IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

1/3: I tre paradossi di un mondo che la maggior parte dell’umanità ritiene infelice (in tre puntate)

fame-nel-mondo

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Di Pompeo Maritati

Cominciamo con il porci una domanda: “Il mondo, il nostro mondo, è Felice?”

Se la domanda la rivolgessimo al pianeta Terra e questo potesse risponderci, probabilmente rischieremmo di essere mandati a quel paese tutti in massa, in fila per due, col resto di uno[1]. Lo scempio ambientale perpetrato in questi ultimi cinquant’anni, è senza dubbio il delitto più atroce e abominevole che l’umanità abbia mai commesso, da quando qualcuno, o qualcosa, ebbe la geniale intuizione di porre in essere quel meccanismo geneticamente complicato e misterioso, che ha generato la razza umana. Se invece a questa domanda fossimo chiamati a rispondere noi umani, penso che quella bella definizione, peraltro usata e abusata nella letteratura e nel cinema “La Vita è Bella” potrebbe restare annoverata solo tra le belle frasi fatte, appartenenti più alla sfera dell’ipocrisia. La quotidiana realtà drammaticamente ci fa svegliare da quella bella dimensione romanticamente onirica, che disegna la vita sotto forma di prati verdi e mari cristallini.  

felice-infelice
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Mettere insieme la bellezza della vita con la felicità, pur sembrando la stessa cosa, in effetti non lo sono. Si può amare ed apprezzare la vita pur non essendo felici, desiderando di viverla a fondo, con la speranza che questa possa domani essere migliore. E’ questa la molla che spinge l’umanità a proseguire il suo percorso terreno. Una umanità che, se anche conscia dei propri limiti e delle sofferenze, serba in cuor suo il sogno di un domani migliore, un domani fatto di un equilibrio socio-economico più aderente alla sua dignità, anche se poi, molto spesso, pur consapevole di quanto anzidetto, si comporta in modo esattamente contrario.  A tale scopo sottopongo alla vostra riflessione critica i miei tre paradossi sulla felicità della vita:

Primo paradosso:

– il mondo, nonostante la violenza subita dall’uomo, ancora oggi è “meraviglioso” “bello” “stupendo”. Il mondo conserva ancora la capacità di farci restare sbalorditi, attoniti, a bocca aperta e potrebbe continuare a vivere, anche meglio, senza la nostra ingombrante presenza. L’uomo invece no, al momento ha bisogno del mondo[2] non esistono condizioni che consentano a noi umani di poter fare a meno di lui. La vita spesso è un percorso amaro, difficile, deludente, fatto di sofferenze e privazioni, dove i vari contesti, che pian piano andremo ad approfondire, quali quelli materialistici, sociologici, psicologici e spirituali, caratterizzano e determinano la qualità della vita nella società in cui viviamo, o forse sarebbe più giusto dire, oggi, al gruppo etnico[3] a cui apparteniamo. Quando accenno alle privazioni, non necessariamente queste debbano essere ricondotte al soddisfacimento di bisogni materiali.  La soddisfazione nella vita, che dalla vita ci deriva, è determinata dagli affetti che ci circondano, dal sentirsi più o meno realizzati nell’ambito del gruppo sociale di appartenenza, non solo e necessariamente in termini di benessere economico, quanto di avere la consapevolezza che agli occhi degli altri, non siamo stati delle zavorre e di aver cercato di idealizzare il proprio pensiero, perseguendo sogni e ideali, tali da poter asserire, alla fine del nostra vita terrena, che il tempo trascorso su questa terra non sia stato del tutto sprecato.

Solo che, oggi, il concetto appena espresso non trova più la sua giusta collocazione umana, se non in una parte marginale dell’umanità. Viviamo in un contesto storico dove vige una profonda confusione tra benessere e malessere, avendo perso di vista alcuni valori fondamentali. L’orientamento dei nostri interessi primari, indirizzati al soddisfacimento dei bisogni esclusivamente materiali, ne definiscono e stabiliscono il nostro benessere, ovvero lo status   e il mancato soddisfacimento di tali bisogni, si trasforma inesorabilmente in malessere che genera depressione. L’organizzazione della società moderna ci ha portato a sviluppare freneticamente, soprattutto l’aspetto materialistico, ovvero l’adulazione della propria immagine, privilegiando il possesso di beni e servizi, quale elemento distintivo di superiorità culturale e sociale (sull’aspetto culturale ne riparleremo, essendo anch’esso diventato prerogativa non dei dotti ma di chi ha le redini del potere. Quella che io oramai da tempo definisco l’arrogante ignoranza politica che arbitrariamente s’arroga il diritto di decidere cosa è cultura, aprendo così le porte ufficialmente alla globalizzazione e massificazione del pensiero culturale).  Oggi anche la cultura è diventata un oggetto materiale, valutabile in termini economici, per cui se ne quantifica, prevalentemente se non esclusivamente, la convenienza nichilistica e non il ruolo formativo e informativo per una sana crescita culturale della società. Oramai il consumismo spasmodico si è radicato nella vita quotidiana dell’uomo, bombardato da milioni spot pubblicitari e dal susseguirsi di mode, che a non esserne fedeli seguaci si rischia di restare isolati dalla società che conta, quella che generalmente ha il potere di decidere e alla quale è bene sapersi aggrappare per poter quanto meno vivere della sua luce riflessa. Una moda che mi preoccupa, non tanto per l’invadenza di cosa e come vestirsi, o quale ingrediente sia meglio mettere per fare una buona pasta asciutta, quanto certe correnti di pensiero, degli eccentrici modi vivere la propria quotidianità.

Oramai la ricerca profonda di se stessi, attraverso la conoscenza e la formazione, e perché no, anche aiutati da una corretta informazione è stata soppiantata. L’individuo è diventato vulnerabile e molto più agevolmente manipolabile dai detentori degli interessi dominanti. Anche quando emerge a volte la consapevolezza di quanto frivolo sia questo sistema di vita, si riesce ad auto violentarsi il cervello, convincendosi che quel sistema frivolo è quello vincente, e tutto il resto appartiene solo al mondo dei perdenti.

Proprio così o si appartiene al mondo di coloro che ne decidono le sorti sulla base di opportunistiche convenienze, i cui stili di vita sono caratterizzati dal modo di come si appare e non per quel che si è, oppure si è relegati in quell’ammasso enorme di individui che non contano nulla e che servono solo per poter raffrontarsi. Un tessuto sociale costituito da due sole categorie di esseri umani, rappresentati alla perfezione da quella famosa affermazione del Marchese del Grillo che rivolgendosi a dei poveri plebei disse: “che ci volete fare, io sono io e voi non siete un cazzo”.

Oggi la stragrande maggioranza dell’umanità non conta più un “cazzo” costituendo quell’ulteriore materia prima da utilizzare a proprio piacimento nella produzione di beni e servizi. Una semplice materialistica componente alla stregua di qualsiasi altro prodotto, senza un’anima, senza una propria dignità, dove il suo modo di vivere e del suo stato d’animo, da tempo non importa più a nessuno. La produttività e la redditività di cui abbiamo accennato nelle pagine precedenti, sovrastano ogni umana esigenza. A questi due fattori la vita dell’uomo è stata schiavizzata. In assenza di una pur minima convenienza reddituale l’uomo non vale assolutamente nulla. Milioni di persone, interi popoli, nulla possono e nulla contano di fronte alle alchimie finanziarie delle lobbie della finanza. Oggi milioni di persone possono essere portate nella povertà più estrema, nell’indigenza, a vivere la loro esistenza tra fame, malattie e ignoranza, solo per far quadrare una mera formula di matematica finanziaria. E’ questo il XXI secolo, ovvero la nuova religione prevalente, l’unico vero Dio in cui si crede. Perché l’altro Dio a quanto pare si è preso un lungo periodo di vacanza, visto che non si fa più vedere come ne secoli precedenti, quando era solito frequentare la terra, o quanto meno, quando a lui non gli garbava di venire, ci mandava qualche suo sostituto con tanto di delega.

Mentre in passato la morale dell’uomo era ricercare e sviluppare una vita virtuosa, oggi il credo universalmente accettato, è costituito dal materialismo, ovvero dalla ricchezza,  dall’opulenza in tutti i suoi aspetti e forme. Apparire ad ogni costo; ritenersi qualcuno nell’ambito degli ingranaggi della società, alletta e aggrada. Restare ai margini della società oggi rappresenta una condizione umiliante, frustante, in quanto il soggetto si rende conto di quanto sia insignificante, deludente e mortificante e soprattutto difficile il percorso della sua vita.

Lo spessore qualitativo di u uomo, oggi si valuta in soldoni, cioè in cosa si possiede e cosa si è realizzato in termini patrimoniali, indipendentemente dai mezzi e dalle azioni messe in campo. Il solo fatto di possedere la ricchezza, sinonimo di potere, di per se rappresenta il passaporto spirituale e giuridico per accedere ovunque e quel che è peggio, essere rispettati e ahimè anche emulati.

Paradossalmente la saggezza popolare ci suggerisce che la ricchezza, i suoi vizi e i suoi abusi possono portarci, in molti casi, ad una infelicità che possiamo definire grave e preoccupante, addirittura pari a quella che deriva dalla povertà estrema. Non solo, le recenti ricerche dimostrano che le persone più ricche, nonostante abbiano una maggiore capacità d’accesso a beni e servizi, godendo di una salute e di una istruzione migliore, sono spesso più infelici di chi possiede meno[4]. La condivisibilità di quanto anzidetto è da tutti noi sottoscritta, solo che, pur riconoscendo quanto sia evanescente questa felicità, semplicemente costituita dal possesso del benessere materiale, constatiamo da tempo che l’intera società è su questo benessere orientata. Per par-condicio ritengo opportuno riportare quella battuta, per alcuni, un proverbio per altri, che recita: “la ricchezza non porta la felicità, ma ti fa vivere senza problemi”.  In poche parole l’affermazione umanamente condivisa sulla ricchezza è che non è foriera di felicità, rappresentando questo un motto realizzato dai più indigenti, per potersi prendere per i fondelli da soli.

Il trascorrere del tempo, la devastazione della crisi economica, che ha ulteriormente reso più evidente la frattura tra una parte del mondo opulenta e ricca e quella restante parte, a volte priva anche dei minimali mezzi di sostentamento, ha reso più spasmodica e irrefrenabile la conquista, ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, del benessere materiale. Oggi i giovani, ma anche i meno giovani vivono nell’emulazione dei loro idoli, che non sono i grandi scrittori, matematici, filosofi, scienziati in genere o eroi, ma artisti dello spettacolo o sportivi, anche se tale appellativo è da ritenersi improprio, in quanto di sportivo costoro non hanno assolutamente nulla. Soggetti che primeggiano ed imperversano sulle copertine di tutti i rotocalchi, inseguiti da fama e notorietà posticcia, e a volte dai contenuti morali alquanto discutibili. Ma di tutto ciò non importa nulla, l’importante è essere come loro, essere ammirati, osannati, avere una barca di soldi, e della morale in genere non importa a nessuno. Anzi proprio riuscendo a calpestare gli elementi più importanti della morale spesso si riesce ad arrivare alla notorietà subdola, fatta di aria fritta sotto vuoto spinto. Si è disposti a tutto pur di arrivare alla notorietà, anche a vendere la propria anima, visto che del loro corpo è stato già ipotecato tutto. Una predisposizione morale di bassissimo livello, dove non esiste la dignità, e la mercificazione del proprio corpo è diventata l’unica l’arma efficace, grazie ad una classe dirigente fatta da nominati senza cultura, e soprattutto senza scrupoli, vere e proprie piovre. Basta vedere quante decine di migliaia di giovani si presentano per sostenere provini per accedere a trasmissioni di dubbia qualità artistica, dove per lo più pare si cerchi ogni anno di più, di scoprire quanto sia profondo il barile dello squallore mediatico. Ragazzi disposti a tutto pur di avere una loro pagina di notorietà. Non importa nulla a loro dello studio, della gavetta, del rispetto delle regole, l’importante per loro è arrivare a qualsia costo, consapevoli, non per loro colpa, che a decidere del loro destino sono solo dei soggetti, la cui morale non poggia sull’etica e sul rispetto della dignità di questi ragazzi.

La parte peggiore e per certi versi anche paradossale è constatare che tanta gente è convinta di quanto anzi detto sul degrado etico e morale di questa società perversa e iniqua, ma nulla può, perché il tutto viene manipolato e pilotato da forti interessi finanziari che trovano utile a mantenere il livello culturale della massa sempre più basso. L’assenza di una propria coscienza culturale, della conoscenza e consapevolezza di essere depositari di una proprio ed ineluttabile dignità, consente a detentori delle redini della comunicazione mediatica di consolidare tale stato di narcosi popolare. E’ veramente inaudito, inconcepibile, mortificante e demoralizzante verificare che milioni di persone siedono davanti al loro televisore per ore e ore ad assistere con morboso interesse a trasmissioni diseducative.  E’ l’era dei grandi fratelli, delle isole dove vengono inviati personaggi che definiscono famosi ma che di famoso non mi pare abbiano nulla se non quello di essersi contraddistinti per eventi che nulla hanno a che vedere con cultura, l’arte, la scienza ecc. In poche parole e per farla breve, la comunicazione mediatica ha cessato da tempo di essere informativa e soprattutto educativa.

Se poi affrontiamo l’aspetto informativo, qui si apre una ulteriore voragine etica dove la deontologia professionale del giornalismo in genere, sia televisivo, che della carta stampata, pare non stiano dando esempio di virtù. La proprietà dei giornali, oramai in mano a gruppi industriali e finanziari ne hanno minato la loro indipendenza. Quanto anzi detto per il mondo della stampa in genere viene ritenuta una bugia o una esagerazione. Purtroppo saremo prima noi ad esserne felici di constatare che le nostre impressioni sono sbagliate. Noi tutti vorremmo una stampa libera, indipendente, che ci aiutasse a capire ciò che sta succedendo intorno e soprattutto ci aiutasse a superare questi periodi di decadimento etico. Invece no, la sensazione è che con il passare del tempo questa libertà di stampa pare perdere sempre più questo ruolo. Sono oramai troppi i casi in cui la stampa si è palesemente schierata a favorire alcune correnti politiche, utilizzando giornali e tv quali megafoni importanti per i loro beniamini, nascondendo o riportando con basissimo risalto altri aspetti che riguardano la parte avversa. Si accaniscono contro alcuni per delle sciocchezze, perché sono avversari, per poi minimizzare aspetti di grande gravità che però riguardano coloro che appartengono alla loro cordata. Gli errori altrui vengono ampliati, enfatizzati, riportati a piena pagina, anche quando sono di una vera e propria inutilità. Si accaniscono, perseguono, riescono a imbastire delle vere e proprie telenovele. Non ultimo il caso dell’accanimento terapeutico, come lo definisco io, contro il M5S che oggi governa la città di Roma. Per non parlare della propaganda e lo spazio dedicato a quella parte del referendum costituzionale che ne voleva la modifica.

C’è poco da fare, se un giornale ha un suo proprietario con specifici interessi in un qualsivoglia settore dell’economia, è ovvio che il taglio editoriale non potrà che favorire gli interessi di costui. Questo non per ledere la professionalità e l’integrità dei giornalisti, ma non possiamo nasconderci che costoro vengono pagati proprio da quel possessore di quella testata e che, avendo famiglia i vari giornalisti, prima o poi dovranno gioco forza assecondare il volere del padrone, altrimenti rischierebbero di restare disoccupati.         

Ritornando sulle difficoltà economiche oggi pone la vita della società moderna, tempo fa in una discussione addussi, quale testimonianza, un’affermazione di Epicuro[5], e cioè che “il vero piacere e la vera felicità non può essere acquistata e, di conseguenza, non si trova negli oggetti materiali” qualcuno mi propose di andare a ricordare questa massima a quei genitori che non riescono a dare il minimo essenziale ai propri figli, soprattutto in una società dove nell’ambito di uno stesso nucleo sociale le differenze economiche,  tra gli stessi soggetti,  sono diventate marcatamente differenti, passando dall’indigenza,  all’opulenza apatica e indifferente che riescono a convivere nell’ambito anche di uno stesso quartiere. 

Una precisazione: bisogna non sottovalutare, per poi meglio capire l’espressione e la portata dei miei giudizi, che questi non dovranno essere intesi circoscritti esclusivamente nell’area locale, bensì estesi, come meglio vedremo, nello sviluppo del nostro percorso, a tutti quei territori del mondo, dove alcune discussione potrebbero risultare alquanto platoniche[6], essendo il tessuto socio economico, caratterizzato da vera sofferenza e morte. Pertanto nelle nostre peregrinazioni, tra il mondo delle idee e quello materiale, cercheremo di non perdere mai di vista che il nostro concetto di vita e soprattutto di Felicità, non sempre coincide con quello di tanti altri popoli, molto, ma molto più sfortunati di noi.

Tornando invece a rivolgere il nostro interesse al nostro mondo, o meglio al nostro pianeta che gentilmente ancora ci ospita, non difficilmente ci accorgiamo di aver mortificato, vilipeso e violentato anche lui. Non abbiamo saputo avere rispetto nemmeno per lui che rappresenta l’elemento fondamentale su cui poggia la nostra esistenza, costituendo peraltro, il bene più prezioso anche della nostra vita. Il mondo, la natura che ci circonda, viene continuamente presa a calci nei fondelli, avendogli inferto delle profonde ferite ambientali e proseguendo con la lenta ma progressiva eliminazione della flora e della fauna. L’uomo secondo il mio personale parere, sino a quando non alzerà il livello del rispetto verso tutto ciò che lo circonda e senza distinzione alcuna, resterà sempre nell’era dell’inciviltà. L’uomo non ha alcun diritto, di nessun genere, di disporre della vita di un altro essere vivente, solo perché diverso da lui e peggio ancora ritenuto fondamentalmente inferiore[7].

In conclusione, questo primo paradosso sulla felicità della vita, sostanzialmente sta nel fatto che il mondo sicuramente continuerebbe a vivere (forse anche meglio) senza la presenza dell’uomo, mentre l’uomo pur avendo da millenni apprezzato la bellezza, la forza e lo straordinario equilibrio di madre natura, pare aver anteposto il suo personale egoismo, producendo disastri ambientali e rafforzando la diversità economica e sociale a favore di quella piccola parte del mondo, rappresentata da un misero 1%, che detiene l’80% della ricchezza universale.

LA SECONDA PARTE SARA’ ONLINE DOMANI


[1] Considerazione gratuita sulla composizione numerica dell’umanità, che dovrebbe in questo preciso istante in cui probabilmente starete leggendo questa “frase”, essere complessivamente rappresentata da un numero dispari.

[2] Dico al momento, perchè il progresso scientifico quanto prima potrebbe creare le condizioni di una sopravvivenza al di fuori del nostro pianeta. Per molti questa è fantascienza, ma teoricamente possibile e pertanto si tratterà solo di attendere un po’ di decenni.

[3] La differenza principale fra il concetto di etnia e quello di razza è che l’etnia si basa sulla storia comune di una determinata popolazione, resa più forte dall’avere una stessa religione, una stessa lingua e cultura, mentre le catalogazioni razziali sostengono di basarsi su comuni tratti fisici e genetici. 

[4] Come non citare, a proposito della ricchezza che non fa la felicità, questo proverbio: “La ricchezza non fa la felicità ma ti rende la vita più facile!”. 

[5] Epicuro è stato un filosofo greco. Discepolo di Nausifane e fondatore di una delle maggiori scuole filosofiche dell’età ellenistica e romana. Il pensiero di Epicuro, chiamato “epicureismo” si diffuse dal IV secolo a.C. fino al II secolo d.C. poneva essenzialmente il fine dell’uomo nel conseguire il piacere, inteso non come godimento sensuale, ma come equilibrio interiore, che il saggio raggiunge vivendo appartato, contentandosi di appagare i desiderî naturali e necessarî, e soprattutto liberandosi del superstizioso e vano timore della morte e degli dei. 

[6] Accenno brevemente, per una migliore comprensione il pensiero di Platone in materia di Politica Economica: Platone considera le attività economiche e lavorative come attività inferiori destinate alle classi inferiori. La società ideale di Platone (Utopia) dovrebbe essere collettivista, priva della proprietà privata e governata da una élite di sapienti. L’utopia di Platone si distingue dalla visione di altri filosofi greci, come Aristotele (v. Aristotele), in base al quale l’esistenza della proprietà privata riflette la stessa natura umana e non può essere del tutto abolito.

[7] Il rapporto tra l’uomo e il mondo animale è stato da me analiticamente affrontato nel mio libro “L’Utopia della ragione. La ginnastica delle idee” Edito da Youcanprint Edizione 2011.

Di Pompeo Maritati (Stralcio dal libro “La felicità interna lorda di un popolo”)

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