“Ginevra Sforza, un racconto di Vincenzo Fiaschitello – Parte terza [continua]
Stava disteso sul letto, privo di forze. Un berretto nero di lana gli fasciava la testa, sul petto si intravedeva la camicia bianca che ad ogni movimento gli si arrotolava sul corpo; le braccia semiscoperte erano abbandonate sopra la coperta. Ginevra con pazienza si aggirava attorno al letto: ora gli rimboccava la coperta, ora gli ricopriva le braccia smagrite e secche, ora gli avvicinava alle labbra un bicchiere di acqua. E nei momenti in cui si allontanava per qualche motivo, Sante la chiamava con un filo di voce. Accorreva premurosa, pronta ad esaudire ogni richiesta.
Un mattino che sembrava stesse meglio chiese di sollevarlo un po’ e di mettergli due cuscini dietro le spalle per potersi reggere. Poi insistette affinché la moglie sedesse accanto a lui: “E’ come se non fossi più qui. Dinanzi alla mente si affollano gli eventi della mia vita passata. Quale oscuro senso del bene e del male mi sopraffà! Mi sembra di essere sospinto da una calca vociante nella quale tra poco sarò sommerso. E tu mi perderai!”
Ginevra, mossa da sincero dolore per la fine imminente di quell’uomo, così tanto celebrato nella sua città e tra gli altri signori degli stati vicini, acconsentiva ai suoi desideri e prometteva di osservare le sue disposizioni. Su un punto, però, Ginevra non riusciva a seguirlo. Ancora nei giorni precedenti la malattia, Sante aveva mostrato grande interesse per il progetto di costruzione di un palazzo che avrebbe dovuto dare lustro alla sua famiglia e per il quale aveva destinato risorse economiche adeguate. Man mano che la malattia si era aggravata, Sante era finito in uno stato di prostrazione tale che non ne parlava più. E se Ginevra gli ricordava quel progetto, si agitava e non intendeva discuterne, come se si trattasse di un’idea ormai estinta.
Assistendo alla lunga agonia del marito, Ginevra si abbandonava a pensieri amari di grande tristezza: “Inchiodati alla nostra servitù della vita, qualunque sia il nostro posto, giunti all’ultimo passo ci aggiriamo incerti, carichi di dubbi, timidi anche attorno alle cose che ci hanno accompagnato da sempre. Non abbiamo il coraggio di attraversare la frontiera, di lacerare quel sottile telo che appena ci separa dall’ombra in cui entreremo, dove nulla potrà appartenerci, dove la nostra fievole voce tacerà del tutto, dove la nostra povera luce si spegnerà nell’infinito abisso”. A quei pensieri seguivano puntualmente le lacrime e si nascondeva il volto con le mani.
Gentile Budrioli, giovane donna, bella e colta, scelta da Ginevra come dama di compagnia, si dimostrava molto abile nel consigliarla e nell’offrirle conforto. Nella circostanza della malattia di Sante, si era prodigata affettuosamente accanto a lei con parole appropriate e con comportamenti pratici per alleviarle contrasti e difficoltà di ogni genere. Le giunse voce che Nicolosa avrebbe desiderato vedere un’ultima volta l’uomo che per lunghi anni aveva amato. Nicolosa si rendeva conto che la sua fosse una richiesta non facile da esaudire, ma implorava ugualmente affinché potesse essere accolta. Gentile non ebbe alcuno scrupolo e approfittando della sua influenza convinse Ginevra a consentire a quell’ultimo incontro.
Vestita con abiti austeri, Nicolosa si presentò alla casa del signore di Bologna e, accompagnata da Gentile, fu introdotta nella stanza dove giaceva sul letto il povero Sante, così diverso da quando si erano lasciati. Senza dire parola, si avvicinò al capezzale di Sante, gli sorrise, lo baciò sulla fronte che bruciava per la febbre e disse piano:” Sarai sempre con me. Per te farò addobbare una stanza nel palazzo Sanuti ”. Sante non poté risponderle, ma con gli occhi fece segno di aver capito. Poi Nicolosa accarezzò la mano di Sante e baciò l’ametista che portava al dito, quell’ametista che tante volte era scivolata con delicatezza sul suo corpo nudo. Le venne in mente il culto dei morti degli antichi egiziani: i defunti erano accompagnati nella tomba dagli oggetti che in vita avevano prediletto perché il loro viaggio nell’aldilà potesse continuare ad essere sereno, senza ansia o distacco da ciò che in vita era oggetto di amore. “Chissà, pensava, se gliela lasceranno al dito questa ametista! Dal tempo di frate Francesco d’Assisi che insegnò la povertà, molti desiderano andare nella tomba, nudi, avvolti appena in un povero lenzuolo, ma io credo che un oggetto prezioso è molto meglio che rimanga nel profondo silenzio dell’eternità, anziché in una fredda teca esposto agli occhi di visitatori distratti o avidi.”
I solenni funerali di Sante officiati dai frati francescani si tennero nella chiesa di San Giacomo, nella stessa chiesa dove era stato celebrato il matrimonio con Ginevra, dopo che il cardinale Bessarione aveva fatto sbarrare la porta del duomo di San Petronio. La chiesa, listata a lutto, era invasa da un gran numero di nobili venuti anche dagli stati vicini, mentre la gente di Bologna era assiepata sulla piazza. In un angolo nascosto, in fondo alla chiesa, Nicolosa con il capo coperto da un velo nero di crespo, era raccolta in preghiera e piangeva silenziosamente; due anziane dame l’avevano accompagnata e le restavano accanto.
La città osservò il lutto per molti giorni. Dietro le quinte si agitavano le forze, i progetti, gli odi, le speranze, di coloro che avevano il potere di dirigere gli eventi. La successione alla signoria, come era nel desiderio della maggior parte del popolo, toccò al cugino di Sante, Giovanni Bentivoglio. Su Ginevra (anche questo era quasi scontato, vista la relazione amorosa già esistente) cadde la scelta di Giovanni. E non fu una scelta politica, ma di amore: dal loro matrimonio nacquero sedici figli.
Quando Ginevra andò sposa per la seconda volta non aveva ancora compiuto ventiquattro anni. Sentiva dentro di sé un grande bisogno di cultura, di libertà, di affermazione del proprio ruolo di donna controcorrente. Erano le stesse tendenze che si portava dalla adolescenza, quando viveva nella casa di Pesaro. Ma ora erano oltre che più chiare, anche più decise e spinte alla verifica nella vita di tutti i giorni. Certo l’amicizia e la costante presenza al suo fianco di una donna colta e spregiudicata, qual era Gentile, avevano innescato una miccia in fatto di visione della vita al femminile, che comportava una aperta presa di posizione in favore di una vera ribellione verso coloro che contrastavano tali idee.
La reazione, che si andava consolidando, al regime di vita familiare delle donne, prima sottomesse al padre e poi al marito, fu presto sperimentata proprio dal notaio Alessandro Cimieri che aveva preso in moglie Gentile Budrioli. Costei apparteneva ad una ricca famiglia della borghesia mercantile. Suo padre, conosciuto il giovane promettente notaio, aveva sborsato ben cinquecento scudi d’oro come dote per la figlia. Ma, trascorsi pochi mesi dal matrimonio, Gentile aveva tirato fuori tutta la sua grinta di donna per nulla decisa a ricoprire il tradizionale ruolo di semplice amministratrice della casa e aveva voluto continuare ad approfondire la passione giovanile per lo studio dell’alchimia, dell’erboristeria e della medicina. Questi vasti e inaspettati interessi, sconosciuti al notaio al momento del matrimonio, furono portati avanti con caparbietà, anche contro la sua espressa volontà. In un primo momento si era piegato ad accettare i desideri della moglie nella speranza che presto si sarebbero sciolti come neve al sole, quando invece si accorse della dura e convinta decisione di Gentile nel voler continuare gli studi, frequentando all’università le lezioni di astrologia del professore Scipione Manfredi, allora cominciò a preoccuparsi e subentrò in lui anche una sorta di invidia, dal momento che la moglie sembrava più indottrinata di lui nei vari campi del sapere.
Non si contavano più i severi ammonimenti del notaio:
-“Una donna rispettabile non può esporsi fino a stare in mezzo agli studenti. L’università è una esclusiva sede di cultura per gli uomini. Ricevo continue deplorazioni del tuo scandaloso comportamento da parte di amici autorevoli e non so più come giustificarmi. Ora voglio da te una completa rinuncia a questi tuoi insani interessi”.
Gentile ascoltava con formale rispetto, ma non intendeva assolutamente cambiare e ribatteva:
-“Tu parli così perché non conosci la storia dell’Università di Bologna. Mi è stato detto da frate Silvestro, mio amico e compagno di studi, che poco più di duecento anni fa, l’Università di Bologna ha conferito la laurea in giurisprudenza a una donna della nostra città, Battisia Gozzadini, che un’altra donna, Novella d’Andrea, teneva lezioni coperta da un velo e che una certa Margherita Legnani insegnava nella stessa università, affacciandosi da una finestra. Come vedi io sono in buona compagnia. La tradizione è a me favorevole. Pertanto ti prego di non intralciare più il mio percorso di studi”.
Era proprio questo carattere fiero, ribelle verso quelle convenzioni sociali che assoggettavano le donne al potere maschile che piaceva molto a Ginevra, la quale voleva assomigliarle. Inoltre condivideva l’interesse per l’esotismo, l’occultismo, la conoscenza delle erbe che aiutavano a guarire. Gentile come affermata dama di compagnia informava puntualmente Ginevra sui segreti che via via scopriva in stretta collaborazione con fra’ Silvestro nel convento dei francescani, dove ormai frequentemente si recava in piena libertà.
Un pomeriggio di un giorno caldissimo di luglio, Gentile e fra’ Silvestro si erano rifugiati nell’ampia sala del seminterrato del convento particolarmente fresca, dove il frate aveva il suo laboratorio di cui solo lui possedeva la chiave. Alle pareti vi erano due grandi armadi a vetri, uno di fronte all’altro, strapieni di boccette di vetro colme di misteriose misture di erbe. Ciascuna aveva un numero e un nome. Era la prima volta che fra’ Silvestro aveva acconsentito a far conoscere quell’ambiente alla sua compagna di studi, che più volte gli aveva manifestato il desiderio di una visita.
-“Ecco è qui che faccio tutti i miei esperimenti segreti. Stai bene attenta a parlare sottovoce. Se il mio maestro frate Alberto o altri fratelli potessero sospettare qualcosa, andremmo subito a finire sul rogo, tu come strega e io come eretico”.
-“Mi spaventi! Ma chi è questo frate Alberto? Non me ne hai mai parlato!”
-“Hai ragione, Gentile, per ora ti basti sapere che io gli debbo tanta riconoscenza perché lui mi ha salvato dal male e dall’ignoranza. La mia famiglia era molto povera, trascorrevo il mio tempo a rubare al mercato e a condividere continue sassaiole con i miei compagni. Un giorno finii in mano alle guardie. Mi trascinavano e io mi dibattevo gridando e sferrando calci. Passò da lì un giovane frate che con fare calmo si avvicinò alle guardie e domandò per quale motivo mi trascinassero a quel modo. Saputa la ragione, li pregò di affidare a lui quel puledro ribelle che presto in convento ne avrebbe fatto un cavallo di razza. Alle guardie non parve vero di potersi liberare da quel malanno, mi lasciarono nelle mani del frate e se ne andarono. Così frate Alberto mi portò al convento dei francescani e col permesso dei superiori poté dedicarsi alla mia educazione. La mia pronta intelligenza, la mia capacità straordinaria di memorizzare lo sorpresero così tanto che, già dopo qualche anno di intensa istruzione, decise di affidarmi a maestri che oltre al latino mi avrebbero insegnato il greco. Tra i diversi illustri maestri che si incontravano presso lo Studio del Convento (tra i quali io mi intrufolavo sempre attento a registrare nella memoria i loro discorsi), non passava giorno che non sentissi parlare di recupero della cultura classica, di risveglio dell’antichità, di manoscritti portati nelle nostre città da personaggi fuggiti da Costantinopoli, caduta in mano ai turchi, dopo un lungo assedio. Tutto ciò mi esaltava. Il mio maestro e protettore fra’ Alberto, che si avviava precocemente alla vecchiaia, approfittando del soggiorno a Bologna di un personaggio di grande fama, Francesco Filelfo, (conoscitore del greco ed esperto traduttore di Omero, di Aristotele, di Plutarco e di Senofonte), discepolo del dotto bizantino Manuele Crisolara, mi affidò a lui e in poco tempo appresi i segreti di quella lingua.
Passavo i miei giorni dentro la biblioteca del convento a leggere i manoscritti che via via attiravano la mia attenzione e la sera mi piaceva scambiare con fra’ Alberto opinioni sugli astri, sulla loro influenza sui comportamenti dell’uomo, sulle erbe medicinali, utili a farci guarire dalle malattie. A questi argomenti si aggiunse un nuovo e più affascinante tema: l’anima.
Cominciai a tormentare la mia anima dopo che un giorno di sabato mi accadde durante un giro al mercato un fatto straordinario. Mi ero fermato al banco del pescivendolo e ammiravo le varie specie di pesci, alcuni dei quali ancora palpitanti. Il pescivendolo, un omone con una enorme pancia si muoveva a fatica dietro il banco, mentre una graziosa ragazza bruna sceglieva i pesci secondo l’ordine dei clienti, li pesava e li infilava nel cartoccio di carta che nel frattempo il padrone le passava. Osservando attentamente, d’improvviso mi accorsi che l’ultimo foglio con cui il pescivendolo aveva preparato il cartoccio non era altro che un manoscritto. Non potevo sbagliarmi. Ormai avevo acquisito molta abilità nel riconoscere a vista quel tipo di carta. Seguii con discrezione l’anziana donna cui era toccato in sorte quel cartoccio speciale. Non temevo di spaventare la vecchietta perché con il saio da francescano certo non suscitavo alcun sospetto. Giunta che fu sulla porta di casa, si fermò a guardarmi e disse: “Fratello, se hai un po’ di pazienza, faccio in fretta e te ne cuocerò uno!” Allora, vergognandomi un po’, mi avvicinai sorridendole: “Grazie, buona donna, che Dio ti renda merito per il tuo spirito di carità, ma io non ho fame, o meglio ho fame di quella carta che avvolge i pesci. Se tu hai la bontà di donarmela, te ne sarei molto grato”. La donna restò perplessa, credendo che volessi prendermi gioco di lei, ma sentendo ripetere la richiesta, fece un sospiro, entrò in casa e dopo un attimo uscì porgendomi il cartoccio vuoto.
In convento mi soffermai a lungo a interpretare quelle poche parole (poco più di dieci); erano ripetute sempre le stesse varie volte, con molte cancellature, come se si trattasse di prove di scrittura di un copista evidentemente non molto esperto. Quando giunse la sera andai dal mio maestro e alla debole luce di una candela leggemmo insieme. “Si parla di logos, di anima”, dice fra’ Alberto. Dunque, avevo interpretato bene: “Anche se percorriamo sentieri infiniti, non potremo mai raggiungere i confini dell’anima, tanto è profondo il suo logos”. Fra’ Alberto concluse che quello poteva essere un pensiero di un filosofo dell’antica Grecia (3).
[continua]
(3)E’ il frammento B45 di Eraclito, come da numerazione di H. Diels e W. Kranz