un fenomeno sociale non può ritenersi tale se non ha alla base un fondamento, vale a dire un mito, un simbolo e un rito. Questa sequenza è assolutamente rigorosa, perché non vi potrà mai esserci simbolo o rito senza che all’inizio non sia stato premesso il mito. Nel caso del tarantismo il mito affonda le sue radici in primo luogo nel paganesimo, e da qui nel cristianesimo. De Martino cita Aracne ed Athena (Minerva per i Romani) nelle Metamorfosi, che poi diventeranno Ragno (taranta che si impossessava della persona) contrapposto alla Divinità (nell’antichità l’Athena libica, poi l’Athena partenopea, quindi la Minerva dei Romani, per arrivare alloggi, cioè a san Paolo, ma anche ad altri santi similari). La tarantata cercava la grazia dopo aver esposto il suo corpo attraverso la danza riparatrice e la conseguente crisi identitaria. C’è uno iato tra la condizione della persona che vive la sua quotidianità e l’alterazione dello stato di coscienza. Uno dei passaggi obbligati dalla condizione di stato ordinario di coscienza ad uno modificato è quello della visionarietà, cioè quella particolare condizione psicofisica attraverso cui la mente dell’individuo entra in una sorta di tunnel che lo porta direttamente all’idealizzazione di una o più immagini, per lo più distorte della realtà. Il tarantismo diventa malattia (possessione del corpo da parte di un animale simbolico) perché nelle contraddizioni che vive la persona tra il voler essere e il non essere, si crea lo squilibrio degli elementi. In questo caso quello degli “umori”.

Quanto detto finora ha senso e valore se oggi si cerca di comprendere la fenomenologia dei comportamenti umani, riferiti anche a quanto vissuto nei tempi precedenti ai nostri. Per quanto riguarda il fenomeno del tarantismo classico, ovviamente fondamentale è la ricerca di Ernesto de Martino. Per questo il suo libro La terra del rimorso è la pietra miliare da cui partire per ogni nuova ricerca. Capire il passato è come capire il momento che stai vivendo e, in un certo senso, prefigurarsi il futuro. Recentemente lo ha bene interpretato il grande storico del Medioevo Franco Cardini che, in una sua recente recensione (De Martino, il tarantismo e ciò che non ha capito la ragione occidentale) al libro di Ernesto de Martino (La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud (Einaudi, 2023) a cura di Marcello Massenzio, ha scritto:  

«I grandi libri sono come gli esami secondo il grande Eduardo: non finiscono mai: E rileggerli è sempre un’avventura, sempre una scoperta: perché è vero ch’essi non cambiano, ma altresì che in realtà cambiamo noi. L’editore Einaudi procede nel suo benemerito impegno di restituirci, per mezzo di nuove edizioni, l’intera storia di Ernesto de Martino

Lo conosciamo bene, direte voi; e magari molti aggiungeranno di avere tanti suoi libri in casa. è qui che vi sbagliate. Ne conoscete le edizioni precedenti, e magari ne avrete letto – e ne avete presente – il contenuto, esaminato però alla luce di considerazioni critiche sia pur eccellenti, ma ormai sorpassate: perché studiare, e capire, significa anzitutto aggiornarsi./ De Martino è stato un idolo, o magari l’oggetto di critiche durissime, comunque un “mostro sacro” della nostra cultura accademica del terzo quarto del secolo scorso, un venticinquennio circa attraversato da enormi novità. Ne conoscevamo il pensiero ispirato a una visione storicistica di segno liberamente marxiano e d’impegno meridionalista, certo non dimentica dell’originaria lezione crociana e profondamente toccata da una passione civica socialista, sulla quale tuttavia la lettura di Antonio Gramsci era stata determinante; [….] Uno studioso così non lo si cataloga: certo, fu storico delle religioni, etnologo, filosofo della storia aperto precocemente a ogni sorta di esperimento interdisciplinare, pioniere della ricerca sul campo nel “suo” Meridione e perfino – com’è stato arditamente ma non arbitrariamente definito – etnopsichiatra orientato a una conoscenza della historia rerum gestarum sicura e definitiva in sé ma tesa alla conoscenza di un’historia condenda, una realtà futura possibile che consenta di far rivivere il passato angosciante trasformandolo in un futuro migliore./ La terra del rimorso, dedicata al mito diffuso nell’àmbito dell’area di Taranto [Terra d’Otranto] del morso della tarantola che provocherebbe nelle vittime una danza frenetica, e al rinnovato morso di essa (il “rimorso”, appunto), che darebbe luogo a un rituale di liberazione dall’angoscia frenetica grazie al sapiente uso da parte di esperti locali di un apparato di musiche, di danza (tutti conoscono la “tarantella”…) e di colori, aveva e nei rituali a tutt’oggi praticati ad esempio a Galatina conserva un suo valore testimoniale preciso./ Si tratta basicamente di uno studio sugli usi magico-religiosi folklorici del Mezzogiorno, che fu preceduto da una larga inchiesta (“sul campo” nel 1959) e che, uscendo nel 1961, venne messo in rapporto – com’era indicato dallo stesso De Martino – col capolavoro dell’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss, Tristes tropiques, edito nel 1955 e tradotto in italiano nel 1960. E grande era il debito di entrambi gli studiosi nei confronti di Sigmund Freud e in particolare della sua monografia dedicata nel 1920 al tema Al di là del principio del piacere, con le pagine assolutamente rivoluzionarie su quel che la psicanalisi definisce “abreazione”, cioè “il momento decisivo della cura – come appunto spiegava Lévi-Strauss in Anthropologie structurale – in cui il malato rivive la situazione all’origine del suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente”. Ed esistono gli “abreatori professionali”: sciamani o psicanalisti che siano./ Ed ecco il punto. Studiando le “tarantate” sul campo e rileggendo tutta la letteratura a ciò connessa, a cominciare dal trattato che nel Quattrocento dedicò loro l’umanista Giovanni Pontano e nel Seicento il gesuita Athanasius Kircher, il nostro Ernesto De Martino ci ricondusse alle radici dell’arretratezza e del disagio del Meridione italico, abbandonato, illuso e tradito dalle classi dirigenti italiane dall’Ottocento a oggi. Su ciò, s’innestò una polemica durissima e vivacissima./ Oggi però il “rimorso” di una falsa partenza critica deve cedere il passo al disincanto. A guidarci è proprio il curatore della nuova edizione einaudiana della Terra del rimorso, Marcello Massenzio, storico delle religioni tanto severo e appartato quanto critico “da sempre” delle mode intellettuali; con un coraggio che in certi momenti gli ha procurato qualche difficoltà, non ha esitato a servirsi di autori sempre autorevoli ma non sempre “graditi”, quali Mircea Eliade./ Il vero disagio provato da De Martino dinanzi al mito e al rito della taranta era il medesimo provato da Lévi-Strauss dinanzi ai miti e ai riti da lui studiati nell’America tropicale: quello della coscienza di una cultura occidentale moderna dotata d’una capacità violentissima di distruzione di qualunque altra civiltà e di un’immensa superbia che per circa quattro secoli l’ha autorizzata non solo a cancellare, ma anche a condannare come “false”, “arcaiche”, “illusorie”, “superate” tutte le altre civiltà che l’avevano preceduta; e addirittura a parlare anche indiscriminatamente, delle loro “pseudoscienze”. Lo aveva già notato nel 1960, un giovane studioso peraltro simpatizzante della sinistra socialista, Sergio Moravia, che all’ancora non troppo conosciuto Lévi-Strauss dedicava un breve saggio che fu sottovalutato, La ragione nascosta, che indagava sul valore delle culture “altre” rispetto a quella che sentiamo “nostra” e nel nome della quale ci sentiamo sempre e comunque “nel vero”./ Ecco la nostra “nuova Terra del Rimorso”. In questi anni di matura globalizzazione, mentre il mondo sembra avviato a una nuova fase multipolarista nel suo assetto politico, si profilano all’orizzonte anche nuove infauste forme di occidentocentrismo, nuovi suprematismi a loro volta suscettibili di provocare risposte di segno contrario ma di pari violenza antagonista. Riflettere non già sugli errori delle culture del passato o residuali del presente, bensì sul dogmatismo delle nostre pretese suprematiste di oggi, sarà necessario e salutare: se non lo faremo, andremo incontro a pericoli davvero seri. Anche in questo senso la rilettura del capolavoro demartiniano sarà salutare».

Chiedo venia a Franco Cardini per questa lunga citazione, ma egli comprenderà l’importanza che ha per noi salentini il suo pensiero storico filosofico creativo.

Chiudo con un testimonianza che da sempre mi porto nella mente, quella del regista  Edoardo Winspeare che, ancora molto giovane, l’ho visto ballare nelle scuderie del castello deglii Winspeare in Depressa (Tricase di Lecce). Edoardo ha scritto una memoria che ha intitolato Confessioni di un malato di pizzica (in «a Contrappunto», anno V, n. 1 – n. s. febbraio 1997 che, a sua volta, l’aveva estratto da un’intervista ad Edoardo Winspeare, apparsa su «l’Unità» del 22 agosto 1996). Edoardo scrive:

«Sono otto anni che mi interesso di cultura popolare salentina, da quando nel 1989 girai San Paolo e la Tarantola, un documentario sul tarantismo per la scuola di Cinema di Monaco./ A partire da quel (per me) fatidico anno mi ammalai di una febbre dalla quale non mi sono ripreso e dubito che mai guarirò. Questo morbo caldo, ammaliante e irresistibilmente contagioso si chiama Pizzica, il ritmo ed il ballo del Salento./ In effetti la musica popolare salentina non è solo Pizzica, ma per quest’ultima ho perso irrimediabilmente la testa e riesco a scrivere solo di qualcosa che amo. La scoperta di questo ballo è stato l’inizio di una catarsi grazie alla quale ho scoperto molte cose della mia terra, del mio rapporto con gli altri e specialmente di me stesso./ Forse i poveri lettori di questo delirio non sanno che io di salentino, almeno dal punto di vista genetico, non ho niente. Questo non mi impedisce di essere profondamente legato a questa terra, anche se nelle mie vene scorre il sangue di diverse nazionalità./ La mia infanzia a Depressa [Tricase di Lecce] è stata molto felice. Fino all’età di dieci anni ho pochi ricordi dei miei genitori e molte del fattore, delle tabacchine, dei trecentocinquanta coloni e di tutte quelle persone che costituivano nel Capo di Leuca degli anni ’70 un ultimo residuo di mondo feudale./ Devo anche ringraziare l’educazione spartana impartitami da mia madre, un po’ per reazione al mammismo borghese italiano, un po’ per ricordarci che eravamo (ancora per un breve periodo) dei privilegiati, destinati, forse giustamente, a scomparire come classe sociale. Da bambino venivo mandato spesso in campagna a lavorare insieme ai miei fratelli con i dipendenti di mio padre; va da sé che ero spinto con decisione dai genitori ma mai costretto./ Ho vissuto, anche se dalla parte del cosiddetto patrunu, gli ultimi sprazzi di quel mondo, contadino salentino così affascinante e ricco di cultura: un’esperienza che ha marcato tutta la mia vita./ Ricordo che soffrivo molto se ci si rivolgeva a me chiamandomi don Edoardo o Baroncino, e avrei voluto essere come tutti gli altri depressini. Mi scuso per questa parentesi da libro Cuore, ma forse chi ama la cultura popolare salentina potrebbe essere interessato ad un diverso punto di vista./ A quell’epoca mio padre organizzava ogni anno a casa nostra una grande festa per la fine della vendemmia, invitando una Banda di trenta elementi e naturalmente tutto il paese./ Quando la banda aveva finito c’erano sempre due-tre persone con tamburello ed armonica a bocca che attaccavano con una Pizzica. In quegli anni i ballerini erano per lo più contadini anziani, il contrario di quello che succede oggi. I migliori erano Luigi Scarcella (buonanima) e sua moglie Abbondanza, chiamata Bbunnanzia./ La coppia di ballerini aveva una sessantina d’anni ed il vecchio patriarca Scarcella aveva già costruito le case per tutti i suoi otto figli, puri quelli “alla Germania” e quelli “senza pensione di invalidità”. Oltre alla coppia sopra citata c’erano altri ballerini, ma molti di loro erano ubriachi e nella loro danza c’era simpatia, ma niente di bello e rituale./ Scarcella disprezzava questo modo di ballare e mi spiegava che tutta l’arte del ballo della Pizzica consisteva nel mostrare l’”amore” alla donna, sia con i passi di tradizione, sia trasmettendole la passione con la creazione di movenze e passi corrispondenti alla propria personalità. È l’ormai matura signora, quando si “allontanava” dal marito che la incalzava, era leggera come una nuvola e seducente come una ragazzina./ Questi due modi di interpretare la Pizzica simboleggiano per me la differenza fra il popolaresco e il popolare, fra la caciara godereccia e la grande Festa Rituale, fra l’aspetto folkloristico nazional-popolare e quello antico, sensuale, più mediterraneo./ A quell’epoca ero troppo piccolo e forse più attratto dagli zompi divertenti degli ubriachi che non delle movenze eleganti degli Scarcella. Qualcosa dei loro insegnamenti deve essere però rimasto se, a 27 anni, dopo aver studiato negli Stati Uniti, in Germania ed in varie altre parti del mondo, sono ritornato nel Salento per riscoprire e imparare la Pizzica. Negli ultimi anni di lavoro come documentarista avevo girato dei film in Brasile sulla Capaera ed in Spagna sulla musica Flamenca andalusa, esperienze che hanno contribuito a risvegliare il mio interesse per la Pizzica salentina. Specialmente in Andalusia ho capito l’importanza della musica popolare per la gente di quei luoghi: essa è il cordone ombelicale con la loro terra e maniera di esprimere la gioia ed il dolore e, attraverso quest’ultimo, anche la rivoluzione./ Intuivo che tutte le emozioni contenute nel Flamenco erano presenti nella tradizione musicale salentina: per questo, ad un certo punto della mia vita, ho lasciato il lavoro in Germania, irresistibilmente attratto dalla mia terra d’origine./ Dal 1992 fino ad oggi non ho fatto altro che interessarmi della cultura popolare e musicale della Terra d’Otranto: gli incontri con i vecchi depositari della tradizione, in particolare con Pino Zimba, la nascita di Zoè [Avevo vissuto tra i contadini, ma la mia famiglia era di diversa estrazione, non li conoscevo veramente. Con altri amici abbiamo visitato tutti i paesi del basso Salento ed abbiamo fondato un’associazione culturale, la Zoè (che significa vita in greco), per far conoscere e salvaguardare la tradizione della pizzicata, una musica antichissima che risale ai tempi preistorici, e della pizzica, la danza che accompagna quella musica. Ci sono diverse forme di pizzica: oltre a quella tarantata, tipica delle donne morse dalla tarantola, c’è la Pizzica di cuore, corteggiamento amoroso tra uomo e donna, e la Pizzica scherma, dove due uomini mimano un duello mortale con i coltelli] con Lamberto Probo, Cinzia Marzo e Donatello Pisanello, l’organizzazione con quest’ultimi di 200 Feste Popolari, la realizzazione assieme all’aiuto di quasi mille persone del Salento, del film Pizzicata e tante altre cose. […] Nei primi tempi della mia ricerca ero assalito da una febbre danzatoria: ballavo tre ore al giorno, ero suggestionato da racconti di tarante e macare, fantasticavo sulle immagini delle figure danzanti di Porto Badisco [Grotta dei Cervi] miste a rituali dionisiaci, sognavo i Greci, i Messapi e la Grande Madre Mediterranea, ma non sapevo bene perché, e facevo una grande confusione fra le informazioni apprese dai libri e le esperienze che stavo vivendo. Non avendo una preparazione accademica in questo campo, non riuscivo a venire a capo di quel mistero ma, una delle cui chiavi, intuivo essere la Pizzica. Questa musica mi stava talmente ossessionando tanto che qualcuno mi consigliò di andare da uno psicanalista. Ma proprio la musica e la danza furono la mia analisi. Ed infatti, continuando a ballare, riuscii a mettere un po’ di ordine nella mia testa, fino ad arrivare a scoprire, grazie alla Pizzica, la primordialità del mio essere danzante. Mi stavo avvicinando ad una sorta di Nirvana fisico dove tutti gli archetipi della passione umana erano chiari e distinti./ La Pizzica aveva smontato tutte quelle sovrastrutture sociali e quelle difese umane accumulate in millenni di storia che servono a sopravvivere (male) in questo mondo, e aveva portato a galla passioni e sentimenti di un uomo in armonia con la natura. Nel ballo non ero più un regista che per impressionare una ragazza la porta fuori a cena e le parla del suo Film, ma piuttosto un cacciatore che vuole conquistare la donna cercando di trasmetterle un’energia virile. Questa energia primitiva, scaturita dal ballo, era controllata e regolata dal rituale: più ballavo più ero animale ma, allo stesso tempo, ero vittima di un rito antico che mi dava l’illusione di essere un demiurgo. Il ballo e non la donna mi faceva desiderare di possederla, ma questa mia aggressività maschile veniva subito castrata dalla tenerezza che provavo verso la grazia e la femminilità della ballerina./ Questa natura selvaggia e rituale, primordiale e allo stesso tempo raffinata, generosa e sensuale, ancestrale e moderna permetterà alla Pizzica di sopravvivere e di fare impazzire i sensi di molte persone».

Ovviamente, anche a Edoardo chiedo scusa per la lunga citazione ma, tra le tante cose che si sono scritte sul fenomeno, in questo caso sulla Pizzica di corteggiamento, trovo che la sua testimonianza sia estremamente esemplare.

I dipinti qui di seguito riportati sono del pittore Massimo Marangio

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