IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

1/3 – Il Profumiere Ebreo. Un racconto in tre puntate di Vincenzo Fiaschitello

Profumo-nellaria

Profumo-nellaria

Non ci si poteva sbagliare. Era l’ultima casa in fondo a Via dei Mille, da dove poi iniziava la campagna che circondava il paese. Più che affidarsi alla vista, la gente seguiva l’indicazione dell’olfatto. Man mano che ci si avvicinava, un odore gradevolissimo attirava misteriosamente verso la casa del profumiere, un odore straordinario di essenza di fiori vi aleggiava in permanenza e si spandeva per un lungo tratto di strada.

La casa, piccola e modesta, era circondata da un grande giardino protetto da un  alto muro sul quale per scoraggiare gli eventuali intrusi erano confitti colli di bottiglie e ogni tipo di frammenti di vetro. Per la verità il proprietario non avrebbe voluto cingere quel muro in modo così pericoloso, ma il geometra, al quale anni prima aveva affidato la costruzione, aveva tanto insistito parlando del rischio di malintenzionati che sempre ci sono anche nei piccoli paesi, per cui alla fine si era dovuto arrendere. Sembrava proprio che il proprietario avesse avuto ragione perché in effetti negli anni trenta del secolo scorso i trasgressori della legge venivano sempre perseguiti e puniti severamente; tutto scorreva regolare e puntuale come i treni che giungevano alla stazione e partivano con puntualità sorprendente, le donne potevano lasciare persino le chiavi di casa attaccate alla serratura, senza alcuna spiacevole conseguenza.

Nessuno però poteva prevedere certe speciali situazioni che via via diventarono sempre più frequenti e gravi.

Qualche riluttanza a stabilire rapporti stretti di amicizia o semplicemente di buon vicinato con gli ebrei c’era sempre stata tra la gente. Non era affatto discriminazione o peggio odio razziale, ma una tendenza a tenersi in guardia, ad avere un certo sospetto nella trattazione degli affari con loro, questo sì, a giudicare dai modi di dire, dai proverbi, dai luoghi comuni che circolavano, come nel caso di qualcuno che si dimostrava eccessivamente legato al denaro, al risparmio: “Non fare come gli ebrei! Sei senza cuore, come un ebreo.” E altre frasi simili.

Questo alimentava o comunque teneva desto un deprecabile atteggiamento, un pregiudizio, che si andò modificando in vera e propria avversione fino a sfociare in persecuzione, come purtroppo accadde con le Leggi razziali.

Cominciarono i ragazzi. Dapprima fu la curiosità. Quale era la fonte di quel

profumo? Come faceva il signor Isaia Nathan a produrre quel profumo? Certamente aveva un segreto! Vedevano quella casa come un fortino inespugnabile. Quando si avvicinavano al robusto cancello di ferro, potevano intravedere da quell’unico punto di osservazione un’aiuola sempre fiorita e in lontananza la cima di una magnolia dai bei fiori bianchi e carnosi.

Isaia aveva ereditato dal padre la passione per i profumi. Da ragazzo suscitava l’invidia dei suoi compagni di gioco, perché anche durante le corse sfrenate con gli abiti impolverati e sudati, il suo corpo emanava una fragranza inconfondibile che gli procurava una generale simpatia. Nei rari momenti di calma, quando stavano seduti su un muretto o su un vecchio tronco d’albero abbattuto dal vento, raccontavano storie di fantasmi, di assassini, di animali parlanti. Un giorno Isaia, in vena di confidenze, accennò a una storia segreta di cui il padre era stato protagonista. Questi a volte ne parlava con voce grave e con fare guardingo come se estranei potessero ascoltare.

Crescendo, Isaia si era fatta un’idea precisa di quanto era accaduto al padre da giovane. Durante alcuni scavi in Egitto ai piedi di una piramide, come aiutante e collaboratore di un amico archeologo, regolarmente autorizzato dalle autorità, si era trovato coinvolto in una straordinaria avventura. In un sepolcro, accanto alla mummia, venne trovata una piccola ampolla ermeticamente chiusa e un minuscolo papiro. La gioia della scoperta sfumò dinanzi alla delusione per non aver rinvenuto alcun gioiello o comunque oggetti di valore. L’archeologo, cui andò la gloria, generosamente volle far dono al padre di Isaia dell’ampolla e del papiro ritenuti di scarso interesse.

Per qualche tempo il padre si dimenticò di quel dono, finché un giorno un correligionario, persona coltissima e studiosa di lingue antiche che era venuto in visita nella sua casa, si accorse di quella ampolla, che faceva bella mostra su un ripiano di un elegante armadio insieme con alcuni frammenti di granito provenienti da altri scavi, e chiese all’amico il permesso di poterla osservare da vicino. Dopo averla più volte rigirata tra le mani, volle dare un’occhiata al piccolo papiro su cui stava poggiata l’ampolla. –“Ho capito, disse dopo una breve riflessione, si tratta di un profumo. Qui c’è scritto Essenza dei sette fiori: loto, verbena, papavero, rosmarino, gelsomino, rosa. Peccato che non si legga l’ultimo fiore, perché manca un pezzetto di papiro. Di solito, aggiunse, era un profumo di grande pregio, la cui confezione era tenuta segreta. Veniva posto nel sarcofago per accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio dopo la morte.”

  • “Sì, proprio così. Proviene da un sarcofago. Ma ora mi piacerebbe aprire l’ampolla”.

Dopo un po’ di manovre infruttuose, finalmente i due amici riuscirono ad aprire l’ampolla. Subito nell’aria si diffuse un profumo straordinariamente intenso. Era come se d’improvviso si fosse spalancata la finestra e un vento impetuoso, travolgente, ma infinitamente dolce e piacevole fosse entrato nella stanza. Nella loro memoria non c’era il ricordo di un profumo così attraente, così penetrante da annullare tutti i sensi, da annebbiare la mente e nello stesso tempo elevarla ad altezze inusitate. I due restarono per qualche attimo immersi nel silenzio e in quella specie di sogno empireo che li aveva sottratti alla realtà.

Su consiglio dell’esperto amico, il padre di Isaia conservò gelosamente l’ampolla e il papiro. Gli era balenata, infatti, l’idea che quel profumo potesse fare la sua fortuna, se solo fosse riuscito a produrlo secondo la precisa indicazione scritta sul papiro. Da quel giorno, dunque, conoscere l’ultimo elemento mancante fu l’impegno supremo della sua vita.

Isaia si abituò a vedere il padre sempre chino sui fiori e sulle erbe del giardino di casa o mentre provava e riprovava miscugli di petali di fiori raccolti nei luoghi che visitava, in collina, in montagna, negli angoli più nascosti e poco assolati di certe valli.

Egli fu preso dalla stessa passione e imparò l’arte della produzione delle essenze. A differenza del padre, però, il giovane coltivò anche l’interesse per la filosofia e la storia delle religioni, ottenendo molto presto la cattedra per l’insegnamento di storia e filosofia in un liceo.

Un giorno, ritornando dal lavoro, trovò la madre piangente. Il padre stava disteso immobile sul letto: due medici lo visitavano. Uno dei due scuoteva la testa e quando si accorse della presenza di Isaia, gli si avvicinò e gli fece capire che il padre stava per spegnersi. Isaia, pallido in volto, si accostò al capezzale del padre e chinatosi fino a sfiorargli l’orecchio gli sussurrò qualcosa. Il padre aprì gli occhi e mosse le labbra. Isaia credette di udire il nome di un fiore. Poi più nulla.

La morte del padre e qualche tempo dopo quella della madre furono per Isaia le prime esperienze dolorose della sua vita. Restò solo. E poiché non aveva alcuna intenzione di cercarsi una compagna, si dedicò completamente ai fiori e all’insegnamento.

Conduceva una vita molto ritirata, anche se alcuni amici di tanto in tanto venivano per fargli visita. Tra questi non mancavano ex studenti che ormai frequentavano l’università, ma amavano informarlo sui loro progressi negli studi e continuare ad ascoltarlo parlare come un tempo.

Si era distaccato dalla piccola comunità ebraica che viveva nel paese e nel circondario, perché spesso aveva manifestato idee che assolutamente non si

accordavano con quelle della dottrina ebraica. E a volte, scherzando con gli amici, diceva che la sua situazione di ebreo scacciato dalla comunità era simile a quella di Baruch Spinoza nel lontano seicento. Qualche ebreo più astioso degli altri finì col dirgli: “Tuo padre, rispettando la nostra religione, alla tua nascita ti fece circoncidere. Ma evidentemente sei rimasto incirconciso nel cuore!”

Un giorno d’estate, accadde che cinque o sei ragazzi venuti da un paese vicino, attratti dal profumo che proveniva da quella casa, presi da una curiosità irrefrenabile, tentarono di scavalcare il muro di cinta. E, aiutandosi l’un l’altro, riuscirono a sollevare in alto uno di loro, pronto a saltare all’interno del giardino. Ma l’operazione non andò a buon fine perché fu interrotta bruscamente da un serio incidente, Il ragazzo si lasciò cadere pesantemente sulla strada con un grosso squarcio alla gamba. I cocci di vetro, voluti tanto tempo prima dal prudente geometra, avevano assolto il loro compito. Il ragazzo si lamentava e cercava di frenare il sangue che perdeva abbondantemente. I compagni richiamarono l’attenzione di qualche passante che si premurò di chiamare i soccorsi.

Isaia andò a trovarlo in ospedale; si scusò con i suoi genitori e si informò presso i medici delle sue condizioni di salute. Rassicurato, volle promettere al ragazzo che non appena fosse guarito lo avrebbe volentieri accolto con i suoi amici a vedere il giardino e il suo laboratorio.

Una suora entrò sorridente, portando un piccolo vassoio per la cena. Alta e magra si muoveva con straordinaria agilità e armonia: la cornetta con le ali larghe e inamidate la faceva rassomigliare a una bianca farfalla, pronta a posarsi di qua e di là. Quel copricapo a larghe tese, voluto sin dalla fondazione dell’ordine nel secolo XVII da San Vincenzo de’ Paoli e da Luisa di Marillac, era molto familiare e ben accolto da chi soffriva sui letti d’ospedale.

Isaia si avviò verso l’uscita; lungo il corridoio si accorse che un gruppo di persone discuteva animatamente attorno al podestà che indossava la divisa ufficiale. Al suo passaggio, Isaia udì distintamente: “Questi maledetti ebrei! Vi assicuro che presto li cacceremo via.”

Incoraggiato da quella frase, qualcuno dei presenti, forse, pensò bene di cominciare a infliggere a quell’ebreo, tanto riservato e misterioso, una prima punizione. Isaia da qualche anno aveva preso con sé un bel cane pastore, cui era molto affezionato. Lo seguiva nelle passeggiate sia dentro il giardino, sia fuori per la campagna attorno fino alle prime colline, dove si avventurava per osservare e scoprire sempre nuovi fiori. Un mattino lo trovò agonizzante ai piedi della scala. Dolori atroci lo scuotevano. Nessun dubbio che l’avessero

avvelenato. Gli occhi imploravano la morte, lui era il suo Dio, se solo l’avesse voluto, avrebbe potuto facilmente dargliela. Ma come poteva? Nella sua memoria era imbalsamata la sua festosità, il suo lieto saltellare attorno a lui, il suo scodinzolare continuo mentre si preparavano ad uscire per le passeggiate. Gli morì tra le braccia, ancora prima di poterlo portare dal veterinario.

Isaia, pur vivendo in città, pur sentendo viva la responsabilità dell’educatore e del docente, era un uomo solo, un uomo che amava la solitudine. La sua era una solitudine non uguale a quella dell’uomo che si ritira nella foresta o nel deserto, proprio perché vuole restare lontano dai suoi simili, ma la solitudine di un essere singolare in cui è sempre presente il sogno di una moltitudine. Amava lasciare al tempo il privilegio della memoria: ogni evento che gli colpiva il cuore, la luce di un’alba che al mattino di un giorno vide spuntare, il sorriso di una fanciulla che smorzò la sua tristezza, il soffio lieve di una mano che sfiorò per caso la sua, una voce che come dolce miele scese nel suo cuore. E in mezzo a questi ricordi e pensieri, provava una grande serenità mentre girava attorno alle sue aiuole coronate di fiori. Piegandosi sulle ginocchia risaliva con le dita lungo il gambo flessibile di un fiore e ammirava estasiato i colori della corolla, ne sentiva il profumo e diceva: “Piano, piano, ancora qualche giorno e poi toccherà anche a te mutarti in fragrante essenza”. Percorreva il viale centrale fino al grande albero della magnolia: là d’estate sostava a lungo a meditare. Gli capitava di strappare un sasso dalla terra e, rivoltandolo, osservava la fuga di insetti impazziti, che vivevano quieti e in silenzio nel loro mondo sotterraneo. Quel che sopra germogliava, fioriva, splendeva alla luce del sole, là sottoterra una altrettanto vigorosa vita si spandeva nell’oscurità: le radici si allungavano anche a notevole distanza dal tronco dell’albero, si facevano strada tra le fessure delle rocce, si intrecciavano, davano riparo a piccoli animali di ogni genere. Il cuore della terra pulsava: teneva in vita piante, animali e la stessa materia inerte. E lui si sentiva parte di tutto questo, come ogni uomo. L’unico privilegio consisteva nel sapere di avere questa consapevolezza, che è ciò che ci distingue dal resto del creato. In quei momenti spesso si ricordava dell’ultimo respiro del padre e della sua avventura giovanile. A volte gli succedeva che anche nel sogno gli apparisse l’immagine di un fiore sconosciuto, semplice, gracile, delicato, lievemente reclinato. E una voce lontana diceva: “Ecco il settimo fiore, coltivalo e avrai in gran quantità l’essenza che stai cercando”.

In realtà non aveva mai smesso di pensare a quel fiore mancante, al movimento delle labbra del padre, a quel soffio di voce che forse era il nome del fiore che

finalmente il padre aveva scoperto. Quando era spossato dal continuo pensiero di quale possibile fiore potesse trattarsi, ricorreva all’estremo rimedio. Si alzava e prendeva in mano delicatamente l’ampolla, l’apriva per un istante e ne respirava la fragranza. Bastava quell’istante per avvertire la presenza di una nuvola odorosa che l’avvolgeva tutto e gli fermava la vita. La mente si rasserenava, una gioia interiore gli infondeva nuova energia, un nuovo ardore e entusiasmo lo spingeva ancora a cercare e dal suo cuore fuggiva ogni pensiero di resa. I giorni restavano a lungo luminosi, correvano come un treno che sventola le luci dei finestrini nel buio della notte.

Un pomeriggio di ottobre, Luca il ragazzo che si era ferito alla gamba, accompagnato dal padre e da quattro compagni si presentò a casa di Isaia.

-“ Quale bella sorpresa, disse Isaia, entrate, entrate! Caro Luca sono felice di vederti perfettamente guarito. Prego, venite a respirare l’aria del mio giardino”.

E rivolgendosi al padre di Luca aggiunse: “Per i ragazzi c’è questo bel cesto di frutta fresca, per lei signor Aldo preparo subito un buon caffè.”

-“ Ma non si disturbi, professore!”

– “Nessun disturbo; voi ragazzi date liberamente un’occhiata intorno. Fra un po’ starò con voi”.

-“ Ebbene, ragazzi, che ve ne pare? A me preme dirvi che ciò che quel giorno avete fatto non è stata una pessima bravata, ma un atto straordinario”.

I ragazzi si guardarono meravigliati, pensando che volesse scherzare.

“ Sì, continuò Isaia, voi avete agito sotto la spinta di un desiderio più che naturale, che vi lega all’umanità intera. Non ve ne siete accorti, ma il vostro progetto non era poi tanto diverso da quello di Ulisse, l’eroe di Itaca, che si avventurò con i suoi compagni nell’immenso mare, affrontando pericoli di ogni genere, perché voleva vincere ogni limite, al di là del quale di volta in volta gli appariva l’infinito. Il cancello, il lungo e pericoloso muro, che attornia il mio giardino, sono stati per voi come una insopportabile chiusura, una fine del mondo conosciuto e non potevate fare a meno di tentare di superare quegli ostacoli, anche a costo di procurarvi sofferenze. Voi, perciò, visto quel che è accaduto a Luca, avete largamente pagato e dunque meritate di scoprire ciò per cui avete tanto rischiato. Ma non crediate di aver saziato così la vostra sete di conoscenza. Altri limiti, altri cancelli, si presenteranno nella vostra vita e la lotta continuerà per scoprire sempre ciò che sta dietro a ogni cosa”.

Ma ora basta. Non siete venuti per ascoltare il professore, ma il giardiniere e il profumiere. Camminando per il giardino, Isaia parlava delle sue piante e dei suoi fiori. Sciorinava in continuazione nomi conosciuti da quei ragazzi o totalmente ignoti: edera, vischio, terebinto, gelsomino, neroli, bergamotto.

Guardava gli occhi di quei ragazzi e si accorgeva che come per miracolo in quei momenti si erano come spogliati di tutto. Le loro candide anime seguivano la voce di Isaia, gli inviti a odorare, a toccare con delicatezza, ora quella foglia, ora quei petali, ora accarezzare le arance pendenti dai rami piegati verso terra, finché uno di loro esclamò: “Com’è bello! Sembra proprio il paradiso terrestre!”

Isaia condivideva in pieno la felicità di quei ragazzi e pensava alle sue prime esperienze di quel tipo quando aveva la loro età. Ora non sapevano di questo rapporto così eccezionale con la natura che stavano sperimentando, ma quando la memoria avrà racchiuso come in un cerchio magico gli eventi di quel giorno, ecco che lo potranno sapere, come ora succede a lui nel rievocare il suo passato.

Al centro del giardino chioccolava al sole una fontanella dove passeri e piccioni si bagnavano, ma fuggirono al primo apparire dei ragazzi che correvano e gridavano allegri.

-“ E ora, ragazzi, seguitemi. Andiamo a visitare il laboratorio”.

Accanto alla casa, in un angolo seminascosto da alberi da frutto vi era un capannone piuttosto rustico. Isaia tirò fuori dalla tasca una grossa chiave e aprì la porta. Un profumo intenso e gradevole investì i visitatori. I loro occhi furono subito catturati dalle numerose attrezzature che riempivano quel grande spazio. Al centro c’era un enorme alambicco di rame che riluceva come fosse d’oro, collegato con tubi, tubicini, serpentine, ghiara, coperchi, colli di cigno, refrigeratori; alle pareti, su vari ripiani, boccette di vetro di tutte le dimensioni, misuratori di temperatura, tappi di sughero. In un angolo c’era un tavolo sul quale poggiava lo stesso sistema, ma estremamente più piccolo con un alambicco di non più di due litri.

La seconda puntata sarà pubblicata domenica 10 aprile

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