IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

3/3: I tre paradossi di un mondo che la maggior parte dell’umanità ritiene infelice (in tre puntate)

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di Pompeo Maritati

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Terzo paradosso:

“E se si creassero di nuovo le condizioni per rimettere in sesto una guerra fredda?  Le condizioni geopolitiche del passato potrebbero sviluppare  quell’ipocrita forma di sostegno che comunque veniva allora garantita a quei paesi in via di sviluppo, ricadenti nell’egemonia sovietica o statunitense. No, non sono rimbecillito, a volte, in una società materialistica quale la nostra, il metodo da applicare, per raggiungere un sicuro risultato, è senza dubbio quello macchiavellico, ovvero il concetto “del fine che giustifica i mezzi”. No, non sono pazzo, né tanto meno sto sclerotizzando. Ai tempi della guerra fredda i due blocchi dominanti nel mondo, quello americano e quello sovietico, pur di mantenere e accrescere la loro egemonia nelle aree sottosviluppate del mondo, sostenevano le relative popolazioni meno fortunate, con cospicui sussidi, ricevendo in cambio la disponibilità di poter disporre sui loro territori, basi militari, ovviamente a carattere strategico militare.

Dalla caduta del blocco sovietico, anche gli Stati Uniti hanno cessato di elargire sussidi a quelle popolazioni, non sussistendo più le necessità del controllo strategico di così vaste aree a fini militari.  Quei sussidi non sono stati mai più sostituiti da concreti piani di investimento per la crescita economica. Se ne son guardati bene dal farlo, temendo che questi poi si mettessero in competizione con loro. Più volte i G8 e i G20 hanno convenuto di stanziare almeno lo 0,7% del loro PIL per aiutare e favorire la crescita economica del terzo mondo e tutte le volte sono state puntualmente disattese le promesse. Ciliegina sulla torta gli attentati dell’11 settembre, che hanno accelerato il processo di abbandono degli aiuti umanitari per far fronte alla psicosi collettiva della paura da attentati, mettendo in atto la gigantesca macchina di protezione, rappresentata dall’innalzamento dei livelli di sicurezza interna ed esterna. Il tutto poi sfociato nella crociata in Iraq, dove per la prima volta l’uomo ha coniato un nuovo modo di definire la guerra, forse perché in quel momento si vergognava di se stesso, ovvero si parlò (come lo si afferma ancora oggi con ipocrita convinzione) di: “Esportare la democrazia con le armi”. Sotto la psicosi della paura degli attentati, pilotati dai soliti beceri interessi delle lobbie delle armi, da un Presidente degli USA, che intravedeva in questa guerra santa il recupero di credibilità, che in quel periodo era ai minimi storici, che peraltro gli valse la riconferma alla presidenza per il secondo mandato, comportò il quasi azzeramento di ogni forma di aiuto ai paesi sottosviluppati. Poi, come se già tutto ciò anzidetto non fosse di per se sufficiente, in questi ultimi anni, le politiche monetarie ed economiche dell’occidente, “scelleratamente” orientate al contenimento dei costi, con il fine “blasfemo” del pareggio di bilancio, ha ulteriormente ridotto all’osso ogni forma di aiuto umanitario. Oggi la stragrande maggioranza degli aiuti al terzo mondo sono rappresentati da iniziativa private, a volte anch’esse oggetto di speculazioni. Se esaminassimo con attenzione il comportamento etico dei governi dell’occidente, in merito alla solidarietà espressa verso i popoli meno fortunati, scopriremmo che trattasi solo d’ipocrisia politica.

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L’atteggiamento del mondo economico, politico e della finanza nei confronti del concetto di solidarietà mi fa riflettere sul significato ambivalente del termine “Umanità” che nella nostra lingua ha un duplice significato: l’umanità quale termine per identificare l’insieme degli esseri umani che a loro volta appartengono ad altrettante popolazioni e l’umanità intesa quale espressione di solidarietà[1]. Termine quest’ultimo in disuso nelle popolazioni più evolute e per i nostri governanti ritenuto cacofonico.  

In realtà, l’uomo in quanto essere superiore, avrebbe dovuto applicare, il principio umanitario della solidarietà, che dovrebbe rappresentare il rapporto di comunanza tra i membri di una collettività, pronti a collaborare tra loro e ad assistersi a vicenda. “Utopia allo stato puro!”.

L’uomo è egoista proprio perché madre natura l’ha voluto così.  Egli non riesce a vedere la società in termini umanitari, ovvero come un bene di tutti, in quanto è portato geneticamente a pensare solo a se stesso e naturalmente a comportarsi di conseguenza. Questo suo comportamento improntato sull’egoismo, ricade inevitabilmente sulla società. Pertanto il termine “umanità” al momento rappresenta la quantità numerica degli esseri viventi e non quel sentimento che dovrebbe o meglio avrebbe dovuto accelerare il processo di uguaglianza d’accesso ai beni materiali e immateriali della nostra società moderna. L’umanità quale sentimento di solidarietà, per quanto migliorato rispetto a vari secoli fa, non ha saputo stare al passo del progresso scientifico. La scienza ha fatto passi da gigante. La tecnologia ha risolto problemi contingenti, favorendo il miglioramento della qualità della nostra vita quotidiana, con una velocità impressionante. Sessant’anni fa scrivevo con il pennino di ferro che intingevo nel calamaio e l’informazione “on line” era rappresentata da una radio grossa e ingombrante che funzionava grazie a delle valvole di vetro. Nelle nostre case non c’era ancora il frigorifero, ma degli appositi mobiletti dove veniva stipato del ghiaccio che ci veniva giornalmente recapito. L’umanità solidale invece, pur avendo fatto qualche progresso, per lo più rappresentata da becere e maldestre forme di carità,  ha dimostrato scarsa capacità di sviluppo in quanto condizionata dall’economia e dal mai sopito egoismo, che in qualche caso possiamo asserire, senza aver timore di dire cosa sbagliata o esagerata, pare si sia rafforzato in questi ultimi decenni, assumendo, tra l’altro, tra le aree più industrialmente ed economicamente più sviluppate dell’occidente, l’aspetto aberrante del razzismo.

Da queste prime righe abbiamo capito una cosa molto importante, cioè che analizzare la nostra società moderna, cioè comprenderne gli aspetti positivi e ricercare i rimedi per quelli negativi non è cosa facile. I molteplici fattori che compartecipano alla formazione della qualità di una società moderna,  sono oramai delle scienze in evoluzione quali, sociologia, psicologia, economia, antropologia, finanza, ambiente, filosofia e perché no, la politica, senza dimenticare l’imperativo religioso, che per certe popolazioni è divenuto uno dei fattore determinanti, dove riuscire a districarsi è alquanto difficile, non solo  per la complessità delle stesse, esaminate singolarmente, quanto  soprattutto, dalla capacità di saper analizzare l’interdipendenza l’una dalle altre.  Moltissimi studiosi e pensatori hanno dedicato una intera vita allo studio dei nostri comportamenti quotidiani, da cosa questi vengono dettati e come interagiscono o meglio ancora, come possono essere modificati, addomesticati, pilotati attraverso le grandi operazioni di coinvolgimento mediatico, spesso narcotizzante e devastante se non turbativo dell’ordine sociale.

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Nel progettare la realizzazione di questo libro, il cui intento è quello di raccogliere i miei pensieri, le mie convinzioni, confrontarle e sottoporle alla vostra valutazione critica, riflettevo su uno degli argomenti principi, che dovrebbero denotare lo sviluppo del pensiero e il radicamento etico di un popolo, cioè il suo livello “Culturale”. Cosa aspettarsi se un ministro della repubblica, nel pieno possesso delle sue capacità mentali, ha avuto modo di asserire che: “con la cultura non si mangia”[2]. La Cultura è lo specchio civile di un popolo. Quando la cultura non è sostenuta, soprattutto da soggetti politici in carica, il sospetto che si voglia tenere il pensiero della gente sotto vuoto spinto è più che legittimo. L’ignoranza o se volete la non conoscenza, favorisce la proliferazione dell’ipocrisia e dell’apatia sociale, che unitamente spianano la strada all’ agevole manipolazione del favore popolare. La cultura è il più grande se non l’unico concreto strumento di emancipazione sociale e di affrancamento dalla condizione servile dall’ignoranza, sempre che sia costituita su basi solide. Negli ultimi decenni si è dato troppo spazio al tecnicismo, all’imprenditorialità scientifica, allo sviluppo della telematica e dell’elettronica, portando l’uomo a non saper più guardarsi dentro a riconoscere la propria dimensione umana, i sentimenti, gli affetti, la vasta gamma di interiorità che lo caratterizza. Il sistema culturale odierno ha privilegiato l’informazione alla formazione, la spettacolarità dell’immagine esteriore alla ricerca interiore, il successo immediato, rispetto ad un percorso costituito da impegno, studio e gavetta che mettesse il soggetto in condizione di avere la capacità di vivere, di pensare, di riflettere e di valutare. Io definirei tutto questo una “Devianza Culturale” dove a prevalere è il concetto dell’oggi, al massimo ci metto anche il domani, senza preoccuparmi del dopo domani. Non è facile parlare della Cultura in senso generale essendo questa l’insieme delle nostre conoscenze.

La cultura classica ha subito un forte declassamento, ma quello che per me è stato un vero e proprio delitto, perseguibile con l’ergastolo, è l’abbandono dell’educazione civica, pilastro portante di tutto il nostro sistema educativo orientato a favorire la corretta crescita civile e democratica delle giovani generazioni.[3]  La cultura, in questi ultimi decenni, avrebbe potuto rappresentare l’elemento integratore e propulsivo, che avrebbe dovuto permetterci di conoscere, apprendere, mediare e comunicare, rappresentando la fonte primaria della nostra storia, del nostro essere intelligenti, votati unicamente alla continua conoscenza come unica e reale forma di equilibrio esistenziale con il mondo. Oggi attraverso la manipolazione continua dei programmi d’istruzione della scuola dell’obbligo, della carta stampata, oramai schierata in quanto sovvenzionata dagli stessi poteri forti, e da palinsesti televisivi di basso contenuto culturale se non dei propri contenitori diseducativi, non può rappresentare il necessario affrancamento dalla schiavitù ideologica, ovvero il passaggio dalla condizione di subalternità a quella di liberazione della formazione attraverso una libera e incondizionata informazione.

Sentiamo ogni giorno parlare di problematiche che investono pesantemente la scuola, la sanità, le comunicazioni, l’economia, la politica e soprattutto il sociale, ovvero, rileviamo la sussistenza di una forma di degrado generalizzato e dilagante che ha tarlato e indebolito le difese immunitarie della nostra società, dove non si riesce a trovare il bandolo della matassa da cui poter ipotizzare, finalmente, l’avvio di una agognata inversione di tendenza.  La spasmodica ricerca di formule economiche e progetti politici, sin’ora hanno prodotto dei mali i quali il più delle volte sono degenerati in malattie croniche, manifestando complicazioni collaterali preoccupanti quali decubiti di ordine sociale. Spesso le terapie farmacologiche applicate dalla classe politica sono risultate se non nefaste quanto meno inadeguate ma soprattutto e lo aggiungo io, inefficienti, in quanto ideate da soggetti geneticamente ignoranti, afflitti da clientelismo e corruttela cronica. Difetti quest’ultimi annoverabili ad un sistema che non è più esclusivamente politico, ma generalizzato e spalmato su tutti i settori che compongono e rappresentano il nostro vivere comune.

So di non risultare simpatico, quando m’arrabbio, guarda caso non   contro i nostri politicanti da tre soldi, quanto con tutti coloro che ruotano intorno a me, in quanto incapaci di reagire, dei veri irresponsabili sociali, che con la loro apatica indifferenza, consentono ad un manipolo di cialtroni di mettere in ginocchio un intero paese, non solo sotto il profilo economico[4] quanto quello etico. Dalla crisi economica, frutto di eventuali incidenti di percorso, con un po’ di buona volontà e con un po’ di tempo si viene fuori. Da una crisi degradante e avvilente dell’Etica è difficile venirne fuori, in quanto le uniche difese immunitarie sono rappresentate dalla consapevolezza culturale di un popolo che oggi, ahimè, sotto questo profilo è sprofondato nell’ignoranza condivisa. Se poi riflettiamo su quanto affermato da Edgar Morin[5], circa la sua personale opinione sull’Economia,  definendola la scienza socialmente e umanamente più arretrata, il dubbio su quanto sta accadendo in questi ultimi anni in materia di crisi economico-finanziaria, assume dimensioni più atroci. Quanto detto da Edgar Morin, assume rilevanza sociale con risvolti di uso ed abuso da parte delle lobbies della finanza e non solo, che sottomettendo il potere politico, lo conduce a disapplicare le regole su cui dovrebbe poggiarsi una corretta impostazione economica delle politiche di crescita sociale e culturale di un paese.   

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Dopo tutto quanto anzidetto, mancherebbe la risposta alla domanda iniziale e cioè “Il mondo è Felice?” La risposta, forse è contenuta nella veloce disamina degli argomenti sin qui trattati e che potrebbe essere orientata all’infelicità. Ma non abbiamo completato il nostro percorso, non siamo scesi nei meandri del nostro vivere e pensare quotidiano, stimolato da tutto ciò che ci circonda e che costituisce la nostra esperienza, la vera considerazione che ognuno di noi ha su questo mondo e soprattutto di come probabilmente l’avremmo desiderato.

Il vero problema del cittadino del mondo d’oggi è come poter accedere alla conoscenza del contesto in cui vive, avendo poi a disposizione la possibilità (attualmente immatura) di poterla articolare e organizzare.

Propongo, anche perché voi non avete altra scelta, se non quello di chiudere qui questo libro, di proseguire la nostra disamina, rimandare al capitolo relativo alle Conclusioni” la risposta definitiva, onde poter disporre di un quadro valutativo più completo o quanto meno adeguato a farci rispondere alla domanda principe, nonché colonna portante e motivazione fondamentale di questo mio scritto. 


[1] Destino dell’uomo non è possedere la propria umanità, bensì preoccuparsi di realizzarla interamente. (Eric Voegelin); Non si dica più “ha mentito, è umano; ha rubato, è umano”. Questo non è il vero essere umani. Essere umani vuol dire esseri generosi, volere la giustizia, la prudenza, la saggezza, essere a immagine di Dio. (Papa Benedetto XVI);

Uomini, siate umani, è il vostro primo dovere; siate umani verso tutte le condizioni, verso tutte le età, verso tutto ciò che non è estraneo all’uomo. (Jean-Jacques Rousseau).

[2] Verrebbe spontaneo asserire che una frase così anacronistica, fuori luogo, priva di ogni minimale fondamento, possa essere pronunciata da un soggetto in possesso delle proprie facoltà mentali. Potremmo, a sua parziale giustificazione riconoscergli un’attenuante generica: “L’ignoranza congenita cronica”. Questo ovviamente ci fa immediatamente capire il contesto storico-politico che stiamo vivendo, in cui vengono nominati ministri della repubblica soggetti professionalmente impreparati, culturalmente inadeguati, catapultati a dirigere il paese con l’unico scopo di favorire quelle cordate politiche ed economiche che li hanno designati.    

[3] il termine cultura nella lingua italiana denota più significati principali di diversa interpretazione: concezione pragmatica (Positivismo/utilitarismo) presenta la cultura come formazione individuale; Una concezione (Antropologia/Etica), metafisica presenta la cultura come un processo di sedimentazione dell’insieme patrimoniale delle esperienze condivise da ciascuno dei membri (Morale/Valori), delle relative società di appartenenza; Una concezione di senso comune è, inoltre, il potere intellettuale o “status”, che vede la cultura come luogo privilegiato dei “saperi” locali e globali, tipico, delle Istituzioni “superiori”; Infine una concezione di tipo istituzionale (Educazione/Pedagogia), che vede la cultura come strumento di formazione di base e di preparazione al lavoro nell’ordine di una società economica, meritocratica e delle competenze remunerabili. Ecco perché ritengo, e di questo ne parlerò in seguito ampiamente, che alla conduzione di un governo non possono essere chiamati soggetti di dubbia levatura culturale. Un governo non dovrebbe mai esprimere un orientamento dottrinale di una idea, bensì la migliore progettualità possibile, attraverso l’applicazione delle scienze economiche, sociali, sociologiche da parte di esperti che hanno per scopo l’unico e supremo fine quello del benessere della collettività estesa.

[4] Parlando di Economia penso di fare cosa utile al lettore riportare il pensiero espresso da Edgare Morin il quale ha dedicato gran parte della sua opera ai problemi di una “riforma del pensiero“, affrontando le questioni alla base delle sue riflessioni sull’umanità e sul mondo. In Morin è anzitutto fondamentale la distinzione tra civiltà e cultura. La cultura è l’insieme delle credenze e dei valori caratteristici di una determinata comunità. La civiltà è invece il processo attraverso il quale si trasmettono da una comunità all’altra: le tecniche, i saperi, le scienze. In merito proprio all’Economia lui ha scritto: “L’Economia è la scienza Sociale matematicamente più avanzata, è la scienza socialmente e umanamente più arretrata, poiché si è astratta dalle condizioni sociali, storiche politiche, psicologiche, ecologiche. E’ per questo che i suoi esperti sono sempre più incapaci di interpretare le cause e le conseguenze delle perturbazioni monetarie e della borsa, di prevedere e di predire il corso economico, anche a breve termine. All’improvviso l’incompetenza economica diventa la problematica primaria dell’economia.”

[5] Edgar Morin (Parigi, 1921), cognome di battaglia scelto durante la Resistenza, poi preferito all’originario Nahoum, è un autore eclettico –sociologo, filosofo, politico- che, nel corso di un sessantennio, dagli anni Cinquanta in poi, è andato via via occupandosi, con metodo interdisciplinare, di temi riguardanti l’uomo e la sua presenza sul Pianeta, la natura sempre più aggredita e defraudata, la revisione della struttura del sapere e la relativa urgenza di una sua riconsiderazione conoscitiva che superi il disciplinarismo e la disgiunzione tra le parti; la difesa della forma di governo prescelta dagli uomini per meglio comunicare e incontrarsi tra loro, cioè la democrazia, e le misure per limitare le lacune della stessa.

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