23 Maggio 1992
di Francesca Polimeno
“…….mi sono fermata sull’autostrada di Capaci ai piedi della stele commemorativa per Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo (….. mi è scappata la lacrimuccia)”.
Giovanni Falcone il 23-5-1992 viene barbaramente ucciso sulla Palermo – Trapani all’altezza dello svincolo di Capaci con 600 chili di tritolo insieme alla moglie Francesca Morvillo (anche lei magistrato del Tribunale dei minori) ed agli agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.
La ricostruzione
Il magistrato era di ritorno da Roma dove lavorava al Ministero di Grazia e Giustizia dal marzo del 1991 come Direttore dell’Ufficio Affari Penali, e in quei giorni aveva intuito che componenti delle istituzioni stavano patteggiando con la mafia.
Appena sceso dall’aereo, Falcone si sistema alla guida della vettura bianca e, accanto a lui, prende posto la moglie Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario Giuseppe Costanza occupa il sedile posteriore. Nella Croma marrone è alla guida Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e, sul retro, Rocco Dicillo.
Nella vettura azzurra ci sono Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. La Croma marrone è in testa al gruppo, segue la Croma bianca, guidata da Falcone e, in coda, la Croma azzurra.
Alcune telefonate avvisano i sicari che hanno già sistemato l’esplosivo per la strage, della partenza delle automobili. Le auto lasciano l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. La situazione appare tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Su una strada parallela, una macchina si affianca agli spostamenti delle tre Croma blindate, per darne segnalazione ai killer in agguato sulle alture sovrastanti il litorale; sono gli ultimi secondi prima della strage.
Otto minuti dopo, alle ore 17.58, presso il chilometro 5 della A29, una carica di cinque quintali di tritolo, posizionata in un tunnel scavato sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci.
Isola delle Femmine, viene azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina.
Pochissimi istanti prima della detonazione, Falcone si era accorto che le chiavi di casa erano nel mazzo assieme alle chiavi della macchina e le aveva tolte dal cruscotto, provocando un rallentamento improvviso del mezzo.
Brusca, rimasto spiazzato, preme il pulsante in ritardo, sicchè l’esplosione investe in pieno solo la Croma marrone, prima auto del gruppo, scaraventandone i resti oltre la carreggiata opposta di marcia, sin su un piano di alberi; i tre agenti di scorta muoiono sul colpo. La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio.
Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, vengono proiettati violentemente contro il parabrezza. Falcone, che riporta ferite solo in apparenza non gravi, muore dopo il trasporto in ospedale a causa di emorragie interne. Rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, e si salvano miracolosamente anche un’altra ventina di persone che al momento dell’attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell’eccidio.
La detonazione provoca un’esplosione immane e una voragine enorme sulla strada. In un clima irreale, e di iniziale disorientamento, altri automobilisti e abitanti dalle villette vicine danno l’allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata e una coltre di polvere. Circa venti minuti dopo, Giovanni Falcone viene trasportato sotto stretta scorta di un corteo di vetture e di un elicottero dell’Arma dei Carabinieri, presso l’ospedale Civico di Palermo.
La testimonianza degli uomini della scorta
Angelo Corbo:
“Ho sentito solamente un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione, e misono sentito solamente catapultare in avanti. Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dalla macchina, perchè purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Quindi con difficoltà ho cercato di uscire dalla macchina. Niente, già uscendo si era capito della gravità della situazione perché la voragine purtroppo era ben visibile
Ci siamo avvicinati e mi sono avvicinato con gli altri alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare o per controllare la situazione, e anche per non far sì che magari qualche altra persona si avvicinasse all’autovettura sulla quale viaggiava il dott. Falcone, che era praticamente in bilico su quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante o poteva essere stata coperta da detriti. Dopodichè visto che non riuscivano a far uscire il dottor Falcone e la dottoressa Morvillo, abbiamo cercato insieme a delle persone che poi sono sopraggiunte di estrarre, appunto, il dottor Falcone e la dottoressa Morvillo.
Mi ricordo che non si riusciva ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato.
Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c’era questo vetro che si era riuscito a sradicare, infatti insieme ad altre persone si era proprio presa la dottoressa Morvillo e la si era fatta uscire dall’abitacolo della macchina. Invece dal lato del dottor Falcone purtroppo non si riusciva ad aprire questo sportello. Fra l’altro poi la macchina stava anche prendendo fuoco, quindi c’era stato anche un cercare di spegnere questo principio d’incendio. Il dottor Falcone era in vita, ecco non so dire se era cosciente, chiaramente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva neanche un gemito, un qualche cosa, comunque era in vita. Addirittura si era pure rivolto verso di noi guardandoci, però, ecco, purtroppo noi eravamo impossibilitati ad un immediato soccorso. L’autista Costanza era messo sul sedile posteriore, se mi ricordo bene era coricato di lato nell’abitacolo della macchina”.
Gaspare Cervello:
“Dopo il rettilineo, diciamo, all’ inserimento del bivio di Capaci, ho visto dopo una deflagrazione proprio gigantesca, un’esplosione che neanche il tempo di finire un’espressione tipica che non ho visto più niente, non so che fine ha fatto la macchina, cosa ha fatto in quel momento la macchina; non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Dopo che ho ripreso i sensi dentro la macchina stesso, vedevo che non potevo aprire lo sportello; con forza riesco ad aprirlo. Non faccio caso neanche ai colleghi se stavano bene, cioè se erano vivi; l’unica cosa del mio istinto era quella di uscire
dalla macchina e recarmi direttamente nella macchina del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla macchina ho visto quella scena proprio straziante, di cui mi avvicino un poco sopra, perché poi c’era il terriccio dell’asfalto che proprio copriva la macchina; c’era soltanto il vetro, quindi anche se volevamo dare aiuto non potevamo. Niente, l’unica cosa che ho fatto è stata di chiamare il giudice Falcone: “Giovanni, Giovanni”, però lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della
macchina davanti, aveva soltanto la testa diciamo libera; no libera, che muoveva, diciamo, per quegli attimi che io l’ho chiamato. La dottoressa era chinata verso avanti come l’autista Giuseppe Costanza, di cui la prima sensazione, quella mia: “Ormai tutti e tre non ce l’hanno fatta”, mentre la macchina davanti, non l’ho vista… Ho pensato che ce l’avevano fatta, ce l’avevano fatta, che erano andati via… ho pensato sono andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo fare più niente perché la macchina nostra era anche distruttissima”.
Giuseppe Costanza:
“Io l’ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è, appunto, nel chiedergli quando dovevo venire a riprenderlo; mi ha detto: “Lunedì mattina”, io gli dissi: “Allora, arrivato a casa cortesemente mi dà le mie chiavi in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina”, ma probabilmente era soprappensiero perché una cosa del genere non riesco a giustificarla soprattutto da lui. Sfilò le chiavi che erano inserite nel quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendogli: “Cosa fa? Così ci andiamo ad ammazzare”. Questo è l’ultimo ricordo che lui girandosi verso la moglie e incrociandosi con lei con lo sguardo e girandosi ancora verso di me fa: “Scusi, scusi”. Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c’ è più nulla. Potevamo andare a una media di 120, 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità perchè la marcia era rimasta inserita, era la quarta”.
Paolo Capuzza:
“Io ero rivolto, diciamo, un po’ verso il sedile della parte destra e guardavo un po’ sulla destra ed il davanti, ed ho sentito un’esplosione ed è arrivata un’ondata di caldo, ed in quell’attimo mi sono girato verso la parte anteriore dell’autovettura, per guardare cosa accadeva, ed ho visto l’asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l’autista abbia sterzato portando l’autovettura sul guardrail destro per evitare di andare addosso all’autovettura del dottor Falcone; poi, quando siamo scesi ci siamo accorti che ci siamo ritrovati dietro proprio l’autovettura del magistrato. Mentre eravamo all’ interno dell’autovettura, si sentivano ricadere sull’auto tutti i massi ed una nube nera, cioè non si vedeva niente, polvere e nube nera che non riuscivamo a vedere niente.
Dopodiché siamo usciti dall’autovettura con le armi in pugno, io ho cercato di prendere l’M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prenderlo, perché appunto la mano non riusciva a tenerlo in mano, non lo riuscivo a prendere, insomma; e, quindi, ho preso la mia pistola di ordinanza. Siamo usciti dall’autovettura per guardarci intorno, perché ci aspettavamo, come si dice, qualche colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c’era davanti all’autovettura del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore completamente; poi c’erano delle fiamme ed abbiamo preso l’estintore che era sulla nostra autovettura e le abbiamo spente. Le fiamme erano proprio davanti l’autovettura del dottor Falcone, che era proprio sul limite del precipizio, diciamo, dove si era creata la voragine, perché non c’era più il vano motore e… ci siamo guardati intorno per proteggere, appunto, ancora la personalità, perché mi sembra che il Cervello Gaspare, sì Cervello, abbia chiamato per nome il dottor Falcone, il quale non ha risposto però si è girato con la testa come… poi abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno”.
La Confessione dei sicari
La Barbera:
“Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato… Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l’aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l’autostrada Palermo-Punta Raisi, all’altezza del bar “Johnnie Walker”… Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari… Chiusi la telefonata dicendo “Vabbè ci vediamo stasera…amuninni a mangiari ’na pizza’”.
Brusca:
“Non ci fu un’unica esplosione, ma una serie di esplosioni, sei o sette, a ripetizione: la prima partita dal centro della carreggiata, e poi altre laterali”. “Quando arrivò il corteo di Falcone io non schiacciai il telecomando e Antonino Gioè per tre volte mi disse: vai, vai, vai. Non so perchè. C’era qualcosa che mi diceva di non farlo. Poi schiacciai il telecomando”.
…….. e la storia d’Italia cambiò completamente volto.
Per la strage di Capaci si pentì Giovanni Brusca, capomafia di San Giuseppe Jato (colui che premette il detonatore).
Oggi Giovanni è considerato un “eroe” nazionale conosciuto in tutto il mondo come simbolo della lotta alla mafia.
(Tratto da “Storia di una ciambella senza buco” di Francesca Polimeno)